La contemporaneità malata

Uno dei termometri principali della civiltà umana è dato certamente dal grado di incidenza formativa della scuola e dell’università nel suo insieme. Poiché ho insegnato per poco meno di quarant’anni nella scuola italiana e in particolare nella scuola meridionale del nostro Paese e ho avuto frequenti contatti con il mondo accademico, ritengo sia corretto premettere che la mia analisi e le mie critiche si riferiscono essenzialmente alla realtà scolastica e alla prassi educativa e culturale complessiva da me sperimentate, anche se questa ammissione non implica affatto una riduzione di attendibilità per quanto riguarda il discorso sulla situazione scolastico-culturale e universitaria di tutta la nazione.

Molti anni or sono, Eugenio Garin, nome leggendario della cultura filosofica italiana novecentesca, diceva che il primo e fondamentale dovere dell’insegnante è quello di non trascurare mai il principio stesso di ogni attività educativa e culturale, cioè il suo valore umano e liberatorio, al di là di ogni specialismo e tecnicismo e al di là di ogni interesse contingente o meramente utilitaristico; è quello di puntare dunque su un’idea di cultura come conquista di una sempre più profonda consapevolezza di sé e delle dimensioni storiche e spirituali universali e specifiche della propria esistenza. Garin questo affermava riprendendo l’espressione crociana “cultura e vita morale” ma senza pretendere che questi due termini dovessero essere coniugati necessariamente proprio nel senso crociano. Da questo punto di vista, con o senza Croce, non si può non esprimere un giudizio molto critico sulla scuola italiana per via di dinamiche didattiche ed educative che specialmente oggi, ma almeno dalla fine degli anni settanta in poi, sono sembrate e sembrano gravitare attorno ad idealità e aspettative che con la cultura, intesa come complesso rigoroso di conoscenze e come esercizio critico di razionalità, e con la vita morale, intesa quale acquisizione disciplinata di idealità e valori universali che sono e devono essere alla base della vita collettiva e della stessa vita personale, hanno ben poco e sempre meno a che fare.

La scuola italiana è culturalmente e moralmente precaria perché sono precari gli insegnanti, precari non solo perché spesso impreparati ma anche perché privi di un posto di lavoro stabile, di una paga decorosa e gratificante, di una concreta e realistica opportunità di assolvere una effettiva funzione educativa in un mondo scolastico troppo tecnicizzato, informatizzato, burocratizzato, in cui l’apprendimento delle lingue straniere (posto che tale sia effettivamente) e la cosiddetta educazione alla legalità (affidata per lo più a presunti esperti del settore, a magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine) sono considerati più importanti di una robusta formazione etico-civile che vada al di là degli angusti confini della cosiddetta “attualità” e sia funzionale all’acquisizione di una forma mentis  ben più completa di quella che occorre per inserirsi, sia pure virtualmente, nel mondo del lavoro e delle professioni. La scuola italiana è precaria perché la sua agenda educativa è sempre più frequentemente dettata non già da un’autonoma comunità educativa di docenti liberi e responsabili ma dal conformistico ed imperante credo del “politicamente corretto”, affidato alla comunicazione interessata e senza scrupoli dei grandi apparati mediatici e riproposto continuamente sia da politici stolti e irresponsabili sia anche da una maggioranza bellicosa di famiglie che tendono generalmente ad assecondare in modo del tutto sconveniente e nocivo i propri figli condizionando pesantemente quella che dovrebbe essere la libertà di giudizio dei docenti (e di docenti sperabilmente integri) con aspettative e pressioni del tutto illegittime. A ciò si aggiungano i concorsi farsa a preside, anzi si dice oggi a dirigente scolastico (!), dai quali troppo spesso escono vincitori degli individui più che altro frustrati e desiderosi di esercitare il comando e molto meno capaci di autonomo pensiero critico e di irreprensibile comportamento etico. Ci si può meravigliare poi se nel nostro Paese sia molto diffusa quella improduttiva mediocrità culturale che è capace di generare solo ripercussioni disastrose in moltissimi ambiti lavorativi e professionali della società italiana?  

