Machiavelli, un’etica pubblica e la buona politica

Che la politica sia autonoma dall’etica, secondo l’intramontabile lezione di Niccolò Machiavelli, significa che i suoi princìpi teorici, tattici e strategici, le sue dinamiche comportamentali e istituzionali, le sue pratiche propositive, contestative o governative, non possono essere giudicati sulla base di criteri etici e morali cui sono soggetti invece tutti gli altri pensieri e azioni degli uomini. Con e dopo Machiavelli gli uomini politici avrebbero appreso che la politica si colloca al di là del bene e del male e non deve render conto a nessuno delle sue pratiche se non nei limiti in cui lo richiedano le circostanze e la stessa ragion di Stato, il cui nucleo fondativo è costituito dal principio tuttavia etico del bene comune1. Come ricorda il filosofo Maurizio Viroli, l’idea della separazione o indipendenza tra politica ed etica corrisponde all’interpretazione che davano due importanti storici italiani di orientamento laico come Benedetto Croce, che si può considerare uno storico-teorico, e Federico Chabod, che va incluso tra i maggiori studiosi di storia moderna e contemporanea del ‘900.

Ma, in realtà, eccepisce il citato filosofo italiano naturalizzato americano, in Machiavelli il rapporto tra prassi politica ed etica è molto più stretto di quanto in passato sia potuto sembrare2. Contrariamente ad un logoro luogo comune secondo cui non avrebbe fatto altro che pensare a legittimare le efferatezze della politica e dei politici corrotti, egli avrebbe pensato ad un “principe”, ad un sovrano, ad un uomo di governo non solo competente ed esperto ma anche e soprattutto dotato di ineccepibili qualità morali e capace di perseguire, con passione e determinazione, il bene pubblico, il bene comune dei suoi sudditi e gli interessi generali dello Stato. L’uomo politico, per il cancelliere fiorentino, deve essere “virtuoso”, quindi particolarmente abile sia nella lettura e nell’interpretazione degli avvenimenti politici, dei rapporti di forza intercorrenti tra fazioni o gruppi contrapposti, degli strumenti o dei mezzi giuridici, legislativi, repressivi, necessari a conseguire determinati risultati, sia anche nell’esercizio vero e proprio dell’azione politica volta a contrastare tanto insorgenti e ancora prevedibili difficoltà, quanto imprevedibili fattori di disturbo che possono sempre interferire persino nei piani politici più lucidi, solidi e lungimiranti. La stessa virtù politica consiste, in particolare, nel non perdersi d’animo nei momenti di crisi, quando le cose sembrino mettersi male in rapporto alla possibilità etico-politica di conseguire scopi di utilità collettiva. Questo, tuttavia, non significa che il principe, il reggitore, il capo di Stato più virtuoso della terra, non possa fallire a causa di un insieme talmente complesso e imponderabile di circostanze da risultare politicamente insuperabile o irrisolvibile.

Ma, per Machiavelli, il principe virtuoso è soprattutto colui che, dotato di indipendenza di giudizio e di spirito di avversione per gli uomini subdoli e servili, si prefigga di perseguire inconfondibili ideali etici, come sono dei buoni ordinamenti istituzionali, la difesa dell’onorabilità della patria, l’impegno contro ogni genere di corruzione, la valorizzazione sociale dell’integrità morale dei singoli, l’avversione per ogni forma di regime dittatoriale3. Dunque, non sembra possibile che egli abbia pensato la politica come qualcosa di totalmente autonomo dall’etica e ai fini politici come a qualcosa di ibrido, come ad una specie di miscuglio di valori apparentemente morali e di valori sostanzialmente immorali, né infine può ritenersi plausibile l’inveterata tesi secondo cui il fine, qualunque fine, non necessariamente buono e legittimo ma anche immorale e illecito, giustificherebbe i mezzi per conseguirlo, giacché il presupposto da cui muove il ragionamento machiavelliano è che i fini politici debbano esprimere istanze morali e di etica sociale assolutamente inequivocabili, là dove di mezzi eventualmente non troppo ortodossi usati per raggiungerli, il principe, senza pretendere di potersi giustificare, si sarebbe dovuto semplicemente scusare per non essere riuscito a fare diversamente. Il fine non giustifica i mezzi in qualunque caso ma solo nel caso in cui esso sia un fine buono, un fine giusto o umanamente necessario, là dove appunto, nel caso in cui i mezzi usati producano effetti indesiderati anche se non voluti, il principe potrà o dovrà porgere correttamente le scuse al suo popolo.

