Il pacifismo malattia infantile del cristianesimo

La violenza che inerisce la storia dell’universo e delle vicende umane costituisce una realtà prismatica: si può leggere sia al singolare come blocco unico, monolitico di universale energia distruttiva, sia anche, e per derivazione da tale blocco, al plurale come famiglia o arcipelago di forme di violenza differenziate e diverse per intensità, per funzione, intenzionalità, modalità, risultati e scopi. Di tali forme di violenza, alcune sono naturali altre artificiali, alcune meccaniche altre volontarie, alcune impersonali, necessarie, costanti e relativamente immodificabili, altre indotte, ricercate, mutevoli e contingenti, alcune consapevoli altre inconsapevoli, alcune più massicce e cruenti altre più sottili e in apparenza incruenti (1). Per i cristiani in generale, la violenza incombe sulla vita degli esseri viventi e non viventi, degli esseri umani, e sullo stesso universo, sullo stesso habitat naturale in cui essi risiedono, sin dal peccato originale con cui essi avrebbero infranto il rapporto di amicizia con Dio. Da quel momento la violenza, in forme molteplici e diverse, si sarebbe insinuata sia nei meccanismi del mondo naturale, sia nella struttura psico-fisica dell’uomo e nelle stesse dinamiche storiche di sviluppo del genere umano.

Ma se per quanti ripongono la loro fede nelle Sacre Scritture, la violenza, in senso generale, risultando intellettualmente esplicabile per l’appunto alla luce di una colpa umana di origine contro la stessa fonte divina e creatrice di ogni possibile vita, non rappresenta qualcosa di assolutamente innaturale, irrazionale, qualcosa di esistenzialmente e storicamente “scandaloso” e tale da dover essere demonizzato come realtà altra e antitetica rispetto ad una struttura ontogenetica e filogenetica presuntivamente pacifica e collaborativa del soggetto umano, anche non credenti e laici non cristiani hanno la oggettiva possibilità di constatare che tanto le leggi di natura quanto le leggi psichiche, mentali, comportamentali dell’uomo in genere, producono in realtà non solo ordine e armonia, regolarità e bellezza, intelligenza e razionalità, ma anche disordine e caos, abnormità e mostruosità, pulsionale e irrazionale passionalità e più o meno distruttiva violenza. Sempre per i credenti teologicamente coerenti e consequenziali, inoltre, l’origine o la radice ultima, si potrebbe dire noumenica, della violenza, che viene manifestandosi tanto nel mondo fisico-naturale quanto in quello storico-umano, in altri termini nell’intero mondo creato, è riconducibile alla realtà ontologica e sovrannaturale di Dio, della cui onnipotenza la violenza è non solo proprietà costitutiva ed esclusiva, ma anche possibile forma di estrinsecazione della sua giustizia e della sua misericordia. Gli atei, naturalmente, non hanno accesso a questo possibile ordine concettuale di natura religiosa, ma, a meno di più o meno evidenti e preconcette forzature logico-interpretative o ideologiche, hanno l’oggettiva possibilità teorica di convenire con i credenti sul piano fenomenico e storico sulla non estraneità e sulla connaturalità della violenza alla struttura fisico-biologica della vita vivente e alla stessa struttura di quella non vivente, per cui a tutti, in tal senso, è possibile riconoscere come incontrovertibile dato di fatto che la natura esercita la sua violenza sull’uomo ma l’uomo esercita la sua violenza sulla natura e sull’uomo stesso, la storia è un gigantesco calderone di violenza ribollente che non di rado ne fuoriesce riversandosi distruttivamente su scenari piccoli e grandi di vita associata, la cultura che della storia è parte integrante non può che rifletterne carsicamente le molteplici e imprevedibili traiettorie di potenziale esplosività.

La vita stessa si origina dal trauma della nascita rimanendo poi costantemente soggetta ad un variabile insieme di eventualità negative fino ad andare irreversibilmente incontro all’evento più drammatico e violento della vita stessa: la morte. E’ davvero singolare che si parli tanto di razionalità e conoscenza, di scienza ed economia, di cultura e politica, e si tenda a parlare di violenza sempre e solo per deplorarne e condannarne, più o meno ipocritamente, gli effetti più orribili o mostruosi, quasi che l’uomo fosse abitato geneticamente e storicamente molto più dalla bontà e dalla mitezza che non dalla cattiveria e dall’aggressività. Se ne può dedurre che, più che demonizzare o esorcizzare la violenza, sarebbe necessario affrontarla come oggetto di indagine razionale, di approfondi-mento etico e morale, e forse soprattutto di riflessione religiosa, per stabilire quali siano eventualmente i modi migliori per contenerla entro limiti di fisiologica normalità o farla recedere da punte abnormi di criticità. Ne era perfettamente consapevole Hannah Arendt quando affermava: «Chiunque abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla politica non può non essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre svolto negli affari umani, ed è a prima vista piuttosto sorprendente constatare come la violenza sia stata scelta così di rado per essere oggetto di particolare attenzione» (2). 

L’approccio di Arendt al problema della violenza non era tanto di tipo metafisico e teologico, quanto di tipo filosofico-morale e filosofico-politico, per cui la violenza nel suo giudizio viene intesa in un’accezione meramente negativa e riferita unicamente a quella sfera volitiva ma anche irrazionale degli uomini che troppo spesso tende a soverchiare la loro natura di esseri razionali. Purtroppo, i pacifisti assoluti, quelli cioè che muovono una lotta programmatica e aprioristica, almeno a parole, alla violenza di qualsiasi genere, offensivo o difensivo che sia, non si rendono conto che spesso la non violenza, contro le forme più crudeli, ostinate ed efferate, di violenza, è del tutto inefficace tanto sul piano pratico-fattuale quanto su quello etico e politico. Sarebbe stato un pacifista illuminato ma anche scomodo, realista e responsabile come Günther Stern/Anders, che per un certo periodo di tempo sarebbe stato sposato con la suddetta filosofa, a infliggere un duro colpo al movimento pacifista internazionale, nel momento in cui egli decide di muovere una critica radicale al principio pacifista della non violenza assoluta (3). Posto che, a suo giudizio, chiunque si trovi in uno stato di estrema necessità, può ricorrere in modo del tutto comprensibile alla violenza e non può anzi non assumersi la responsabilità morale di proteggere la propria vita da ingiustificati attacchi offensivi e delittuosi, la forma di violenza che maggiormente lo preoccupa e viene sollecitando in lui l’idea di una controviolenza come legittima difesa rispetto ad un pericolo oggettivo e reale per l’intera umanità è quella che si riferisce alla proliferazione nucleare, all’indomani di eventi novecenteschi già tragici come il genocidio nazista di ebrei, di altri gruppi etnici e di tante altre categorie di persone, i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, la tragedia di Chernobyl e quella molto recente di Fukushima.

