Per una critica evangelica al pacifismo cattolico

Il linguaggio bellicoso dell’Antico Testamento viene parzialmente trasfigurato nell’annuncio evangelico in lotta interiore dell’uomo ma continua a denotare una ferma e risoluta opposizione al peccato radicato anche nelle strutture storico-sociali del mondo e quindi al falso, al male, ad ogni genere di iniquità. In linea di principio, tale opposizione, secondo le indicazioni evangeliche, deve avvenire nella forma più incruenta o meno violenta possibile, e viene implicando, in relazione alla vita personale del singolo, una capacità oblativa, che può giungere fino all’offerta della propria vita, in funzione del bene o della protezione di un proprio simile, dei propri familiari, della propria comunità, di una collettività più o meno estesa, come la patria o la nazione, la Chiesa e l’assemblea dei credenti.

Ma il vangelo prescrive anche l’uso della franchezza fraterna (la parresìa), del rimprovero, dell’ammonimento caritatevole, della reciproca correzione, persino della scomunica, sia al fine di salvaguardare la fede da possibili errori, impurità, deviazioni, abusi, sia al fine di tutelare la comunità stessa dei fedeli da degenerazioni, dal malcostume, dal fanatismo o dal lassismo, dal formalismo ipocrita o da forme superficiali e licenziose di comportamento. In esso, altresì, non sono contenute critiche né al principio di legittima difesa personale e comunitaria, né alla prerogativa del potere politico costituito, dello Stato, di Cesare, di esercitare funzioni repressive o di controllo, sotto l’aspetto giuridico, amministrativo, fiscale e anche militare, atte ad assicurare l’ordine, la sicurezza, la difesa della popolazione e dei confini territoriali, e quindi il perseguimento del bene comune.

Si trovano, certo, nei racconti evangelici alcune celebri frasi di Gesù, che ancora oggi vengono spesso interpretate nel mondo cattolico come espressioni di pacifismo assoluto, di rigetto radicale di qualsivoglia forma di violenza, persino in chiave difensiva, e di disponibilità incondizionata al perdono, ma si tratta in realtà di fraintendimenti, di equivoci, che generalmente i “custodi” istituzionali della Parola di Dio appaiono ora teologicamente incapaci di rimuovere nella coscienza pubblica di credenti e non credenti, ora quasi timorosi di sollecitare soprattutto nei fedeli una presa di coscienza più adulta e responsabile intorno al reale significato dei detti più provocatori di Cristo: si pensi a quelli sul perdono che può essere concesso solo se il colpevole si pente sinceramente dell’offesa arrecata al prossimo scusandosi con lui, allo stesso modo di come il Padre perdona il peccatore che, con animo realmente contrito, ne implora il perdono, si pensi alla stessa preghiera di Cristo crocifisso e moribondo che chiede al Padre di “perdonare loro perché non sanno quel che fanno” non certo per invocare un perdono divino indiscriminato per l’universo mondo, si pensi al consiglio del “porgere l’altra guancia”, inteso da Gesù non come invito a comportamenti autolesionistici o ad essere codardi, ma come accorgimento volto a depotenziare o a non alimentare ulteriormente un rapporto conflittuale già abbastanza teso. Si pensi, in particolare, all’episodio in cui Pietro ordina a Pietro di deporre la spada dopo aver tagliato l’orecchio di Malco, episodio di cui generalmente non viene inteso l’esatto significato a causa di letture semplificatrici che non rendono per niente giustizia alla complessità storica e teologica del racconto stesso.

Prima che Gesù venga arrestato da guardie e da una folla di persone che impugnano spade e bastoni, egli autorizza i suoi discepoli di Gesù ad armarsi di spada (“chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una”, Lc  ). Per quale motivo? Perché sa che sta per essere catturato come persona empia, pur essendo totalmente innocente, e che è prossima l’ora della sua passione e della sua morte, epilogo necessario della sua opera salvifica; ma, proprio per questo, sa anche che i suoi discepoli, da quel momento in poi, si sarebbero trovati a loro volta esposti al rischio di essere malmenati o addirittura uccisi in quanto compagni e complici del Cristo, e dunque li esorta ad essere cauti e a munirsi di una spada qualora fosse stato strettamente necessario proteggere la propria vita dall’aggressione di uomini armati e inviati dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani (Mc 14, 43). Solo che i discepoli non capiscono che quelle armi potrebbero servire solo alla loro difesa, non a quella del Signore che deve ormai bere il calice di sangue che il Padre gli ha dato (Gv 18, 11) e deve dare quindi compimento alla sua missione messianica senza opporre alcuna resistenza, ed è per questo che essi, convinti di dimostrare in quel frangente la loro particolare vicinanza a Cristo, gli dicono: «Signore, ecco qui due spade», al che il Signore, spazientito per la loro durezza di comprendonio, li interrompe con durezza: «Basta!», come dire: non capite niente di quel che dico, fatela finita! (Lc 22, 36-38).

