Quando si viene trattando di un personaggio della santa storia cristiana come Maria di Nazaret, uno dei rischi che si vengono correndo è di far prevalere lo slancio lirico sull’approccio realistico, ma, in realtà, anche il più realistico degli approcci interpretativi non può evitare di rappresentare Maria come donna grandissima non già al di là delle normali e faticose vicende della quotidianità ma proprio in mezzo ad esse e alla luce di esse. Diceva bene don Tonino Bello, nel suo libro Maria donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1993, 2001, quando descriveva Maria quale donna feriale e donna senza retorica, quale donna feriale in quanto molto più importante nella sua casa di Nazareth, tutta affaccendata in lavori domestici ripetitivi e logoranti, e capace di piangere e gioire, di rendersi utile a familiari e conoscenti e pregare, di subire i contraccolpi di situazioni dolorose senza tuttavia mai drammatizzare e mostrandosi sempre propositiva, che non come oggetto di trattazione biblico-patristica, di venerazione dogmatica e liturgica, di ammirazione artistica. Maria deve essere celebrata come una grande donna del popolo di Dio prima e oltre che come personaggio-chiave della storia eterna di Dio, come una donna che mai avrebbe amato la retorica, neppure di fronte al suo Dio. Dio le avrebbe affidato il compito enorme di dare inizio alla storia della salvezza e, per tutta la sua vita terrena, non avrebbe fatto altro che magnificarne l’onnipotenza, e quindi anche la misericordia e la giustizia infinite, senza darsi arie da prima donna ma pregando costantemente a favore dei semplici, degli umili, degli oppressi e dei perseguitati, e condividendo con persone comuni, nella gioia o nel dolore, i suoi stati d’animo e la sua umanità, per cui, se è certamente vero che grandi cose avrebbe fatto in lei l’Onnipotente, altrettanto vero è che ella, presumibilmente non solo da un punto di vista umano ma anche nell’ottica divina, ne sarebbe stata degna anche facendole valere al meglio nei suoi rapporti con gli altri.
D’altra parte, Maria fu madre di tutti, non solo di Gesù, sin dall’inizio, sin dal momento in cui ella era stata concepita ab aeterno da Dio-Padre e, nella temporalità del mondo, sin dalla nascita dello stesso Figlio divino, ed è destituita di fondamento l’interpretazione data al riguardo da Chiara Lubich la quale, in una nota del 2 ottobre 1949 (Si rinvia alla complicata ricostruzione che della vicenda si dà in Brian K. Reynolds, Alcune note sulla Vergine Maria nel pensiero di Chiara Lubich, in “Nuova Umanità”, 2015, n. 218, pp. 205-206), aveva ritenuto di poter affermare che, nel momento in cui Gesù crocifisso si sente abbandonato dal Padre, anche Maria si sarebbe sentita destituita come Madre, perché, avvertendo di essere privo di padre, il Figlio non poteva che sentirsi abbandonato anche da parte di madre, e quindi totalmente solo, per ciò stesso togliendo a colei che era stata scelta dal Padre quale genitrice del Figlio il diritto ad esserlo ancora. In realtà, il ragionamento di Lubich è molto bizzarro ed è emblematico di come la teologia, suo malgrado, possa allontanare da Dio quando pretende non solo di poter confidare nella ragione al di là delle sue possibilità e dei suoi limiti soggettivi o oggettivi, ma anche di poter creare astrazioni concettuali talmente tortuose, e dico tortuose non elevate, da rendere completamente inutilizzabile persino quel buon senso o quel senso comune, che è il senso dei semplici, il canale conoscitivo, non certo l’unico e tuttavia necessario, a prescindere dal quale non può aver luogo alcuna forma di conoscenza, né religiosa né scientifica, a prescindere dal quale non si dà né scienza, né fede.