In rapporto alla minaccia nucleare contemporanea, la sua posizione diventa apparentemente contraddittoria ma soprattutto veemente e provocatoria, in quanto diretta contro tutti coloro che, sia pure per motivi e in modi diversi, tendono a giustificare la costruzione di congegni nucleari sempre più sofisticati e pericolosi e armi sempre più micidiali di distruzione di massa che pongono il genere umano in uno stato di emergenza globale e permanente, ovvero in uno stato di assoluta necessità, a causa della quale e in opposizione alla quale, egli viene sostenendo, la violenza non solo è consentita ma dev’essere persino raccomandata. Per lui coloro che terrorizzano l’umanità con esplosive e letali tecnologie di morte collettiva, devono cominciare a percepire anche sulle proprie persone, sui propri corpi, la concreta minaccia di essere aggrediti e uccisi, perché solo in tal modo potrebbe arrestarsi una corsa sempre più vertiginosa al potenziamento dell’industria nucleare e dei suoi spaventosi ordigni di annientamento planetario. Una tesi estremista di questa natura avrebbe messo in crisi il movimento pacifista internazionale, che avrebbe peraltro ravvisato nel ragionamento di Anders propositi di natura non solo polemica ma anche terroristica, anche se il filosofo tedesco, sia pure in modo paradossale, dinanzi alla crescente possibilità di un olocausto radioattivo o nucleare, ritiene sia giunto il momento di mettere alle strette determinati ambienti dell’economia e della finanza internazionali, costringerli a sentire non più vaghe e generiche contestazioni, quelle, per intenderci, degli happenings pacifisti, ma le urla non solo semplicemente indignate ma oltremodo minacciose e intimidatorie di gruppi o masse popolari inferocite e ormai molto determinate a passare dalle parole ai fatti. Per Anders la moralità è superiore alla legalità, ove l’una e l’altra non risultino coincidenti, e, in questo senso, la controviolenza, ovvero la reazione violenta ad atti immorali e disumani di violenza, viene da lui considerata un capisaldo della stessa moralità (4).     

La violenza, talvolta, è utile e necessaria a fermare ulteriore violenza, anche se è perfettamente vero, in linea di principio, che la violenza alimenta violenza e che gli esiti di reiterati e contrapposti atti di violenza sono molto spesso esiziali. Va però precisato che per Anders la violenza può risultare necessaria non in deroga dagli scopi pacifisti ma per poterli più efficacemente perseguire, per poter cioè superare situazioni esasperatamente conflittuali prima che esse possano decretare la totale impossibilità di ogni ulteriore tentativo di preservare o salvare la vita stessa sulla terra. Anders, in questo senso, sarebbe stato lapidario: «Il diritto di autodifesa per chi è minacciato di morte e in ogni momento può essere aggredito è naturalmente naturale! (…) E dato che la minaccia è totale e il possibile sterminio è globale, anche la nostra legittima difesa deve diventare totale e globale» (5). Tuttavia, ritornando agli aspetti metafisici e biblico-religiosi della violenza, va ribadito, peraltro in linea con quanto in ogni caso sia possibile constatare sul piano cosmico-fenomenico e storico-fenomenologico (6), che essa è connaturata all’esistenza delle cose, dell’universo, del mondo storico e umano e ne costituisce una componente forse mutevole nel tempo, per forma e intensità, attraverso l’incidenza pur sempre relativa su essa esercitata dalla plurimillenaria, complessa e articolata elaborazione  attività  mentale, culturale e spirituale dell’uomo, ma in ogni caso strutturale e ineliminabile. La violenza risiede nelle leggi di natura, corrispondenti a criteri di perfetta razionalità ma anche imprevedibilmente distruttive. Essa accomuna uomo e animale, anche se solo nell’uomo, essere non solo istintivo ma anche volitivo, può assumere caratteri di crudeltà. La violenza animale, ma la stessa violenza umana non porta con sé necessariamente crudeltà. Anche per quanto riguarda l’uomo, gli atti violenti non sono sempre e necessariamente crudeli, pur risultando talvolta inevitabili e necessari. Ove non vi sia né intenzione, né volontà, bensì solo istinto naturale di sopravvivenza o di conservazione di sé o dei propri simili, nell’esercitare un’azione violenta contro qualcuno, la violenza umana potrà anche risultare suscettibile di critica o di condanna da un punto di vista fattuale ma non potrà essere oggetto, già in linea di principio, di censura o di condanna alcuna.

Ma è pur vero che altro siano le forze distruttive derivanti dalla natura, altro le forze distruttive derivanti dall’arroganza e dalla tracotanza dell’uomo, e che solo in questo secondo caso la violenza venga percepita, vissuta e subìta come qualcosa di specificamente negativo e intollerabile, come vera e propria crudeltà dai cui devastanti effetti possa ancora discendere un’opportunità di crescita, di maturazione per l’uomo. In questo senso, se l’etica della non violenza può tornare certamente utile in molti casi della vita quotidiana individuale e collettiva, non può tuttavia essere fatta assurgere, da un punto di vista empirico-storico, a incontrovertibile principio o paradigma universale di difesa contro la violenza in generale. D’altra parte, sebbene sia ben comprensibile sul piano etico-civile l’idea, espressa anche da Benedetto Croce nel sesto capitolo del suo saggio “La storia come pensiero e come azione” del 1938, secondo la quale la violenza è puramente distruttiva e apportatrice di morte, oltre che negatrice di ogni verità, laddove invece feconda e vitale sarebbe solo la ragione che sappia coniugare le ragioni della mente e dell’intelletto con quelle del cuore e del sentimento morale, non è inopportuno osservare che, in un più ampio contesto discorsivo e teorico-culturale, la violenza in quanto concetto indeterminato può altrettanto correttamente essere individuata come fattore coessenziale a qualsivoglia processo di creatività, di innovativa e vitale trasformazione, di sostanziale emancipazione umana e persino di originale elaborazione critica.