Se ne deduce che Gesù si preoccupa di tutelare l’integrità fisica dei discepoli, fino al punto di consigliare loro di procurarsi un’arma a scopo di difesa personale, di legittima difesa contro eventuali e probabili aggressori; non a scopo offensivo, ma difensivo o autodifensivo. Ecco perché, quando Pietro sferra il colpo di spada contro il servo del sacerdote, troncandogli un orecchio, Gesù reagisce ordinandogli di riporre quell’arma: Pietro, come anche gli altri discepoli, non ha capito che la spada non gli è stata data per uccidere o ferire il prossimo allo scopo di proteggere Gesù, che se volesse, se cioè non dovesse dare compimento a quanto profetizzato dalle Scritture  e alla volontà del Padre potrebbe ottenere subito da questi «più di dodici legioni di angeli» (Mt 26, 53), bensì solo per reagire ad atti aggressivi eventualmente mossi verso la sua persona. Peraltro, Malco non è personalmente colpevole della cattura di Gesù, trovandosi lì per motivi di servizio. E, d’altra parte, l’uso della forza, in quel caso, non serve a Gesù, e non perché, come si continua a ripetere stancamente e dogmaticamente in certa diffusa predicazione cattolica, la violenza, anche nella sua accezione più generica, generi o debba generare necessariamente violenza, ma solo perché il Cristo in quel momento è chiamato ad astenersi da qualsiasi genere di violenza, e persino da una violenza puramente e legittimamente difensiva, essendo giunta l’ora del suo sommo sacrificio, il momento terminale o apicale della sua salvifica missione d’amore nel mondo terreno.

Gesù invita quindi Pietro a deporre la spada sia perché il suo destino deve compiersi sulla croce, e già in tal senso la sua difesa sarebbe inutile, sia perché egli sta già profetizzando quel che sarebbe accaduto agli ebrei, circa settant’anni dopo, cioè la distruzione di Gerusalemme, per aver pensato di potersi liberare dal dominio romano, non più limitandosi a difendersi da esso, ma attaccandolo frontalmente sul piano militare: tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno (Mt 26, 52). Tuttavia, al centro del discorso di Gesù non c’è una demonizzazione della violenza tout court, un rigetto aprioristico ed irrealistico di qualunque forma di violenza, bensì il richiamarsi ad un principio di razionalità, di prudenza e di saggezza umane, al fine di valutare, caso per caso, se sia e in che misura sia opportuno ricorrere alla violenza al fine di tutelare la vita, gli affetti, i beni, la terra propri o altrui. Da condannare, pertanto, in senso evangelico non risulta essere l’uso in quanto tale della forza o della violenza, ma eventuali usi impropri, inopportuni, sproporzionati o decisamente efferati, specialmente se di natura deliberatamente offensiva o omicida, della forza o della violenza stesse.

D’altra parte, se il principio di legittima difesa è sempre stato agevolmente recepito nelle diverse epoche della storia della Chiesa, ciò verosimilmente è accaduto non già sulla base di improvvide e ingiustificate forzature esegetiche dei racconti evangelici, delle quali peraltro non esiste traccia visto che mai uomo di Chiesa si è trovato nella condizione di dover lamentare e denunciare un abuso di questa natura, ma in virtù di studi biblico-evangelici oltremodo attenti, accurati ed ispirati. Il che non esclude, peraltro, che molte pagine evangeliche possano essere state e possano essere ancora oggi oggetto di manipolazioni interpretative o di strumentalizzazioni ideologiche di diverso segno. Per quanto riguarda in modo specifico la violenza bellica, la guerra, le posizioni elaborate dai grandi Padri della Chiesa in occidente, come Ambrogio, Girolamo, Agostino, Tommaso, per quanto in parte datate hanno sempre goduto, attraverso i secoli e fino a tutto il novecento, di grande considerazione configurandosi come punti di riferimento imprescindibili di qualsivoglia giudizio ecclesiale e pontificio su violenza e guerra.