Naturalmente, l’etica è una sfera del sapere umano molto più ampia e articolata di quanto generalmente si immagini. Non è vero, per esempio, che essa prescriva sempre e comunque di astenersi da ogni atto violento. Persino l’etica biblica ed evangelica contempla la possibilità che si faccia talvolta ricorso alla forza, in quanto essa, da una parte, riconosce e legittima l’autorità di Cesare, dello Stato, in quanto derivante da Dio (ma Machiavelli, al pari di molti suoi contemporanei, non riconosceva le origini divine dello Stato), e quindi anche della forza preposta a garantire il rispetto delle leggi e a tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica, mentre dall’altra, mentre esige dai singoli il massimo sforzo possibile al fine di depotenziare ogni incipiente rapporto di conflittualità con i propri simili e disinnescare, o quanto meno ridurre, la carica di violenza spesso inerente le relazioni interpersonali e sociali, non disconosce il dovere-diritto alla legittima difesa, pur subordinandone l’esercizio a doti di prudenza, di saggezza, ovvero alla capacità di stabilire se o quando sia o non sia strettamente necessario ricorrere alla forza, sia pur sempre nei limiti delle proprie possibilità personali. Pertanto, checché ne pensasse Machiavelli, che aveva una conoscenza men che discreta delle Sacre Scritture, pur attribuendo alla Chiesa la responsabilità di aver provocato la degenerazione della religione, l’etica, nella sua applicazione alla politica, poteva essere, anche da un punto di vista cristiano, legittimamente ricettiva dell’ipotesi che, per motivi di ordine pubblico o per la difesa della libertà, dei diritti, dei beni, della vita stessa dei sudditi, lo Stato e, talvolta, anche i singoli individui, potessero fare uso della forza o della violenza4. L’etica politica non poteva essere tacciata di immoralità, né di veicolare una perversa idea della politica, solo perché in taluni casi concepisse l’uso della forza come necessario, la forza come extrema ratio. Questo era il concetto machiavelliano su cui un’etica evangelica avrebbe potuto mostrarsi intrinsecamente possibilista.

Si dà in Machiavelli un’autonomia della politica, ma non nel senso che la politica non debba dar conto delle sue scelte e dei suoi atti alla morale, per quanto riguarda i comportamenti politici individuali, e all’etica, per quanto riguarda decisioni, provvedimenti, sanzioni, adottati nei confronti dell’intera comunità politica, bensì nel senso che, tuttavia, la sfera d’azione e d’influenza della prassi politica ha una natura diversa da quella e specifica rispetto a quella che si riferisce alla sfera della comune attività umana, dove i rapporti umani sono condizionati prevalentemente dall’indole individuale, dalla buona educazione, dalle capacità relazionali e persuasive, da intese e compromessi di diverso genere, anche dalla possibilità di ricorrere al giudice, piuttosto che dalla contrapposizione spesso non ricomponibile di interessi che trascendono la volontà dei singoli, da discordanti o conflittuali concezioni del bene comune e dalla conseguente inclinazione ad un reciproco irrigidimento delle parti, da una ricerca spregiudicata e scomposta infine di modi astuti e allettanti di competizione politica sul piano della comunicazione e della propaganda per allargare il consenso dei bacini elettorali di riferimento. In tal senso, ha ragione Manuel Knoll nel respingere come pregiudizi, del tutto privi di fondamento, le innumerevoli accuse di immoralismo o amoralismo rivolte nei secoli al pensatore fiorentino, e nel sostenere invece che egli fosse un “realista politico” capace di sviluppare quel tipo di etica politica che Max Weber ha definito ”etica della responsabilità”. Secondo Machiavelli, se la politica si basa sul potere e sulla forza, ha argomentato criticamente Knoll, occorre sviluppare un’etica specifica per questo ambito del comportamento umano5.