Da un punto di vista fisico-cosmogonico l’universo e la vita si originano dalla violenta ma vitale esplosione di un nucleo primario di energia e materia, esplosione che continua a manifestarsi nel corso della complessa, creativa o distruttiva e imprevedibile evoluzione di quest’ultime che vengono producendo forme di vita vivente e non vivente, anche se un discrimine logico-epistemico netto e adeguato tra ciò che è vivente e ciò che non lo è, tra ciò che è animato e ciò che è inanimato, non sembra sia stato ancora trovato, probabilmente anche a causa del fatto che l’elemento comune delle cose o delle realtà che vengono definite vive, più che essere una loro intrinseca proprietà, potrebbe piuttosto corrispondere alla nostra soggettiva percezione di esse, per quanto la stessa percezione soggettiva umana possa risultare enormemente potenziata dai sofisticati strumenti e dalle consolidate procedure della ricerca scientifica. Ma anche alla base della storia della civiltà si può rinvenire un analogo meccanismo, una violenta forza sovvertitrice che, mentre distrugge o azzera precedenti stadi di civiltà, contribuisce in modo determinante a crearne di nuovi, di più evoluti e complessi, anche se quelli che seguono  non sempre e necessariamente debbano essere migliori di quelli che precedono. La guerra, che è la manifestazione più evidente e drammatica di questa violenta magmaticità dell’ordine naturale e storico degli enti viventi e/o non viventi, è certamente causa di distruzione ma, in pari tempo, almeno fino ad oggi, di ricostituzione di centri e realtà oltremodo vitali e produttivi di umanità e socialità.

D’altra parte, le rivoluzioni che, nel bene e nel male, danno luogo tanto a nuovi ordini economici, sociali e politici, quanto, nel quadro di un reale o virtuale progresso conoscitivo, a radicali cambiamenti paradigmatici del sapere scientifico, obbediscono anch’esse ad una dinamica violenta, anche se più cruenta nel primo caso e fondamentalmente incruenta nel caso del pur tumultuoso avanzamento scientifico. Infine, cosa c’è di più violentemente sconvolgente dell’irruzione del Logos divino e delle sue implicazioni salvifiche nella storia degli uomini? Mi pare che ce ne sia abbastanza almeno per verificare se non sia il caso, entro determinati limiti e sotto determinati aspetti, di rivalutare il tema della violenza ai fini di una comprensione più rigorosamente critico-razionale delle dinamiche storico-esistenziali della civiltà contemporanea. Ma, naturalmente, bisogna intendersi, di volta in volta, sul significato che viene assumendo la violenza negli specifici contesti del vivere civile, comunitario ed intercomunitario. Se violenza è quella comunemente intesa, ovvero l’esercizio moralmente, giuridicamente e religiosamente, non giustificato e non giustificabile di azioni dannose per il prossimo, per gli altri, per la società o il genere umano nella sua totalità, il giudizio non può che essere di riprovazione e di condanna. Ma se violenza è invece quella funzionale ad assicurare il rispetto delle leggi, dell’ordine sociale ed istituzionale, oppure a legittimare atti di radicale contestazione di un regime politico assolutamente iniquo e violento, anche la violenza può venire assumendo una sua dignità morale, culturale e persino religiosa.

Ma, beninteso, resta il principio per cui quando, sul piano umano, etico-civile e religioso, la violenza viene configurandosi come aggressione deliberata e indiscriminata, prevaricazione di un singolo o di un gruppo nei confronti di altri singoli o gruppi, o semplice e reiterata arroganza, supponenza, disprezzo mirati a disconoscere le legittime ragioni altrui, due debbano essere i possibili modi di fronteggiarla: o, se è possibile senza riceverne troppi danni, sottrarsi a confronti esasperati, provocazioni, contatti fisici, e via dicendo, oppure, se non è oggettivamente possibile, resistere ad essa con tutti i mezzi legittimi richiesti dalla situazione in cui ci si trovi coinvolti. In tal senso non appare condivisibile l’affermazione crociana secondo cui «la violenza non è forza ma debolezza», potendo risultare essa veritiera in determinati casi ma non certo in qualunque contesto di contrapposizione umana, sociale, militare. Purtroppo, molto spesso la violenza non esprime affatto la debolezza di chi la eserciti ingiustamente e unilateralmente ma piuttosto la sua convinzione di poter dettare sempre e comunque legge al suo prossimo, di poter imporre impunemente la ragione arbitraria della forza alla forza della ragione e della sensata ragione altrui.

Se si circoscrive la violenza all’intenzione di volere il male altrui, a prescindere dall’accertamento dell’innocenza o colpevolezza di chi sia destinatario di atti violenti, è evidente che essa sia destituita di legittimità razionale e morale; se invece lo scopo di un’azione violenta, come per esempio un severo intervento chirurgico, liberamente accettato dal paziente, è quello di volere il bene dell’altro, pur attraverso mezzi apparentemente violenti, non si può certo parlare della violenza in senso negativo. Ma sono molteplici i casi in cui la violenza non può essere intesa in un’accezione negativa: quello in cui un soggetto incapace di intendere e volere, che è sul punto di bruciarsi su una fonte di calore, ne venga bruscamente allontanato per opera di qualcuno; oppure quello in cui un potenziale suicida venga violentemente strattonato per impedirgli di gettarsi nel vuoto o di darsi comunque la morte; o infine quello in cui si dia la morte a qualcuno per impedirgli di nuocere letalmente ad altri. Se poi si viene evocando la non violenza evangelica quasi per voler mettere a tacere chiunque si proponga, in buona fede e a scopo costruttivo, di addurre argomentazioni volte ad enucleare e sottolineare le possibili valenze positive che quella dirompente energia, generalmente nota o qualificata come violenza, può rivestire, in realtà si viene presto scoprendo che essa risulta molto più problematica di quanto sia dato pensare.

Infatti, Gesù porta la sua pace ma subito dopo precisa che la sua pace non è come quella che dà il mondo, dal momento che essa non è fondata su una concordia, su un’armonia, su un’unità spirituale qualsiasi di intenti e di atti, ma sulla divisione simboleggiata dalla spada, dalla rigorosa capacità di discernimento tra vero e falso, tra bene e male, tra la comunità dei santi in Cristo e la comunità di peccatori irredenti in Satana. La pace di Cristo, quindi, non ha a che fare con le tipiche “ammucchiate” umane basate su forme ibride, eterogenee e persino antitetiche di convivenza umana, di cooperazione comunitaria e sociale, riassumibili in espressioni del tipo “vivi e lascia vivere”, ma con esperienze associative ed ecclesiali fondate su presupposti comuni e immodificabili, su verità assolute e intangibili, su una comunione e condivisione di valori spirituali e di princìpi ben definiti di vita e di comportamento. La pace evangelica richiede cioè un duro ed esigente lavoro interiore di analisi, di rinuncia, di selezione qualitativa rispetto alle diverse opzioni di vita offerte dal mondo, ed è dunque una pace faticosa, costosa, dolorosa, in qualche misura anch’essa violenta in rapporto alla mentalità generalmente abitudinaria o consuetudinaria degli esseri umani.   

