Ma che significa: “mai la guerra”? Ho sempre pensato che sia un’insulsa espressione retorica. La guerra, in un modo o nell’altro, c’è sempre nel mondo e nella vita, e il problema è proprio quello di capire in che modo bisogna essere seguaci di Cristo in presenza della guerra, in rapporto ad essa, a causa di essa. In nome di Dio, cerchiamo di dire cose più sensate!
Come membro della Chiesa cattolica, ho sempre esercitato in essa un ruolo fraternamente e francamente critico, non ovviamente a prescindere da specifiche vicende o eventi di questo tempo che la riguardano ma in stretta connessione con una necessaria riflessione imposta da quelli che, ormai da troppo tempo, sembrano essere i frequenti usi distorti o epidermici della Parola di Dio. I singoli fedeli hanno non solo il diritto ma anche il dovere, come prescrive lo stesso canone 212, art. 3 del Codice di diritto canonico, «in modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono … di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della persona». Dante Alighieri mise in pratica tale principio deontologico nella prima metà del ‘300 nei confronti dei cardinali di quel tempo cui avrebbe scritto una lettera accorata in un contesto storico-religioso di certo molto diverso da quello attuale ma, per certi aspetti, non meno preoccupante di quello attuale.
Oggi la Chiesa non è dilaniata dalle stesse fazioni ecclesiastiche che allora si contendevano il papato in modo indecoroso, venendo meno al principio evangelico dell’unità della Chiesa, e tuttavia, in non poche occasioni, la Parola di Dio, nel quadro dell’attuale pontificato, viene elusa, fraintesa, disattesa, attraverso acrobazie interpretative del tutto estranee alla Tradizione e allo stesso Magistero pontificio bimillenario. Non si tratta di sempre leciti approfondimenti esegetico-scritturali, di nuovi ma corretti risultati ermeneutici, bensì di adeguamenti infedeli, e non di rado persino pedissequi, dei valori evangelici a letture conformistiche di questo tempo, di adattamenti opportunistici degli insegnamenti cristiani alla cosiddetta cultura del “politicamente corretto”.
Una requisitoria sistematica su tutti quelli che molti cattolici ritengono essere, a ragion veduta, errori dottrinari e teologici dell’attuale pontificato e di tutti i presbiteri che, a vari livelli della scala gerarchica, ad esso siano non solo fedeli, nonostante tutto, ma apertamente e disinvoltamente organici, non è qui né opportuna, né necessaria, ma è sufficiente limitare il discorso al recente e drammatico tema della guerra in corso in Ucraina. Esiste un modo cattolico non solo ermeneuticamente errato di intendere la lectio biblico-evangelica sulla non violenza, sulla disponibilità a “porgere l’altra guancia”, sul dovere di cercare sempre di costruire rapporti di pace con chiunque, ma anche ambiguo, farisaico, ipocrita. E il papa attualmente in carica non si sottrae purtroppo, su questa come su altre questioni, a tale ambiguità, proprio mentre continua a nominare secondo i suoi gusti nuovi vescovi e cardinali che un domani possano contribuire a conservare gli orientamenti teologici ed ecclesiali oggi conferiti dal papa argentino alla Chiesa cattolica, dove non si può non osservare che i primi apostoli di Gesù, dopo la sua morte, sapendo che solo Dio può chiamare a seguirlo, si affidavano talvolta non ai propri opinabili gusti personali ma al sorteggio, certo non indiscriminato ed esteso a soggetti del tutto sconosciuti ma relativo ad un ristretto ventaglio di nomi, quando si rendeva necessario che qualcuno entrasse nel gruppo apostolico: è ben noto, infatti, come a sostituire Giuda fosse Mattia per sorteggio (Atti 1, 23-26).
Oggi si tende a dimenticare che la Chiesa è fondata sulla roccia della Parola di Cristo e che Gesù identificava la rocciosità della sua Chiesa non genericamente con chiunque fosse stato investito del titolo e del ruolo di vicario di Cristo in terra nel corso della storia della Chiesa da lui fondata, ma con la rocciosa, incondizionata, assoluta fedeltà di Pietro al suo pensiero e al suo volere, di Pietro e di tutti i suoi successori che ne avessero però condiviso lo spirito, il rigore, l’integrità e l’abnegazione dottrinaria e pastorale. Tu sei Pietro, tu sei la mia roccia e su questa roccia costruirò la mia Chiesa! Questo è il significato ermeneuticamente più corretto delle celebri parole di Cristo: chi, dopo Pietro, avesse voluto continuare a costruire la Chiesa sulla roccia, avrebbe dovuto continuare altresì ad ispirarsi continuamente alla figura di Pietro, senza pensare di poter minimamente assecondare disegni personali e distanti dai progetti divini.