Ma è Agostino il primo teologo cristiano che avrebbe dedicato molto spazio alla elaborazione di una teoria sulla guerra e più esattamente alla definizione di una teoria della guerra giusta. La guerra può essere giusta e necessaria, per il vescovo di Ippona, tutte le volte che si tratti di portare o restaurare la giustizia dove vi sia somma e disumana ingiustizia o che sia necessario soccorrere anche con le armi popolazioni cristiane, o comunque deboli o inermi, che rischiano di soccombere sotto i violenti e feroci attacchi di nemici molto più potenti; mentre ingiusta è la guerra che, come aveva scritto anche sant’Isidoro di Siviglia, abbia origine nella follia umana e non in una legittima causa, muova da uno spirito di oppressione e sia finalizzata a sottoporre ad un rapporto di schiavitù il popolo o i popoli contro cui essa sia diretta. Sulla stessa linea è Tommaso che giudica legittima la rivolta e persino l’insurrezione armata in caso di manifesta tirannide e ribadisce la posizione agostiniana sulla guerra ritenendo quest’ultima lecita solo in quanto extrema ratio a fini di giustizia e di amore solidale verso chi non potrebbe opporsi da solo a forme spropositate e devastanti di aggressione e di violenza.

Da sottolineare, tuttavia, come ancora accade in epoca controriformistica sulla scia del duplice insegnamento agostiniano e tomista con il cardinale Roberto Bellarmino, che i malvagi, seppure meritevoli di biasimo e condanna popolari, possono essere giudicati e puniti solo dalla legittima autorità civile istituzionalmente costituita. L’elemento forse più discutibile della lunga tradizione ecclesiale e pontificia di pensiero incentrata sull’idea di guerra giusta appare essere, fino al Concilio Vaticano II, la tesi per cui giusta possa essere una guerra anche solo o proprio per motivi religiosi, per difendere la cristianità dai suoi nemici palesi o occulti oppure anche per convertire gli infedeli al verbo di Cristo, tanto che la Chiesa, fino al suddetto Concilio, avrebbe sempre affermato e difeso il proprio diritto ad avere un proprio esercito e ad esercitare una propria giurisdizione penale.

Ma già con Benedetto XV e Pio XII l’orientamento della Chiesa sulla guerra e sulle guerre in genere comincia a cambiare, ad essere più prudente, più controllato, più distaccato, e si comincia a sostituire la guerra come mezzo estremo di risoluzione dei contrasti tra popoli o delle controversie internazionali con il ricorso ritenuto ormai necessario e inderogabile a pratiche politico-diplomatiche fondate su princìpi condivisi di giustizia, saggezza, ragionevolezza e umanità, anche se questo mutamento di prospettiva non avviene tanto su base dottrinaria e teologica quanto su ragioni di opportunità derivanti da un contesto storico-politico-militare molto diverso da quelli dei secoli scorsi e in cui iniziava ad incombere la corsa ad un nuovo e più distruttivo tipo di armamenti e la relativa e concreta minaccia di un annientamento nucleare dell’intera umanità.

Così, nella Pacem in terris di Giovanni XXIII si chiede una riduzione sistematica e simultanea degli armamenti già esistenti in ogni parte del mondo, una messa al bando delle armi nucleari e infine «un disarmo integrato da controlli efficaci». Successivamente, nella Gaudium et Spes di papa Paolo VI si torna tuttavia a precisare che la pace non è semplice assenza di guerra ma opera della giustizia, pur nell’auspicio di una rinuncia planetaria definitiva alla guerra, che però, anche se «è ormai disgraziatamente scoppiata», non rende «per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto». Il Concilio Vaticano II viene così evidenziando che lo spirito di guerra, lo spirito bellico, lo spirito delle armi, non è compatibile, in se stesso considerato, con lo spirito evangelico e con la lingua di Gesù Cristo, ma, a dimostrare che, proprio sul terreno evangelico, sul terreno della dottrina e della teologia cattoliche, la questione dell’uso della guerra, del ricorso all’intervento e allo scontro armati, non potesse ritenersi risolta una volta per tutte, neppure nell’epoca dello sviluppo tanto minaccioso quanto indefinito e inarrestabile degli armamenti nucleari, ci avrebbe pensato Giovanni Paolo II.