Ma l’invito a non essere del mondo, pur essendo nel mondo, è in qualche modo violento, come lo è quello ad amare i nemici e a pregare per i persecutori, come è violenta l’esortazione a instaurare con i propri fratelli di fede rapporti umani basati non sull’ipocrisia ma sulla franchezza ovvero sulla capacità e sul coraggio di dire e dirsi sempre la verità, oppure la stessa sollecitazione a perdere la vita per conservarla, a portare ogni giorno la propria croce e persino a morire sulla o per la croce. Dal vangelo viene la promessa rassicurante del perdono divino, dell’immortalità, della vita eterna, ma in pari tempo vengono anche condizionamenti psicologici, emotivi, morali e spirituali, destabilizzanti, che tendono non una volta ma sempre a turbare la mente e a scuotere la coscienza, a porre in discussione la propria identità personale, il proprio modo di pensare e di agire. Anche quella evangelica è, se si vuole, una parola in qualche modo violenta. Quella di Cristo, certo, non è una violenza cruenta, una violenza che distrugge, che uccide, che devasta, come lo è invece la morte in quanto evento naturale e ancora di più l’intenzione omicida degli uomini, non è una violenza negativa, malvagia, maligna, ma è pur sempre un’energia spirituale potente, infuocata e dirompente che sconvolge la vita delle creature, che ne evidenzia la precarietà e la fragilità pur rendendola spiritualmente più sicura, più stabile, più solida. D’altra parte, non si può sottacere lo scenario violento e apocalittico ben presente nella narrazione evangelica in relazione agli “ultimi tempi” della storia umana.

L’immagine stessa usata da Gesù, per caratterizzare il suo amore per l’umanità, è quella del fuoco, che brucia, sconvolge, consuma, divora, distrugge, sia pure a fin di bene: sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finchè non sia compiuto! (Lc 12, 49-50). L’amore evangelico è, infatti, sinonimo di amore della verità e della giustizia, innanzitutto, e quindi di mitezza, mansuetudine, sincerità e onestà, spirito di perdono, di carità e di pacificazione, ma è anche consapevolezza dei costi, delle rinunce, delle tribolazioni e delle angosce che esso comporta. Il fuoco di cui parla Cristo è quello del suo regno che deve essere acceso e deve divampare sulla terra, ma prima che ciò accada e in funzione di tale evento, è necessario il suo battesimo di sangue che, finché non avvenga, non può che suscitare in lui una grandissima angoscia. Le parole di Gesù disturbano la nostra fede “religiosamente corretta”, la quale tende in realtà ad addomesticare e a svuotare di significato lo scandalo evangelico. Il cristiano non può non essere partecipe della consapevolezza di Gesù: quella per cui la missione di ogni battezzato nell’acqua e nello Spirito sarà compiuta solo se si concluderà con un battesimo nel sangue, ovvero quanto meno nel dolore, nelle contrarietà della vita, nell’angoscia di un’esistenza spesa nella sequela di Cristo stesso. Quel fuoco che riscalda i cuori, che distrugge le menzogne e i peccati del mondo e al tempo stesso purifica la coscienza del genere umano, è anche un fuoco che consuma e, alla fine, annienta le energie umane di chi voglia alimentarlo in modo disinteressato, amorevole e proficuo, al meglio delle proprie possibilità.

Quel fuoco è sì un’incandescente passione d’amore ma, al tempo stesso, è una violenta passione di sofferenza. D’altra parte, quanto più grande è il bisogno umano e personale di amore, tanto maggiore è o dovrebbe essere la disponibilità a lottare e a patire anche violenza pur di vederlo soddisfatto. L’amore avanza tra mille difficoltà e incomprensioni, tra molteplici impedimenti, ma, sebbene ostacolato, continua ad avanzare, sia pure silenziosamente, nel mondo chiassoso e volubile della menzogna e della futilità, perché il suo fuoco, prima di spegnersi, di estinguersi, raggiunge i suoi obiettivi di trasformazione e purificazione del contesto umano, morale, sociale, culturale e religioso, in cui venga gettato. Il fuoco dell’amore s’identifica con il fuoco divisivo del vangelo, con il fuoco che non può lasciare nessuno indifferente o equidistante ma che costringe tutti a scegliere da che parte stare: dalla parte del fuoco creatore e ricreatore o ben al riparo da esso, dove c’è apparente sicurezza ma dove presto ci sarà solo il gelo della morte.

Ma, alla fine, appare chiaro che le parole forti, taglienti, provocatorie, scandalose, quindi in qualche modo violente, di Gesù, sono funzionali al perseguimento evangelico ed esistenziale di una condizione finale di vita non più contraddittoria e conflittuale, non più soggetta alle lacerazioni del limite e della colpa, alle tentazioni istintuali della carne e della volontà umana di dominio, ma libera da ogni pulsione esterna o interna di violenza e di morte. La violenza apparente della Parola di Dio è, in sostanza, funzionale alla totale seppur sofferta ed escatologica neutralizzazione di ogni possibile forma di violenza reale, a cominciare dal più traumatico e violento fatto esistente in natura: la morte. Il Cristo rappresenta il modello più universalmente paradigmatico di non violenza divina e umana, perché Egli è la Verità e violento è chi orgogliosamente si sottrae alla verità, non certo chi umilmente la rispetta e la venera o addirittura la impersona. Chi fa violenza in modo prevenuto o preconcetto alla verità, sarà potenzialmente esposto alla tentazione di esercitare violenza, in piccole o grandi dosi, contro tutto e tutti; chi si sforza di onorarla non sarà immune da errori e colpe di natura morale ma saprà sempre come fare per tentare di rimediare ai torti o alle offese arrecati al prossimo o per reagire nel modo più pacifico possibile alle altrui violenze, e, soprattutto, per guarire dalla naturale e peccaminosa vocazione ad annientarsi reciprocamente.