Ora, tornando alla guerra in corso, l’ultimo eletto di Francesco, monsignor Matteo Zuppi, sembra aver ricevuto l’incarico di promuovere nell’immediato una crociata ultrapacifista dei vescovi italiani contro il reiterato invio di armi in Ucraina da parte del governo italiano. Con grande soddisfazione del direttore di “Avvenire”, il toscano Marco Tarquinio, che è molto vicino alle posizioni di Comunione e Liberazione e che ha ritenuto di unirsi ormai stabilmente al coro di coloro che pretendono di parlare di pace e soprattutto di costruire la pace senza armi, senza combattere, senza contrastare con la forza le spietate armate di un paranoico malvagio e sanguinario come Putin (con buona pace di certa Donatella Di Cesare), che stanno tentando letteralmente di cancellare dalla faccia della terra un intero popolo. Tarquinio, che è uno dei peggiori retori cattolici che sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi, scriveva giorni fa sul suo giornale che «sembra trionfare la dismisura violenta e assassina della guerra che fa a pezzi incessantemente il mondo». Ma poi lui e Zuppi alla domanda ovviamente ricorrente: ma allora, se non bisogna mandare più armi in Ucraina, come facciamo ad ottenere la pace?, tentano prima di barcamenarsi con risposte generiche e scontate: bisogna creare le condizioni per dialogare con i russi, cercando delle intelligenti e utili mediazioni, compromessi ragionevoli per tutte e due le parti in guerra; dopodiché, alla incalzante domanda di chi chiede cosa in concreto bisognerebbe fare per fermare il genocidio in atto dal momento che Putin non accetta alcun tipo di dialogo, di mediazione, di compromesso, che non vengano implicando la totale capitolazione del popolo ucraino e in sostanza l’annessione alla Russia dei territori ucraini più ricchi di grano, di materie prime alimentari, di preziosissime e rare risorse minerarie, Zuppi e il suo consigliere giornalista non appaiono per niente in grado di dare risposte minimamente soddisfacenti. A una giornalista televisiva che incalzava, spazientita, il prelato chiedendogli: ma monsignore lei allora che farebbe di concreto, quale iniziativa prenderebbe per rendere realisticamente possibile la pace?, Zuppi, impacciatissimo, rispondeva: “non saprei, non saprei … però bisogna per forza trovare spazi di dialogo”. Ma perché mettersi in bocca frasi di cui non si sia capaci di render ragione?
Che razza di risposta sarebbe questa, che modo di argomentare serio e responsabile sarebbe quello di un prelato della Chiesa che dimostra così di non conoscerne né il travaglio storico-dottrinario, né le illuminate riflessioni di tanti suoi degnissimi esponenti sia del passato più remoto che di quello più recente, né persino il principio di legittima difesa contenuto nello stesso Catechismo cattolico all’articolo 2265? Questo articolo recita testualmente: «La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità». I legittimi detentori dell’autorità sono gli Stati, non lo Stato pontificio, ma gli Stati, nelle cui decisioni evidentemente non è consentito alla Chiesa di interferire in alcun modo, specialmente se le sue indicazioni, raccomandazioni, ammonimenti, siano, come nel caso specifico, completamente prive di concretezza, di ragionevole significato propositivo, di reale valore etico e spirituale. E la prima parte dell’articolo successivo, il 2266, recita: «Corrisponde ad un’esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto». Più chiaro di così!
E’ paradossale che la Chiesa dica di preoccuparsi della pace nel mondo e, dinanzi ad un’aggressione così prepotente, malvagia, demoniaca, come quella russa ai danni di un intero popolo, non riesce a capire o non si sforza di capire che una simile aggressione, se non fermata per tempo con l’aiuto di Dio, non sia solo portatrice di lutti insuperabili per il popolo ucraino ma rappresenti anche l’anticamera di un probabile lutto planetario. Chi scrive, anche per la sua gracile costituzione fisica, è sempre stato refrattario a logiche violente di sopraffazione e di dominio, a contrasti che non fossero riconducibili a un confronto anche acceso di idee, pur non astenendosi talvolta di affrontare, a proprio rischio e pericolo ma anche a viso aperto, individui particolarmente arroganti, aggressivi e prepotenti. E sa quanto sia doloroso il dover subire la prepotenza e le minacce altrui specialmente quando non si possa contare sulla solidarietà e sull’aiuto di alcuno. Ma questo non gli ha mai impedito di prendere posizione, nei limiti delle sue possibilità e delle sue forze, anche nella più minuta quotidianità, a favore dei deboli, degli oppressi, degli innocenti, e in ogni caso a favore di coloro che esprimano esigenze di verità e giustizia.
Al papa regnante, per la cui salute fisica e spirituale ho sempre pregato e continuo a pregare, al papa regnante che ha voluto prendere il nome del grande santo di Assisi, bisognerebbe ricordare che quest’ultimo non avrebbe fatto mancare i suoi elogi a cavalieri e paladini cristiani distintisi in battaglia, come si può leggere nella biografia più antica del santo, in quell’attendibile manoscritto in latino del 1311 scoperto nel 1922-1926 da padre Ferdinand Delorme e da questi chiamato Legenda antiqua sancti Francisci proprio per sottolineare che la maggior parte del materiale in esso raccolto risalisse ai primi compagni del santo. Francesco in Oriente, in qualità di cappellano (di cappellano, si noti) della quinta crociata, non andò certo per portare messaggi di ambigua pacificazione e per predicare una sorta di irenismo religioso in cui tutte le fedi potessero convivere tranquillamente, ma per predicare il vangelo e per convertire i musulmani a Cristo. E anzi, nel quadro della sua pacifica predicazione evangelica, c’è un aspetto “bellico” di Francesco, un aspetto ancora non molto noto, ed è quello per cui egli, per dimostrare al sultano d’Egitto, Malik al-Kamil, la superiorità di Cristo e del Dio cristiano rispetto a Maometto e al dio islamico, lo sfidò in una pubblica ordalìa a camminare sui carboni ardenti nel nome delle rispettive divinità.
Se oggi un cristiano non si sente motivato a portare il suo aiuto materiale, sia pure nei limiti delle sue capacità, a quanti siano vittime di aggressioni e soprusi ingiustificati o comunque eccedenti le ipotetiche cause che abbiano potuto provocarle, non è un cristiano, non è un cattolico spiritualmente degno del nome battesimale che porta; non è un uomo che vuole la pace, che è sempre sintesi di verità e giustizia, ma che vuole solo la sua pace e quella di uomini non disposti a morire per il bene e la dignità dei suoi simili.
Francesco di Maria