La conflittualità è tratto costitutivo e permanente tanto dei rapporti personali e dei rapporti civili quanto dei rapporti politici, ma nel primo caso sono in gioco interessi privati, nel secondo interessi pubblici e quindi molto più estesi, compositi e determinanti ai fini dell’impatto che l’adozione di determinati processi decisionali potrà venire esercitando sulla vita economica e sociale complessiva dell’entità statuale. Questo significa che il politico non sempre può attendere i tempi dell’accertamento burocratico, amministrativo, finanziario o fiscale, per autorizzare la realizzazione di opere pubbliche o di iniziative di diverso genere. Se ne può quindi inferire che le normative, i criteri, i giudizi assiologici e deontologici che dovranno valere per l’agire politico non potranno essere così elementari, univoci, rapidi, incontrovertibili, come lo sono generalmente per la vita morale individuale e la vita etico-civile, a meno che il politico non si renda responsabile di atti corruttivi o di illeciti talmente eclatanti e ingiustificabili da non richiedere specifici approfondimenti  critico-razionali in materia etica.

Il politico è autonomo dall’etica solo nel senso che, essendo esso un’articolazione importante dell’umana razionalità, non sempre può aderire perfettamente, per suoi interni e specifici motivi di funzionalità, a modelli etici tradizionali o consolidati o comunque vigenti in una mentalità sociale maggioritaria. Beninteso, lo stesso ragionamento  può valere, a determinate condizioni, da un punto di vista religioso e, più specificamente, cristiano, per cui, ad esempio, può essere ritenuto moralmente riprovevole il cristiano che non sia disposto a riconoscere eticamente, giuridicamente e socialmente la legittimità di leggi sul divorzio, sull’aborto, sulle cosiddette unioni civili, e via dicendo, anche se poi risulti molto problematico validare tale giudizio sia in sede di etica generale che in sede di etica religiosa.

Ora, Machiavelli descrive la realtà politica per quel che essa effettivamente è, non certo per quel che dovrebbe essere, ma sempre augurandosi che tale realtà effettuale, carica di contraddizioni e di sgradevoli criticità, possa evolvere verso le forme politiche e statuali da lui agognate. Così, alla sua analisi storico-scientifica viene accompagnandosi la sua visione politico-ideologica della società italiana di fine ‘400-inizio ‘500. L’analisi è impietosa, in quanto coglie la frammentarietà della situazione politica italiana, i particolarismi degli Stati peninsulari, la loro rivalità e contrapposizione, la mancanza di uno spirito di unità e unificazione nazionale tra sovrani di limitate realtà politiche in un’Italia profondamente divisa e socialmente ed economicamente frammentata, oltre che in balìa dei grandi Stati nazionali d’oltralpe, tra i quali invece avrebbe dovuto trovare presto collocazione con una sua precisa identità  nazionale6, ma la passione ideologica, che è quella di un fervente spirito repubblicano, lo induce a delineare il profilo di un capo politico energico, volitivo, audace, determinato a perseguire, nel cuore dell’Italia, il disegno di costituire una forte entità politico-territoriale non certo di tipo dittatoriale ma fondata su ordinamenti repubblicani e su costumi liberi e virtuosi. Però, con tutto il rispetto per gli studi machiavelliani di Viroli, che dimostra di aver fatto una accurata e intelligente lettura interna delle opere di Machiavelli, quella qui sinteticamente descritta è l’interpretazione che aveva fornito, nei suoi Quaderni, Antonio Gramsci.

A differenza di Croce e Chabod che avevano interpretato il teorico fiorentino ponendosi dal punto di vista di uno Stato effettuale, qual era quello che scaturiva sostanzialmente da tutta la storia europea e occidentale, e il cui problema era quindi l’esercizio della sua autorità e della sua forza in funzione della conservazione e della difesa delle strutture statuali di potere e delle strutture organizzative date della società, Gramsci, individuando nei “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” (1513-1519) l’imprescindibile presupposto teorico e ideale di “Il Principe” (1513-1515), si poneva dal punto di vista dei soggetti sociali amministrati e subalterni, delle masse popolari che aspirassero ad operare un capovolgimento del potere autoritario, dispotico o dittatoriale, centralistico e dirigistico dello Stato esistente in funzione di un esercizio meno autoritario e verticistico, si potrebbe dire con un’espressione impropria ma significativa più liberale e democratico e volto a perseguire non più interessi privati e particolaristici ma pubblici e collettivi, potenziando ad un tempo gli ordinamenti civili e giuridici della compagine statuale e sociale in senso decisamente egualitario. Mentre Croce e Chabod interpretavano Machiavelli pensando a come lo Stato si dovesse difendere da disordini o rivolgimenti interni e sussulti rivoluzionari, il problema di Gramsci era esattamente opposto, non quello cioè regressivo di salvare lo status quo, ma quello rivoluzionario, emancipativo, di come fosse possibile, nello spirito repubblicano di Machiavelli, attaccare e indebolire i centri di potere di uno Stato assoluto nella prospettiva dell’instaurazione di uno Stato forte ma non assoluto, autorevole ma popolare, centralizzato ma funzionale al soddisfacimento di diffuse, essenziali e urgenti esigenze di massa.