Maria sa di essere madre di Dio nel momento in cui concepisce nel suo grembo il Figlio; va da sé, tuttavia, che ella in quel preciso istante diventa, oggettivamente, anche madre di tutte le creature, per il semplice motivo che, se una creatura ha il privilegio di diventare madre della divinità, non si vede come la sua maternità divina potrebbe non essere comprensiva della maternità umana, di natura tanto fisica quanto spirituale per quanto riguarda il Figlio di Dio e di natura esclusivamente spirituale per quanto riguarda le creature di Dio mono-trinitario. Dunque, la maternità divina di Maria, allorchè il Logos viene in lei incarnandosi, è già e, contemporaneamente, una maternità umana non solo in relazione alla persona storica di Gesù ma anche, sul piano teologico, in relazione a tutte le creature dipendenti dal Cristo Salvatore. Nel momento in cui Gesù moribondo si lamenta che il Padre lo abbia abbandonato, non mette minimamente in discussione la presenza del Padre ma, sia pure drammaticamente, la natura passiva, inattiva, inerte, di quella presenza, da Gesù incompresa e pur tuttavia misteriosamente prevista come necessaria nel piano salvifico, e non è pertanto vero che in quel frangente Gesù non abbia né padre, né madre, intanto perché la maternità divina e umana di Maria era stata già irreversibilmente acquisita, per effetto di cause sovrannaturali ma anche per via biologica, reale, e in secondo luogo perché, quando Gesù conferisce alla madre il titolo di madre della Chiesa e dell’umanità, ella non viene affatto privata della sua originaria maternità divina, venendole semplicemente ribadita la duplice, originaria e permanente maternità umana e divina, questa duplice funzione sovrannaturale che, se si vuole, solo ora viene solennemente riconosciuta, esplicitata, formalizzata.
Né ha senso la precisazione, che anzi complica ulteriormente le cose, della mistica trentina quando scrive che la maternità divina sarebbe stata immediatamente restituita a Maria per aver ella partecipato intensamente e assentito a quell’ultimo comando del Figlio morente, rinunciando alla sua iniziale maternità divina. Maria non rinuncia proprio a niente. Il Signore, infatti, nel conferirle il titolo di madre dell’umanità, non ne depotenzia affatto quello di Madre di Dio, e quindi non destituisce affatto Maria, come sostiene Lubich, dalla sua maternità divina, ma esplicita semplicemente qualcosa che ineriva implicitamente nella sua divina maternità e stabilisce solennemente che ella, da quel momento in poi, sarebbe stata riconosciuta anche come madre universale dell’umanità. Chi aveva già di fatto ottenuto di esercitare la funzione di Madre di Dio, avrebbe potuto mai non essere riconosciuta oggettivamente quale Madre dell’umanità? Se Dio si era a lei rivolta per chiederle fiduciosamente di collaborare al suo piano di salvezza, per quale motivo noi non dovremmo implorarla di soccorrerci e sostenerci in questo mondo e presso Dio stesso? E se Gesù le ha affidato il compito di essere, oltre che madre sua, anche madre di ognuno di noi, non sarà per caso al fine di metterla in condizione di esercitare in mezzo alle creature la sua stessa maternità sovrannaturale? La “piena di grazia” non avrebbe potuto far valere efficacemente, in tal modo, il suo ruolo di intercessione presso Gesù a favore di tutte le creature e ottenere per esse tutte quelle grazie che mai avrebbero potuto o potrebbero conseguire da sole?