D’altra parte una scuola secondaria di questa fatta non poteva e non può non generare alla lunga una realtà universitaria altrettanto malata e improduttiva, ben poco formativa e votata solo presuntivamente a formare le classi dirigenti del futuro, quindi scarsamente “strategica” nel quadro dello sviluppo nazionale: una realtà in cui viene coltivata un’intellettualità molto approssimativa e disorganica, soprattutto nelle facoltà di scienze umane e storia, di scienze della formazione e di sociologia psicologia e scienze giuridico-politiche. Per 10 accademici che onorano il loro ruolo e danno realmente lustro alla cultura nazionale, pur potendo essere criticabili sotto il profilo deontologico, ce ne sono almeno 25-30 che vivacchiano pigri e annoiati nelle aule e nei laboratori universitari in attesa di evadere con qualche viaggio di studio ma soprattutto di piacere e intenti a scrivere (o a farsi scrivere) e a pubblicare tra molti periodi di ozio qualche libercolo che, per quanto insulso o prolisso, possa essere utilizzato poi alla prossima tornata concorsuale. Arretratezza e parassitismo, incompetenza e immoralità, autoreferenzialità corporativa e mediocrità professionale, ricerca e produzione scientifiche generalmente confuse, tortuose, logorroiche, astruse e alla fine inintellegibili e insignificanti  non solo sul piano didattico ma anche su quello scritturale e pubblicistico, sono caratteristiche deprimenti molto più diffuse di quanto si creda nel mondo universitario italiano. Anche qui, peraltro, 8 volte su 10, ed è una valutazione molto ottimistica, i concorsi sono finti, perché gli esiti sono largamente predeterminati, ovvero i commissari sanno già chi deve vincere indipendentemente dai titoli presentati e dalle eventuali prove orali sostenute, le cattedre sono assegnate prima che i concorsi abbiano inizio, per cui, anche se un candidato non raccomandato si dimostrasse nettamente migliore dei suoi colleghi, non ci sarebbe modo che il sistema andasse in tilt, anche perché a chi osa presentarsi ad un concorso senza far parte del novero programmato di vincitori vengono riservati, più che giudizi scientifici, veri e propri insulti da ambiente malfamato.  E’ più facile che un commissario, colto da improvvisa e non programmata crisi di coscienza, sia costretto alle dimissioni che non il caso inverso, cioè che un non papabile riesca a spuntarla sorprendentemente sui candidati prescelti aprioristicamente per la vittoria concorsuale.

Al di là di tutto questo, o forse anche a causa di tutto questo, non esiste più una figura autorevole e preziosa di intellettuale sia pure in una versione più moderna di quella tradizionale, la figura non dello studioso, dell’accademico, dell’erudito, dello specialista o del polemista, che si limitano a parlare e ad argomentare più o meno bene restandosene tuttavia distanti e separati dalla vita reale della gente, ma dell’intellettuale che riflette e si interroga criticamente e disinteressatamente in modo organico sui problemi pratici e spirituali dell’umanità e, più in particolare, della propria nazione di appartenenza, ed essendo lui stesso organico alla concreta e sofferente umanità di cui fa parte e che lo circonda. In questo senso,  l’intellettuale di cui si sente la mancanza è gramscianamente, lo dico da cattolico, non il tuttologo televisivo e giornalistico intriso di soggettivismo utilitaristico e narcisistico, ma il costruttore, l’organizzatore di egemonia, che significa di nuova umanità e intellettualità, di nuova eticità e socialità. Certo, nessuno disconosce a parole la funzione civile dell’intellettuale ma assai di rado capita di ascoltare intellettuali capaci di interpretare in modo organico la società al di là degli schemi propagandistici o ideologici di questo o quel partito e delle battute più o meno provocatorie di questo o quel giornalista. Assai di rado si ha a che fare con veri maestri di pensiero, di morale e di etica politica, con coloro che tali sono se pensano soffrendo e soffrono pensando, se sanno sentendo e sentono sapendo. Ormai non è il politico, il giornalista, l’economista, che tende ad attingere dall’intellettuale realmente indipendente, e indipendente nel suo voler essere dipendente unicamente dalla verità che è sempre oggettiva e problematica ad un tempo, e dalla sua agenda filosofica ed etico-politica, ma al contrario sono gli intellettuali che il più delle volte non sanno fare a meno di dipendere (e dico dipendere che è ben altro dal confrontarsi) dai quadri tematici, non necessariamente veritieri o radicati in dati di fatto inoppugnabili, elaborati da questo o quel professionista del sapere.