Sia pure con qualche forzatura di segno “progressista” o addirittura “populista”, si è venuto asserendo, si pensi a McCormick, che «Machiavelli va considerato il primo “teorico democratico” nella storia del pensiero politico occidentale. Machiavelli cancella la distinzione classica tra aristocratici e oligarchi, accusando le élites socio-economiche di essere sempre agenti di oppressione sulla gente comune. Inoltre, Machiavelli sviluppa i pochi passaggi presenti nel pensiero politico precedente in cui si ammetteva (a malincuore) che la gente comune è in grado di prendere le decisioni giuste, e su questa base edifica una nuova teoria democratica. Ancora oggi studiosi di fama si fissano sui pochi passi in cui Machiavelli rimprovera al popolo alcune decisioni sbagliate, mentre ignorano completamente le scelte ben più calamitose che nelle sue opere compiono i senati aristocratici delle repubbliche di Sparta, Roma, Venezia e Cartagine»7. In realtà, Machiavelli non parteggia né per i ricchi, gli aristocratici, gli oligarchi, né per i poveri e, più in generale, per le classi subalterne, perché tutte le parti politiche sono chiamate ad essere “virtuose” nel rispetto dei propri ruoli e tutte possono commettere errori ai danni dello Stato. A lui non interessa il trionfo, il dominio o l’egemonia di una determinata classe sociale, ma il buon funzionamento dello stato in una data situazione storico-economica, e la sua fede repubblicana si spiega con la convinzione che i governi dispotici o dittatoriali, come quelli asiatici, non favoriscano né la libertà e la prosperità dei popoli, né quelle degli individui.

Tuttavia, a rendere celebri nella cultura contemporanea il nome e l’opera di Niccolo Machiavelli, sarebbe stata principalmente l’interpretazione progressista, sopra ricordata, che ne avrebbe dato Antonio Gramsci nello spazio angusto e deprimente di un carcere in cui non si sarebbe mai stancato di lavorare al progetto politico e culturale di rendere possibile, in un’Italia finalmente libera dal regime fascista, un’ascesa di forze proletarie e popolari, strettamente collegata alla funzione direttiva e organizzativa di quel che egli avrebbe chiamato il “moderno Principe” ovvero il Partito comunista italiano. Ma dev’essere chiaro che, per il cancelliere fiorentino, la grandezza di uno Stato sarebbe dipesa dalla consapevolezza etica, dalla coerenza e dalla generosità con cui i governati, anche al di là di eventuali scelte e decisioni improvvide dei governanti, si fossero impegnati per salvaguardarne, in qualsiasi circostanza e congiuntura storico-politica, l’indipendenza e l’unità, il non asservimento a potenze straniere e a logiche finanziarie antitetiche agli interessi nazionali. Il lettore potrà stabilire se e in che misura tale messaggio conservi anche per il presente una sua attualità, specialmente in considerazione della generale e crescente condizione di passività che sembra caratterizzare la partecipazione dei cittadini di tutto il mondo alla vita politica dei loro Stati di appartenenza8.

Lo Stato repubblicano, oggi come ieri, può essere salvato solo se a guidarlo da posizioni di governo, all’unisono con un sentire popolare non falsato da facili illusioni e da aspettative esorbitanti, siano uomini “virtuosi”, intuitivi, previdenti, risoluti e determinati ad agire sempre e soltanto, con provvedimenti e atti consequenziali, al di fuori di logiche parziali e distorsive di censo o di partito e di pur accreditati gruppi di influenza, e più esattamente in funzione delle oggettive e prioritarie necessità di tutto il popolo. Bisognerà che gli italiani, non solo gli studenti della secondaria superiore, ma anche e soprattutto molti adulti e, più segnatamente, coloro che vengano assumendo responsabilità di governo, tornino a leggere e a meditare su grandi italiani del passato, a cominciare da Dante Alighieri e appunto Niccolò Machiavelli, la cui perenne lezione è che il principe o il sovrano deve esprimersi con fermezza, avendo come unico obiettivo il bene comune e il bene comune non astrattamente postulato ma chiaramente e analiticamente specificato, con la consapevolezza di dover rischiare in prima  persona. Nelle loro rispettive epoche, il loro coraggio non venne premiato e restarono entrambi inascoltati. Continuare ad ignorarne le riflessioni e gli appelli significa decretarne ancora una volta, e più stoltamente che in passato, l’insignificanza etica e politica.