Ma poi cosa significherà realmente “non violenza”? La non violenza ha molte facce e non tutte le sue facce hanno pari dignità. Per capirsi, basti dire qui che la non violenza evangelica non è pavida, non è incosciente e ingenua o stolta, non è frutto di umana frustrazione, né di apatia o indifferenza morale, non è insomma una narcotizzazione delle pulsioni aggressive ma solo il controllo più o meno soddisfacente di esse. In questo senso, è più coraggioso il non violento che il violento pieno di sé e superbamente convinto che il suo volere non possa essere in alcun modo contrastato tra i comuni mortali. Il vero non violento, sotto il profilo psicologico, non è un soggetto incapace di passione morale, bensì un soggetto oltremodo sensibile, partecipe di vicende non frivole ma serie e drammatiche del mondo e dotato di profonda compassione verso il prossimo sofferente e bisognoso. Egli, come ogni vero essere umano, sa tanto amare (il bene e chiunque necessiti di aiuto e conforto) quanto odiare (il male e i simili irredimibilmente corrotti e malvagi che fanno indissolubilmente tutt’uno con la realtà stessa del male e del peccato). E, se si tratta, come dice Gesù, non solo di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assettati, di accogliere lo straniero inoffensivo e vestire chi non abbia di che coprirsi, o ancora di assistere i malati e i feriti, a maggior ragione il non violento evangelico, lungi dal temere gravi e possibili ripercussioni per la propria persona, si prodigherà al meglio delle sue forze per sottrarre il suo prossimo incolpevole e indifeso alle minacce, alle percosse, alle azioni violente e delittuose di quanti la violenza vengano esercitando per scelta di vita e come strumento abitudinario di perseguimento di fini illeciti, immorali e disumani. In tal senso, si può ben affermare che il pacifismo, non solo quello passivo ma anche quello attivo del coraggioso lavoro critico e di testimonianza sul campo, sia tanto irrealistico quanto spiritualmente patologico.

Parafrasando Lenin, e integrando il pensiero di Valpiana, il pacifismo estremo, codardo o imbelle, ipocrita o opportunistico, funzionale alla sopravvivenza del genere umano ma non anche alla sopravvivenza, alla integrità e alla dignità di singole persone come di determinati gruppi umani o popoli ingiustamente minacciati e aggrediti, è solo una delle più gravi malattie infantili del cristianesimo. Solo chi ha quasi congenitamente in odio la perversione tentacolare dell’animo umano e ogni genere di malvagità deliberata e indiscriminata, solo chi avverte sensibilmente dentro di sé una irrefrenabile aggressività verso ogni forma di menzogna e iniquità e, di conseguenza, si sente spesso sottoposto alla tentazione di dare libero sfogo alle sue più violente e distruttive pulsioni, solo costui si trova realmente nella condizione di fare esercizio di non violenza, appunto attraverso un continuo sforzo di contenimento della forza contestativa e demolitrice della sua indignazione, attraverso un virtuoso ma faticoso esercizio di volontà volto a tenere sotto controllo la propria collera e i moti più violenti del proprio io morale, spirituale e religioso. Bisogna sempre distinguere tra la violenza irrazionale e immorale e la violenza razionale e moralmente utile e necessaria: la prima è sempre e unicamente sotto il dominio di una istintività non governata né dalla ragione né dai freni inibitori di una coscienza morale sufficientemente solida ed equilibrata, e per questo motivo è anche inferiore alla violenza delle bestie più feroci che è una violenza puramente istintiva ma proprio per questo né morale né immorale, la seconda è invece quella talvolta esercitata in uno stato di anomala costrizione o di fisiologica risposta-reazione a stimoli dolorosi esterni e indotti pur nella vigile e lucida consapevolezza della natura puramente e straordinariamente difensiva e protettiva di tale azione violenta.

Il cristianesimo non pretende di eliminare, di abolire drasticamente e definitivamente la violenza dalla vita e dalla storia umane, perché, consapevole del fatto che la violenza è una componente naturale importante delle relazioni tra gli uomini, punta piuttosto ad una regolamentazione, ad un uso quanto più razionale, saggio e misurato possibile della sua carica offensiva, esplosiva e distruttiva. Anche per quanto riguarda la violenza, si tratta cristianamente di finalizzarla a servire la vita e non la morte, ad una santificazione delle sue ambigue potenzialità: ambigue perché utilizzabili per la morte o per la vita, per il male o per il bene.

Bisogna altresì distinguere tra non violenti teorici o ideologici che sono però portati a sostenere e a difendere con intransigenza e comportamenti violenti le proprie posizioni e le proprie pratiche di vita, e violenti spirituali o evangelici che, senza mai peccare di arroganza e di animosità distruttiva, sono dediti a testimoniare energicamente, ma in modo semplice, lineare e pacifico, la fede in una Parola di Dio che è dolce, mite, clemente, rassicurante e fortificante e, al tempo stesso, esigente, autorevole, imperiosa e, per certi aspetti, violenta in quanto, se da una parte, sul piano morale e spirituale, non lascia intatte ma tende a scardinare in profondità le strutture palesi e segrete di peccato, le logiche umane e mondane di indebita e violenta appropriazione di averi, beni, titoli, privilegi e diritti non dovuti e decisamente iniqui, dall’altra sul piano storico-escatologico viene preannunciando la fine del mondo e l’inappellabile giudizio divino per buoni e cattivi, giusti e ingiusti, redenti e irredenti. Dio, peraltro, in quanto sapienza infinita e sommo bene, proprio perché non può agire che in un’ottica di puro e assoluto bene, può esercitare in ogni momento della sua eterna, proteiforme e provvidenziale attività creatrice, tutta la violenza che ritiene necessaria al perseguimento di scopi virtuosi e santi, solo parzialmente accessibili allo spirito umano. Viceversa, l’uomo, in quanto creatura dotata di variabili ma pur sempre limitate capacità conoscitive e spirituali, proprio perché costretto ad agire nel quadro di particolari o specifiche realtà esistenziali, il cui oggettivo significato è non di rado più profondo e complesso di quanto non sia dato all’intelligenza e alla coscienza morale dell’uomo di cogliere o percepire, deve sforzarsi di usare con molta prudenza e moderazione la sua forza fisica come tutti i possibili strumenti offensivi di cui può disporre, limitando l’esercizio della violenza ai casi in cui essa sia estremamente necessaria per la sua stessa sopravvivenza o per la difesa improrogabile della vita, della libertà e dignità altrui.