In un’omelia tenuta a Vienna il 10 settembre del 1983 in occasione della “celebrazione dei vespri d’Europa nella piazza degli degli eroi”, il papa polacco chiedeva perdono «per le molte colpe di cui noi cristiani» storicamente «ci siamo macchiati, in pensieri, parole e opere, e attraverso l’inerme indifferenza di fronte all’ingiustizia», ma ricordava, subito dopo, con grande e commossa enfasi apostolica, la battaglia di Vienna, svoltasi tra l’11 e il 12 settembre del 1683, che avrebbe posto fine a circa 2 mesi di assedio posto dall’esercito turco ottomano alla città austriaca. Questa vittoria sarebbe coincisa con la liberazione dell’intera Europa cristiana dall’espansionismo militare e religioso di fede islamica e, per questa ragione, avrebbe assunto anche un profondo religioso cristiano. La descrizione che il papa faceva di quel drammatico scenario storico e delle dinamiche che ne sarebbero derivate sia in ambito politico-militare che in ambito religioso e cattolico, per molti aspetti sollecita noi contemporanei dell’inizio del terzo millennio a riflettere sulla guerra attualmente in corso in Ucraina: «A tutti noi è noto che 300 anni (1683) or sono le truppe dell’Impero ottomano cinsero d’assedio questa città, come già nel 1529, con grande superiorità di forze. Il percorso di queste armate era segnato dal terrore degli incendi, delle stragi e delle deportazioni; indicibili erano la miseria, i lamenti, la sofferenza, ammirevole il coraggio dei difensori di Vienna. Prendevano forza dalla loro fede, dalla preghiera e dalla convinzione di combattere non solo per il loro Paese, ma anche per l’Europa e per il cristianesimo. Al Papa spetta il compito di ricordare che il suo predecessore di allora, il beato Innocenzo XI, appoggiò efficacemente l’Austria e i suoi alleati con sovvenzioni, con aiuti diplomatici e con un appello alla preghiera rivolto alla cristianità. Anche al Papa polacco sia concesso di parlare con particolare commozione del re polacco Jan Sobieski alla guida delle truppe di soccorso alleate che liberarono Vienna, in un momento in cui gli eroici difensori della città, ormai soltanto con le loro ultime forze, potevano evitare l’occupazione … È giusto ricordare con ammirazione i difensori e i liberatori di Vienna che hanno opposto resistenza all’attacco con una collaborazione esemplare. Ci sono stati tramandati appelli di predicatori» — qui il riferimento è, in particolare, ad una figura come quella di Marco d’Aviano — che cercavano di spingere gli uomini di quel tempo non solo all’audacia, ma soprattutto ad un ritorno al cristianesimo».

Ma l’analisi del pontefice non era acritica, in quanto «la storia ci impone di interpretare gli eventi di allora con lo spirito dell’epoca e non semplicemente di misurarli al nostro presente. Essa impone di evitare una condanna e un’esaltazione unilaterale. Noi sappiamo che orribili crudeltà venivano inflitte non solo dall’esercito osmanico, ma anche dall’armata dell’imperatore e dei suoi alleati. Per quanto possiamo essere contenti del successo nella difesa dell’Occidente cristiano, dobbiamo prendere coscienza con vergogna del fatto che la solidarietà cristiana allora non era né spontanea né europea». Sono evidenti le affinità intercorrenti tra quell’evento vecchio di circa 350 anni e l’evento drammatico che sta consumandosi sotto i nostri occhi senza che nessuno possa prevederne conseguenze e sviluppi. Tuttavia, dall’alto della sua spiritualità evangelica e del suo magistero pontificio, Giovanni Paolo intendeva affermare e ribadire il suo ruolo di pastore delle anime senza concessioni edulcoratamente propagandistiche ai tanti pacifismi, privi di costrutto etico-razionale e di vero amore per la libertà dei popoli e per la pace nel mondo, che, già nell’ultimo ventennio del secolo scorso, si alzavano fragorosi, incomprensibili e inopportuni in molte piazze del mondo e nella stessa famiglia cattolica, anche se curiosamente e contraddittoriamente, durante la guerra imperialistica degli USA in Vietnam, né comunisti, né cattolici, né progressisti, né conservatori moderati, né atei, né credenti, osarono aprir bocca per protestare contro le armi che i russi sovietici inviavano copiosamente e senza soluzione di continuità al popolo di Ho-Chi-Minh per consentire ad esso di resistere eroicamente all’invasione e ai feroci bombardamenti statunitensi.   

Francesco di Maria

 

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