Molti ritengono che in Machiavelli ci sia una grande valorizzazione della vita terrestre, della vita storica, della vita immanente, che egli avrebbe considerato come l’unica forma di vita esistente, senza riservare la benché minima attenzione ai fattori spirituali e religiosi. E c’era indubbiamente del vero nel giudizio espresso più di mezzo secolo fa da Alexandre Koyré, anche se la particolare e innovativa complessità dell’elaborazione politica machiavelliana tende in qualche modo a sfuggire a giudizi troppo netti e tassativi com’è quello di Koyré qui di seguito riportato: «Con Niccolò Machiavelli siamo veramente in un mondo tutto diverso. Il Medioevo è morto, anzi, è come non fosse mai esistito. Tutti i suoi problemi — Dio, la salvezza, i rapporti tra oltremondo e mondo, la giustizia fatta fondamento divino del potere —, nulla di tutto questo esiste per Machiavelli. Egli conosce una realtà sola, quella dello Stato, e per lui c’è un solo fatto, quello del potere. Quindi, a lui interessa un solo problema: come si afferma e si conserva il potere dello Stato […]. L’immoralismo machiavelliano è semplicemente un fatto logico. Dal punto di vista da cui egli guarda le cose, religione e morale non sono che fattori sociali, ossia sono fatti che occorre saper usare e con cui fare i conti. Solo questo, e basta!»9.

Ma Machiavelli, come qualche autorevole studioso cattolico ha mostrato, a parte “Il Principe”, in altri suoi scritti non è ostile, almeno da un punto di vista politico, al cristianesimo, e anzi la sua critica all’uso corrotto e scellerato fatto dalla Chiesa della religione è funzionale ad una rifondazione della fede religiosa in rapporto agli obblighi civili che i cittadini devono assolvere in modo onorevole, giacché per Machiavelli non è il buon cittadino che deve essere un buon cristiano, ma piuttosto è quest’ultimo che dev’essere un buon cittadino al servizio della libertà e del bene comune10. Machiavelli pensava che il vero cristianesimo non si dovesse interpretare secondo «ozio», secondo cioè la massima del “porgere l’altra guancia” da lui intesa nella corrente interpretazione ecclesiastica, ma secondo «virtù»11, secondo cioè la consuetudine etica degli uomini di valore di rispondere alla forza con la forza, alla forza delle offese con la forza delle difese personali o collettive. In questo senso, egli non poteva essere cristiano, anche se, a dire il vero, da una interpretazione rigorosa dei famosi versetti evangelici qui richiamati potrebbe ricavarsi un’immagine più sfumata, più reattiva o energica e meno passiva e rassegnata, dell’etica cristiana. Di sicuro, l’etica cristiana non è un’etica dei paurosi, dei vili, dei remissivi o degli arrendevoli, bensì un’etica della prudenza, della saggezza, della rinuncia volontaria e responsabile, ma anche dell’indignazione morale e della contestazione profetica, cui peraltro non sempre i cristiani più integri riescono ad ottemperare. Niccolò avrà di certo intuito, dalle parole e dalle vicende del Cristo, che il cristianesimo non poteva significare spirito di resa, di capitolazione, di servile assenso e ignobile fuga dal pericolo, ma esattamente il contrario di tutto ciò, anche se non accompagnato da sfrontatezza, da odio radicale, da reazioni scomposte e incontrollate al male ricevuto, da deliberato spirito di vendetta. E quindi non è sotto questo aspetto che egli potrà essere considerato un nemico o un critico del cristianesimo.