Sarà poi anche vero che vera non violenza si dia solo là dove vi sia «tolleranza, pazienza, accoglienza, accettazione della diversità, rispetto della libertà, rispetto — in breve — di ogni coscienza individuale» e che, pertanto, grandi siano le difficoltà di conciliare «il dovere di impedire il male» con l’obbligo morale di non «imporre alcunché ad alcuno», ma è altrettanto vero che questo concetto sia certamente condivisibile e anzi imprescindibile solo nei limiti in cui non lo si voglia assumere in forma dogmatica, indiscriminata e aprioristica, giacché è fuor di dubbio che non verso tutto, e a diversi livelli, si possa e si debba essere tolleranti, pazienti, accoglienti, rispettosi. Anche la diversità dev’essere certo accettata e valorizzata tutte le volte che sia umanamente, socialmente, sanitariamente, istituzionalmente possibile, e non per esempio oggettivamente controproducente e nocivo per il soggetto di volta in volta preposto (una singola persona, una comunità, uno Stato) ad accettare, accogliere, rispettare. Ragion per cui, talvolta, è proprio in uno spirito di verità, di carità, di giustizia e opportunità, che può rendersi necessario il non esaudire determinati e sospetti appelli umanitari o illecite e improponibili aspettative solidaristiche (7).

Naturalmente, la critica alla violenza la si può declinare in molteplici forme e, ogni volta, il problema è essenzialmente quello non già di parteggiare a favore della violenza o contro essa, quanto quello di intendersi preliminarmente sul significato e relative implicazioni che si intenda conferire alla parola violenza. Forse è vero quel che diceva il filosofo non violento Jean Marie Muller: «lottare contro la violenza con la violenza non permette di eliminare la violenza», rilanciandola o riproducendola all’infinito, anzi fino alla fine dell’umanità (8). Purtroppo, è altrettanto legittimo affermare il contrario, come a tutti è possibile riconoscere sulla base di un’esperienza storica incontrovertibile, e cioè che lottare contro la violenza con la non violenza, passiva, attiva o comunque venga rappresentata nei movimenti pacifisti più classici o più noti  del pensiero contemporaneo, non solo non permette di eliminare la violenza dal mondo ma molto spesso ne favorisce lo sviluppo, contribuisce a dilatarne la potenza devastatrice e distruttiva, fin quasi a rassegnarsi tacitamente ad essa nel nome di una pace, che è in realtà una falsa pace sino a quando se ne parli quasi come di una realtà che possa venire costruendosi da sola e non debba essere invece faticosamente costruita in funzione della verità e della giustizia, anche attraverso un saggio, responsabile e coraggioso controllo degli usi che di volta in volta vengono fatti della violenza, anche attraverso legittime pratiche e metodi violenti di arginamento e contenimento delle manifestazioni più ingiuste, disumane e criminali della violenza stessa. La violenza non può essere neutralizzata con la violenza, ancor meno in molti casi può essere arrestata o contenuta con l’assoluta non violenza.

Quel che ancora molta gente non riesce a capire o non vuole proprio afferrare è che scandalosa non è la violenza in quanto tale, ma scandalosi sono piuttosto gli usi distorti, arbitrari, errati, inopportuni o deliberatamente delittuosi che se ne vengano facendo o proponendo. Sarebbe come prendersela col fuoco, odiarlo, demonizzarlo, per il semplice e naturalissimo fatto che brucia, e assumere lo stesso atteggiamento verso coltelli, fucili, bisturi o strumenti tecnologici potenzialmente pericolosi ma anche molto utili. La violenza è una funzione costitutiva dell’universo, della natura, della vita umana; è radicata nell’essere stesso delle cose ed è perfettamente inutile che ci si dichiari pro o contro la violenza. Accade poi, per quanto riguarda il rapporto tra gli uomini, le comunità, i popoli, gli Stati, che se ne possa fare, e spesso succede che se ne faccia realmente, un uso improprio, illecito, immorale, catastrofico, oppure che, al contrario essa venga utilizzata per fini assolutamente leciti, nobili e preziosi per la sopravvivenza e la vita stessa dei singoli e del genere umano.

Gli stessi moniti evangelici contro non già, si badi, la violenza, ma contro i violenti, devono essere intesi come paterni, sapienti, affettuosi, premurosi avvertimenti circa i modi di rapportarsi alla forza, di adoperarla nei confronti del prossimo e di sue eventuali e improvvide azioni offensive o variamente violente ai nostri danni e ai danni di altre persone inermi e indifese. Gesù invita a non alimentare e anzi a depotenziare il rapporto aggressivo-violento che qualcuno venga instaurando nei nostri confronti, fermo restando che noi conserviamo pienamente il dovere e il diritto di far valere nei modi più pacifici possibili, sul piano logico-argomentativo, umano e morale, giuridico o sociale, le nostre giuste ragioni. Gesù ci chiede di non replicare a uno o due schiaffi ricevuti, e poi anche di non rifiutarsi in prospettiva di fare del bene ai nemici e persino di invocare il perdono divino per i persecutori, ma non ci chiede di lasciarci massacrare dalle botte fitte e violente e dalle accuse spregevoli e infamanti di chicchessia o di allacciare disinvolti rapporti di amichevole frequentazione con nemici o persecutori che ci abbiano a lungo e duramente quanto ingiustamente osteggiato e offeso. Il martirio cui ogni cristiano deve prepararsi nei limiti delle sue possibilità è questione diversa da quella relativa ai modi in cui il cristiano, nell’ordinarietà della vita, deve porsi dinanzi ad atti aggressivi o violenti esercitati irragionevolmente, immotivatamente verso la sua persona o verso quella di suoi simili altrettanto incolpevoli.