Molti invocano riforme radicali che trasformino profondamente scuola e università, ma pochi comprendono che una riforma radicale degli ordinamenti e dell’ethos scolastici e universitari dovrebbe coincidere con una forma radicale del nostro stesso modo di considerare la conoscenza e la cultura in rapporto all’esigenza di una effettiva trasformazione spirituale della nostra idea di vita e di convivenza. Che è ciò che non solo le più o meno trasparenti stanze della politica e le più o meno segrete stanze accademiche generalmente mostrano di non desiderare ma che anche la stragrande maggioranza di noi, abituata a pratiche ipocrite e degenerate di vita associata, per il momento almeno non sembra desiderare affatto. D’altra parte, per motivi storici molto complessi e su cui non è qui il caso di soffermarsi, le ideologie di destra e di sinistra sono davvero tramontate, soprattutto dal punto di vista comportamentale e pragmatico, nel senso che tra l’una e l’altra sono rimaste ben poche differenze qualitative. Una distinzione c’è solo perché una competizione per il potere, per la gestione del potere, esige quanto meno l’esistenza formale di una distinzione o di una contrapposizione, ma piaccia o non piaccia, in Italia di fatto non sussistono più tra Destra (nella quale vanno annoverati i 5Stelle) e Sinistra, se non forse per per aspetti inessenziali e inestinguibili beghe personalistiche e polemico-caratteriali, sostanziali differenze ideali e/o programmatiche. L’una e l’altra sembrano patire molto, al di là delle schermaglie polemiche previste dal copione politico-parlamentare, quella consorteria politico-finanziaria mondiale che continua oggi a dettare ai governi nazionali, sia pure forse con una pressione inferiore a quella del più recente passato, regole inderogabili per quanto riguarda la loro politica economica e finanziaria con evidente ed inevitabile incidenza anche sul piano delle scelte politiche interne ed internazionali.

Persino su particolari temi bio-etici, nel quadro di un’egemonia europeista volta ad imporre punti di vista normativi ben più che discutibili, non esiste più in sostanza una vera differenza di sensibilità, perché in larga misura sia i cattolici di tutti gli schieramenti sia i parlamentari di sinistra sono ormai favorevolmente allineati a favore di “diritti” (a cominciare da quelli per gli omosessuali) che un tempo né la Democrazia Cristiana né il vecchio e coriaceo Partito Comunista si sarebbero mai sognati di poter e dover perorare. Altri tempi, altra etica, altra cultura e altra politica, nonostante tutte le magagne, le falle, gli errori e i compromessi non sempre qualificanti, che appartennero all’epoca della cosiddetta Prima Repubblica!

Stando così le cose, si può solo e ancora una volta auspicare, su questo sito che avevamo pensato come possibile ed efficace strumento di lotta etico-politica su posizioni coerentemente cattoliche e che invece in tal senso non ha avuto fortuna pur forse rimanendo un utile spazio di consultazione e di confronto per qualche perplesso navigante del burrascoso mare politico nazionale ed internazionale, una forte reazione intellettuale  morale e religiosa a questo stato di cose che, nonostante l’affiorare di alcuni piccoli e concreti segni di speranza nell’era renziana, condanna l’umanità ad essere passiva e rassegnata e sempre meno artefice del proprio destino, della sua rigenerazione economica e del suo progresso storico. Fino a quando gli stessi cattolici impegnati direttamente o indirettamente in politica non capiranno che i loro principali interlocutori devono continuare ad essere anche sul piano politico, oltre che nella vita privata, Gesù e Maria, il loro impegno alla lunga non potrà che rivelarsi sterile e di scarso valore strategico ai fini di una ripartenza storico-politica significativa e duratura della nostra amata nazione, specialmente in un momento storico in cui il terrorismo islamico tenta per l’ennesima volta (si pensi alla strage di Barcellona), e sia pure con modalità del tutto inedite, di incunearsi nel cuore dell’Europa per poterne preparare l’assoggettamento al Corano e al credo islamico.

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