Peraltro, un giovane ricercatore universitario ha aperto un suo recente lavoro sulla concezione della religione cristiana in Machiavelli con una considerazione filologicamente documentata e ineccepibile che merita qui di essere riportata integralmente: «Se si aprono i Discorsi, al capitolo decimo del primo libro, ci si imbatte in un’affermazione inaspettata: “Intra tutti gli uomini laudati, sono laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso dipoi quelli che hanno fondato o repubbliche o regni. Dopo a costoro sono celebri quelli che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il regno loro o quello della patria. A questi si aggiungono gli uomini letterati, e, perché questi sono di più ragioni, sono celebrati ciascuno d’essi secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il numero de’ quali è infinito, si attribuisce qualche parte di laude, la quale gli arreca l’arte e l’esercizio suo”. Elencando cinque categorie di uomini utili alla vita associata, Machiavelli mette dunque al primo posto i fondatori di religioni e colloca solo dopo di loro i fondatori di comunità politiche, siano esse repubbliche o regni, quasi che la dimensione della religione sia più importante di quella politica in senso stretto»12. Per tutti quegli studiosi che, per tutto il Novecento e oltre, non hanno esitato a parlare di immoralismo, amoralismo, ateismo, e via discorrendo, lo smacco è già evidente, anche a prescindere dai motivi reali che abbiano potuto indurre il teorico fiorentino ad esprimere un giudizio così chiaro e in apparenza esente da qualsivoglia genere di ambiguità. Tuttavia, l’indagine storico-critica cui ci si riferisce, condotta in modo corretto e con grande onestà, mette gradualmente in evidenza che, per Machiavelli, un certo uso pragmatico e strumentale della religione, della fede in Dio e nelle realtà ultraterrene, conferisce credibilità e una patina talmente spessa di moralità e spiritualità all’attività politica di conquista del potere o di governo, da risultare una pratica sociale di fondamentale importanza sia ai fini della conservazione e del consolidamento dei buoni ordinamenti repubblicani, sia ai fini di una possibile «rifondazione civile» di uno Stato che attraversi gravi momenti di crisi e di decadenza civile e istituzionale 13, donde la grande importanza politica riconosciuta da Machiavelli alla religione.

In ogni caso, appare evidente come il pagano “onore del mondo” sia opposto al cristiano “dispregio delle cose umane”, «la vita activa alla vita contemplativa, l’agire al “patire”, la fortezza e la ferocia all’umiltà e all’abiezione … La religione degli Antichi, avendo posto il “sommo bene” su questa terra, … nella sopravvivenza e fortuna della comunità politica cui si appartiene, favorisce l’obbedienza ai governanti civili e militari e spinge alla pratica della virtù politica. La religione dei Moderni, il Cristianesimo, ponendo il “sommo bene” in un’altra vita, la felicità nella vita eterna presso Dio, divide la coscienza dell’individuo, esponendola ad un potenziale conflitto di fedeltà. Non favorisce, quindi, l’interesse per le vicende politiche terrene, l’obbedienza ai governanti in pace e in guerra, la pratica attiva delle virtù politiche e militari. Chi voglia costruire anche nel mondo moderno delle repubbliche che consentano l’esperienza della libertà individuale e collettiva, e che richiedono però la pratica delle virtù politiche e militari, non può che guardare con sospetto ai Cristiani e al Cristianesimo. Alla fin fine, i Cristiani si rivelano essere amici, o quantomeno succubi, degli “uomini scelerati”, dei tiranni, dei governanti dispotici: preferiscono “sopportare le [loro] battiture”, piuttosto che reagire attivamente ad esse e “vendicarle”»14. Ma, ancora una volta, l’interpretazione machiavelliana è possibile in rapporto al modo più comune e semplificato in cui il messaggio evangelico sarebbe stato recepito e trasmesso nei secoli, ma, al tempo stesso, non è propriamente conforme alla lettera e allo spirito biblico-evangelici  secondo cui dovrebbe essere stata stabilmente acquisita in passato e potrebbe essere intesa ancora oggi al di fuori di ingiustificati e arbitrari condizionamenti pastorali e teologici di tipo paternalistico e pacifista.