Si danno, certo, situazioni molto particolari in cui, per questioni morali, spirituali o religiose ritenute per convinzione o per fede non negoziabili, si possa essere anche disposti ad offrire la vita senza neppure tentare di reagire alla altrui violenza e in segno di assoluta fedeltà alla propria fede, alla propria testimonianza di fede: non si dimentichi che colui che testimonia fino alla fine i suoi ideali religiosi senza piegarsi a minacce di persecuzioni e morte è, proprio in senso etimologico, il martire. Questi è il testimone perfetto, esemplare, della fede in Cristo. Ma, si ricorderà che anche Gesù, nel corso della sua pur breve vita, in alcune circostanze, prima di giungere alla crocifissione, si sarebbe prudentemente sottratto a linciaggi o ad aggressioni letali. Questo riferimento alla persona del Cristo e di un Cristo ben consapevole delle origini naturali e peccaminose della violenza, del loro radicamento non solo nelle sovrastrutture ideologiche della vita personale e collettiva ma nella naturale struttura biologica di quest’ultima,  ha la funzione di ricordare come la violenza non sia semplice prodotto di condizionamenti culturali ma abbia soprattutto origine in ancestrali meccanismi biologici della specie umana, che possono certo essere affinati in virtù di significative e preziose mediazioni culturali, spirituali e religiose, ma che ad esse non possono essere unilateralmente ridotti.

D’altra parte, non è affatto provato che le pratiche di vita dei singoli e delle masse siano il risultato meccanico, univoco, delle specifiche forme educative e culturali di un determinato sistema sociale di appartenenza, e asserire il contrario è possibile solo su un piano ideologico al pari di quel che è possibile asserire per molte altre posizioni interpretative: per esempio, «la filosofia greca esprime chiaramente l’ideologia della nascita degli esseri umani: l’uomo nasce cattivo, va condizionato, plasmato e educato per renderlo sociale, soltanto il bene che sta nella ragione può fermare la natura violenta e condurre alla convivenza», osserva uno psichiatra in un suo testo sulla violenza (9). Ma è probabile che, come spesso accade, anche in questo caso la verità stia in mezzo e tenda a coincidere con giudizi capaci di rispecchiare una interdipendenza di fattori, di strutture biologiche e mentali e di sovrastrutture culturali e ideologiche.

Così, ideologica può essere sia la violenza che la non violenza, e per accertare, al meglio delle proprie possibilità epistemiche, che non lo siano, è necessario, ogni volta, analizzare con molta cura gli specifici contesti storico-umani e logico-argomentativi cui l’una o l’altra vengano riferite. Un esempio clamoroso di rappresentazione ideologica della non violenza è fornito dal ragionamento dello stesso Jean Marie Muller, più sopra citato: «La cultura della violenza ha bisogno di riferirsi a una costruzione razionale che permetta agli individui di giustificare la violenza. E’ qui che interviene l’“ideologia della violenza”. La sua funzione è quella di costruire una rappresentazione della violenza che evita di vedere ciò che essa è effettivamente: inumana e scandalosa. L’ideologia della violenza mira ad occultare ciò che la violenza ha di irrazionale ed inaccettabile e a farne prevalere una rappresentazione razionale accettabile. Si tratta di dissimulare la realtà scandalosa della violenza attraverso una rappresentazione che la valorizzi positivamente. Lo scopo ricercato — e spesso raggiunto — è la banalizzazione della violenza. Invece di essere bandita — dichiarata fuori legge — la violenza è banalizzata — dichiarata conforme alla legge. Da questo momento, più nessun freno intellettuale si opporrà alla violenza»(10). Ma è un discorso molto confuso che presuppone quel che invece bisognerebbe dimostrare con appropriati riferimenti alla generale esperienza storica, ovvero che, già intrinsecamente, la violenza abbia una natura irrazionale, inumana e scandalosa, per cui essa, da un punto di vista etico-razionale e indipendentemente dagli usi che ne vengano fatti, sarebbe semplicemente da bandire.

Ma ancora più grave è il sottintendere che un atteggiamento non violento, inteso non già come valutazione e scelta non pregiudiziali e tuttavia oculate delle modalità d’uso della violenza in rapporto a ipotetiche situazioni di vita, ma come aprioristico e categorico rifiuto di esercitare violenza, anche in presenza di mostruose e pretestuose aggressioni, di atroci ed efferati fatti di sangue ai danni di persone o popoli, possa produrre esiti più razionali ed effetti etico-esistenziali più desiderabili. Se, come molti ritengono, il principio cristiano di “fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te” è la regola più saggia della condotta umana, tanto per  le nazioni che per gli individui, si può ragionevolmente concludere che anche la violenza può proteggere, entro certi limiti, dalla follia del mondo e dalla follia di coloro che abbiano eretto a loro idolo il culto della forza sempre e comunque sovrana e dominatrice.   

NOTE

1. In un mondo dominato di fatto dalla violenza si pone, anche sul piano filosofico, il problema di stabilire se e in che misura sia possibile trovare un senso all’esistenza. In tal senso, uno dei tentativi più paradigmatici che siano stati compiuti negli ultimi tre o quattro decenni è quello dello scrittore e giornalista americano, non filosofo, William T. Vollmann, Come un’onda che sale e che scende, Milano, Mondadori, 2007. Uno studio molto analitico circa la complessa e articolata realtà fenomenologica della violenza è quello di A. Poma, Violenza e non violenza, in “Filosofia”, n. 59, Torino, 25 novembre 2014, dove si passano in rassegna diverse tipologie di violenza, da cui emerge chiaramente la non univocità di significato e la non riduttiva semplificabilità concettuale della parola violenza. Tuttavia, Poma procede ad alcune distinzioni certamente utili quanto meno ad orientarsi nell’intricato lavoro di identificazione dei molteplici aspetti e significati che il tema della violenza può venire assumendo in diversi contesti di riferimento sia sul piano del dibattito culturale che su quello della vita pratica. Per esempio, egli distingue tra un «valore strumentale» e un «valore assoluto» della violenza, il primo esemplificato attraverso Niccolò Machiavelli,  «il quale è contrario al “violento per guastare”, ma giustifica il “violento per racconciare” e insegna al suo “Principe” a distinguere tra “crudeltà bene usate” e “crudeltà male usate», il secondo attraverso Nietzsche «il quale esalta la violenza come carattere dell’uomo superiore, che si emancipa dalla morale degli schiavi e dall’ordine sociale ed economico dei deboli per realizzare nella propria volontà i valori assoluti della vita, al di là del bene e del male. Sulle sue orme Sorel esalta la violenza e il suo mito come principio di una nuova, più alta moralità rivoluzionaria, che libera dalla mediocrità della società borghese», e poi tra una «concezione legittimistica» della violenza (che prevede l’uso o l’impiego della forza solo a scopo difensivo e per tutta una serie di motivi di sicurezza sociale e istituzionale che ineriscono l’organizzazione della statualità) e una «concezione  strutturale» della violenza (dove la violenza strutturale è tutto ciò che, pur non manifestandosi ed esercitandosi come violenza fisica o materiale» (come, ad esempio, condizionamenti economici e sociali, pressioni psicologiche ed educative di una certa natura, ingiunzioni amministrativo-burocratiche o indebite ingerenze nella vita personale degli individui da parte di determinati organi repressivi dello Stato, e via dicendo) ostacola il nostro sviluppo e la piena espressione del nostro essere). Ma l’analisi di Poma contiene l’individuazione di ulteriori e più sottili o intermedie tipologie di violenza.