Gesù è stato chiaro: il cristiano è tenuto ad obbedire a Dio per le cose dello spirito e del Cielo, ma è tenuto ad obbedire a Cesare, al Principe, allo Stato, in ordine ai doveri temporali e terreni, compatibilmente con le leggi e i comandi di Dio stesso. Tra quest’ultimi non risulta incluso il dovere di esimersi dal difendere la patria in armi, di opporsi ad un giusto esercizio statuale di mezzi coercitivi e pene detentive o capitali, né l’obbligo di consentire a malvagi, corrotti e perversi di dettar legge a proprio piacimento ad una comunità civile che reclami di essere governata secondo buoni princìpi e sani costumi15. A dimostrarlo, peraltro, anche a dispetto di una costante e pretestuosa polemica laica e religiosa interessata più a seminare zizzania che a capire come il più grave peccato che possa commettersi contro la Parola di Dio sia quello di farne un uso superficiale e strumentale, e sia pure tra luci e ombre oggettive, ci sono duemila anni di storia civile e religiosa cristiana. Non è che alcune particolari forme di sensibilità in ordine al tema della violenza in generale non possano o non debbano essere rispettate e tutelate nel segno del cristianesimo, ma le potenzialità etiche e spirituali espresse da quest’ultimo sono molto più ampie, robuste, virili (visto che il cancelliere toscano era propenso talvolta ad attribuire ad esso la responsabilità di aver contribuito ad effeminare il mondo) di quanto lo stesso Machiavelli non abbia saputo o voluto intendere. Il punto centrale della questione è che egli non avrebbe voluto una religione debole, timida, permissiva, ma una religione forte, risoluta e severa, mentre quel di cui non appare affatto consapevole è che la religione cristiana, al di là delle sue forme storico-fenomenologiche, è, in senso eidetico, appunto forte, risoluta e severa, oltre che sommamente misericordiosa e caritatevole. Si può dire che sia rimasto, in parte, intellettualmente cristiano senza saperlo, pur imboccando verosimilmente altre strade in senso esistenziale.

Tuttavia, bisogna convenire che «il piano del suo discorso non è quello della verità e delle pretese di verità, ma quello dell’efficacia storica e sociale; il fuoco del ragionamento non verte sulla trascendenza, ma sull’immanenza: sulle conseguenze che la fede nella trascendenza può avere sull’immanenza»16. Ma qui la sua analisi investiva non più la fede religiosa come tale, la religione cristiana in quanto dottrina e lucida e lungimirante teologia, ma la Chiesa cattolica, i suoi papi, vescovi, preti, insieme ai suoi apparati disciplinari e di potere, insomma tutti coloro che, sul piano storico-fattuale, avrebbero dovuto dare costante e corretta e non discontinua e incoerente esecuzione ai princìpi e ai valori cristiani. In sostanza, la sua etica politica recepisce indubbiamente alcuni tratti della religione civile pagana, senza essere animata dal sospetto che l’annuncio evangelico avrebbe provveduto non già a negarne ma ad integrarne e affinarne ulteriormente i sentimenti di amore per la vita e la dignità dell’uomo. La sua etica politica, altresì, si sarebbe nutrita inconsapevolmente di insegnamenti e valori cristiani, che attendono ancora di squadernarsi al mondo nella loro pienezza etica e nel loro massimo fulgore spirituale e religioso. 

Francesco di Maria

NOTE

1Perciò, come tra altri ha sostenuto anche F. Bausi, Machiavelli, Roma, Salerno Editrice, 2005, in Machiavelli non si dà separazione tra politica e morale, in quanto l’azione politica, che può produrre indubbiamente effetti efferati, ha una natura profondamente morale ove invece sia volta al bene dello Stato e al conseguimento della sicurezza e del benessere di sudditi o cittadini.

2 M. Viroli, La redenzione dell’Italia. Saggio sul “Principe” di Machiavelli, Roma-Bari, Laterza, 2013.

3 M. Viroli, Scegliere il Principe, Roma-Bari, Laterza, 2014 e Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Roma-Bari, Laterza, 2016.

4 Si rinvia, su questo essenziale aspetto della disamina etica machiavelliana, alle attente considerazioni di G. Ferroni, Premessa, in M. C. Figorilli, Machiavelli moralista. Ricerche su fonti, lessico e fortuna, Napoli, Liguori, 2006, p. XIII.

5 M. Knoll, L’etica politica in Machiavelli, Relazione tenuta presso l’Aula Magna dell’ISIA di Roma, 16 maggio 2017.

6 Non si può mancare di notare che, come già scriveva F. Chabod, Storia dell’idea di Europa, Bari, Laterza, 1961, p. 48, «La prima formulazione dell’Europa come di una comunità che ha caratteri specifici anche fuori dell’ambito geografico, e caratteri puramente ‘terreni’, ‘laici’, non religiosi” è del Machiavelli. E, poiché è del Machiavelli, non potrà essere che una formulazione di carattere politico».