2. H. Arendt, Sulla violenza, Parma, Ugo Guanda, 1996, p. 8.

3. In Italia, uno dei principali esponenti della non violenza, Mao Valpiana, ha rivolto ai suoi compagni di viaggio critiche pungenti, se non così radicali o estreme come quelle di Anders, e ben ricettive di un approccio pacifista ma realistico al problema della violenza nel mondo: «Oggi il movimento pacifista e nonviolento maturo … non lo si trova nelle piazza a sbraitare o a fare marce autoreferenziali. Lo si trova a lavorare sul campo, dentro ai movimenti che vogliono cambiare la realtà in meglio. … Alimentato dalla cosiddetta grande stampa, è ancora forte lo stereotipo del pacifista come di colui che se ne sta zitto e buono a casa, e poi, quando scoppia un conflitto armato, corre in piazza con la bandiera arcobaleno a protestare ed invocare la pace. Un pacifismo inane, da milleottocento, già superato storicamente, ad inizio novecento, da Tolstoj e da Gandhi, che voltarono pagina passando dal pacifismo imbelle alla nonviolenza attiva. Parafrasando Lenin con Gandhi si può dire che “il pacifismo codardo è la malattia infantile della nonviolenza coraggiosa”. Sarà bene, quindi, che i critici del movimento pacifista odierno si aggiornino, poiché sono rimasti indietro di oltre un secolo. …», M. Valpiana, Ecco dove sono i pacifisti. Chi li cerca li trova, in “nonviolenti.org”,  8 ottobre 2015.

4. G. Anders, Gewalt: Ja oder Nein, Eine notwendige Diskussion, Knaur, München 1987. Trad. it. A. G. Salluzzi, Introduzione di G. Fofi: Stato di necessità e legittima difesa, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Firenze). Ora anche nel volume: G. Anders, Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza, a cura di L. Pizzichella, Mimesis, Milano 2008, pp. 19-50, ma interessante in particolare è la ricostruzione di questo importante capitolo della biografia intellettuale di Anders proposto da Micaela Latini, La dialettica della violenza: il caso Günter Anders, in AA.VV., Dialettica, storia e conflitto. Il proprio tempo appreso nel pensiero. Festschrift in onore di Domenico Losurdo, Atti del VII Congresso Internazionale di Urbino, 18-20 novembre 2011, a cura dell’Istituto Italiano per gli studi storici, Napoli, La scuola di Pitagora, 2011, p. 646 e sgg.

5. G. Anders, Gewalt: Ja oder Nein, Eine notwendige Diskussion (Violenza: sì o no, una discussione necessaria), cit., p. 33.

 6. Di unaviolenza metafisica, endemica ed onnipresente in tutti gli angoli e i meandri più remoti o oscuri della storia umana, anche se non in un contesto teorico trascendente ma rigorosamente immanente di riferimento, ha trattato, con dovizia di esemplificazioni storiche, Wolfgang Sofsky, Saggio sulla violenza, Torino, Einaudi, 1998.

7. Molto interessante e stimolante, anche ai fini di questa premessa, è uno scritto di Antonino Spadaro ripubblicato on line  dalla redazione dell’“Istituto Superiore di Formazione politico-sociale Mons. Antonio Lanza” di  Reggio Calabria, Prime riflessioni sulle radici della “non violenza”, 27 maggio 2016. Tuttavia, vi si trovano passaggi e affermazioni che risentono di approcci teologico-scritturistici abbastanza antiquati non in quanto tradizionalistici, perché anche il tradizionalismo non è un blocco unico e immutabile di posizioni e interpretazioni esegetico-ermeneutiche, ma un filone ecclesiale certo di ispirazione unitaria e tuttavia ricco di approfondimenti diversificati ed eterogenei che non appaiono dotati di uguale valore veritativo, ma in quanto angustamente letteralistici e privi di adeguata capacità critico-penetrativa. Vi si legge, per esempio: «È violenza, invece, non solo tutto ciò che arreca danno all’altro, ma anche tutto ciò che non è capacità di  “assorbimento del male”, ossia che non è “rinuncia” a rispondere al male con il male. In breve: solo se ciascuno di noi riesce a divenire “trasparente” (lasciando filtrare la luce della infinita misericordia di Dio) e rinuncia ad essere “specchio” (che riflette automaticamente e stupidamente quel che riceve: bene col bene e male col male) può perdonare, ossia odiare il peccato e amare il peccatore. La testimonianza sublime di Gesù – che perdona di cuore i suoi persecutori (perché, pur facendo il male, non sanno veramente quel che fanno) – è emblematica di quali profonde virtù interiori deve essere dotato il vero non violento». Che rispecchia, per l’appunto, un modo tradizionalistico ma anche letteralistico e superficiale di intendere la provocatoria parola evangelica. Al male si risponderebbe con il male se la persona aggredita si difendesse dal suo aggressore con le stesse motivazioni irrazionali e immorali di quest’ultimo, con una violenta volontà di potere e di dominio pari a quella del suo aggressore, e non con azioni violente semplicemente necessarie a preservargli la vita da danni incalcolabili o da morte sicura. Quanto al perdono, lo si può concedere non certo nel momento in cui si è aggrediti ma eventualmente, ammesso che si esca ancora illesi o almeno vivi dall’aggressione, solo successivamente e a condizione di ricevere una richiesta sincera e sentita di perdono. Ma anche altrove tendono ad affiorare fraintendimenti non lievi della profonda ma pur sempre realistica e razionale etica evangelica.

8. Uno degli ultimi libri di J. M. Muller è La violenza non esiste. Osare la non violenza, Parigi, Le Relié, 2017.

9. M. Fagioli, Left 2006, Roma, L’Asino d’Oro, 2009, p. 28.

10. Citato in P. Pugliese, Delegittimare la violenza. Il principio non violenza di Jean Marie Muller, nel blog “Disarmato”, 26 dicembre 2021.

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