7 Intervista di G. Pedullà a John P. McCormick, Democrazia machiavelliana, in “Doppiozero” del 10 aprile 2021. Il titolo completo del libro è McCormick, Democrazia machiavelliana. Machiavelli, il potere del popolo e il controllo delle élites, Roma, Viella, gennaio 2021.

8 Cfr. A. Gnoli-G. Sasso, I corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli, Milano, Bompiani, 2013; G. M. Barbuto, Machiavelli, Roma, Salerno Editrice, 2013; G. Ferroni, Machiavelli o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma, Donzelli, 2003. Dice Giulio Ferroni che da Machiavelli oggi si può imparare «il concetto di politica come arte del rimedio. Machiavelli ci dice in qualche modo che compito essenziale della civiltà e della politica è quello di studiare e mettere in atto rimedi ai mali e alle rovine che nascono dal loro medesimo seno. Da questo presupposto scaturiscono altre considerazioni, come la coscienza del fatto che l’agire dei contemporanei è comunque “venuto dopo”: l’importanza, cioè, di avvertire tutto il carico del passato sul presente, di tenere quindi presenti gli errori. Questo può far percepire la relatività di ogni obiettivo e di ogni meta, sempre provvisori. C’è poi il richiamo alla violenza originaria, violenza presente anche oggi nella tragica serie di conflitti in atto: il realismo di Machiavelli può rappresentare un invito ai nostri politici a non sottovalutare questa ineludibile “necessità” antropologica» (Intervista di P. Mattei a G. Ferroni, Machiavelli. La politica come rimedio, in “30Giorni” del 2004, n. 1).

9 A. Koyré, Études d’histoire de la pensée scientifique, Paris, Gallimard, 1966, p. 11.

10 F. Occhetta, “Il Principe” di Machiavelli, in “La Civiltà Cattolica”,  26 dicembre 2015, Quaderno 3972, pp. 566-577; M. Viroli, Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2005.

11 Importanti, al riguardo, le note di G. Sasso, Considerazioni su Machiavelli e sulla decisione morale, relazione tenuta il 23 novembre 2011 presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e pubblicata nella rivista “Filosofia italiana” nel marzo 2013, pp. 7-8 e sgg.

12 M. Geuna, Religione e politica in Machiavelli: l’analisi del cristianesimo nelle pagine dei Discorsi, in AA.VV., Religione e politica. Paradigmi, alleanze, conflitti, Pisa, ETS, 2022, p. 65.

13 Da questo punto di vista, anche l’ipotesi espressa da M. Ciliberti, Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia, Roma-Bari, Laterza, 2019, può essere parzialmente accolta o ritenuta plausibile: quella per cui, per citare dalla recensione di S. Danzilli, Ragione e pazzia. L’attualità di Machiavelli, in “Materialismo Storico”, n. 2/2019 (vol. VII), p. 266, «la religione non è un instrumentum regni e un elemento di conservazione, ma deve essere utilizzata per il suo potenziale rivoluzionario, cioè come “mito” di rifondazione civile», da dove però il significato strumentale della religione resta pienamente confermato.

14 M. Geuna, Religione e politica in Machiavelli, cit., p. 93.

15 Machiavelli tende a sottovalutare questo passaggio evangelico di Gesù circa la liceità di ottemperare a Cesare, allo Stato, in una bene intesa e non fraintesa fedeltà spirituale e religiosa a Dio, ma è da dire che ancora oggi non solo al volgo ma anche a menti, tanto laiche quanto confessionali, esercitate nella raffinata arte dello studio, dell’esegesi e dell’ermeneutica, il significato di tale passaggio resta incompreso o non pienamente assimilato, come accade anche per lo studio di Giorgio E. M. Scichilone, Introduzione. La cultura cristiana in Machiavelli e Machiavelli nella cultura cristiana. Alcune considerazioni, in Rivista “Storia e Politica”, Anno III, n. 1, 2011, in particolare pp. 31- 42. 

16 M. Geuna, Religione e politica in Machiavelli, cit., p. 72.

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