S’intende: ella è madre di ognuno di noi in quanto “figlia prediletta del Padre”, in quanto “serva del Signore”, in quanto “combattente di Dio”, e in questo senso il suo amore verso i suoi simili è “di parte”, cioè non è indifferente al bene e al male, non è equidistante tra la virtù e il vizio, tra il giusto e l’ingiusto. Chi, come Maria, ama la verità divina, ovvero la verità tout court, non può essere “neutrale” ma solo obiettiva, anche se non fa mancare il suo sostegno soprattutto alle creature più travagliate, più combattute interiormente, più lontane soggettivamente da Dio. Questo, tuttavia, non può essere interpretato come un suo avallare il peccato, il male, l’odio, la malvagità in vario grado presenti o operanti nel mondo, come un suo volerne ridimensionare il significato negativo, deteriore, corruttivo e disgregativo. Al contrario, proprio perché ella ritiene che non si diano né amore, né giustizia, né libertà, né eguaglianza, né pace che possano prescindere da uno spirito di verità radicato nella fede in Cristo-Dio, si adopera perché i pensieri e i comportamenti umani siano quanto più aderenti possibile a tale spirito. Maria ama tutti indistintamente ma in funzione del Logos e della volontà divini, non indipendentemente da essi. Ecco perché, pur senza coltivare sentimenti preconcetti di avversione verso ricchi, potenti e superbi, la sua scelta di campo, come ha scritto l’ispirato vescovo di Molfetta, sarebbe stata per i poveri (non solo in senso materiale ma anche e principalmente spirituale), gli oppressi, gli offesi e i perseguitati di tutti i tempi, non senza tuttavia preoccuparsi di esortare i primi a disertare l’esercito del male e del peccato e a convertirsi agli insegnamenti salvifici di Dio.
Maria fu «partigiana come Dio», fu la partigiana di Dio, pur sempre restando benevola e ospitale verso gli stessi nemici di Dio, non certo su un piano politico quanto piuttosto su un piano metapolitico, vale a dire su un piano umano, esistenziale, spirituale che tende a trascendere appunto il piano meramente politico. E questa madre partigiana, per don Tonino Bello, è quella che specialmente dovrebbe tenere in considerazione la Chiesa di Cristo che necessita del suo aiuto per «uscire» dalla propria non infrequente e «pavida neutralità» su questioni non secondarie della concreta vita degli uomini. Ma la sua partigianeria spirituale e religiosa, da intendere come spirito mai esitante di verità e di obiettività, persino nei momenti contingenti e inevitabili di umana incertezza, non sarebbe venuta assumendo in alcuna circostanza un carattere di sfrontatezza o di ostentazione. Anzi, a Maria, creatura tra creature, per quanto prescelta da Dio, non fu estranea la paura, il timore di non essere creduta, di non essere compresa, di non riuscire a tenere completamente fede agli impegni contratti con Dio nel corso dell’apparizione angelica, e poi la paura per la salute di Giuseppe, per quel che sarebbe potuto accadere, e che infatti sarebbe accaduto, al Figlio. Ebbe paura Maria ma anche coraggio, soprattutto coraggio, che consiste in realtà nella capacità morale e spirituale di tenere a bada, se non di superare totalmente, la tensione emotiva di situazioni realmente preoccupanti, drammatiche, o virtualmente rovinose e luttuose.
Sotto la croce avrebbe voluto morire lei al posto del Figlio ma, benchè oltremodo provata e disperata nel momento stesso in cui il Figlio agonizzante la proclama Madre dell’umanità affidandola ad un tempo all’amore e alle cure di quest’ultima, ella per un attimo si riprende per assentire coraggiosamente alla volontà filiale e divina. Per il resto, Maria non avrebbe mai subìto passivamente l’esistenza ma avrebbe sempre reagito con la forza della sua invincibile fede nell’amore e nella giustizia di Dio. Come scrive molto significativamente il vescovo di Molfetta, i privilegi di Madre di Dio non le «avrebbero offerto isole pedonali capaci di preservarla dal traffico violento della vita», che è quello che dovrebbero tener ben presente tutti i fedeli, in particolare quelli che siano tentati di recriminare nel corso delle loro preghiere a causa di eventi tristi o drammatici che ne vengano turbando gravemente la vita. Avrebbe continuato a servire Dio con assoluta fedeltà, nei tempi gaudiosi e nei tempi dolorosi, con la consapevolezza che i suoi tempi storici fossero ben radicati nei tempi sovrannaturali ed eterni di Dio, e che eseguire fedelmente i comandi divini non potesse significare vivere in modo anacronistico ma addirittura in anticipo sui tempi della storia, sebbene anche in tal caso ai margini della storia, e in funzione della maturazione e del pieno compimento dei tempi dello Spirito. Il servizio di Maria fu un servizio profetico, uno di quei servizi oggi profondamente in disuso oppure, al contrario, per quanto rari, disconosciuti e scambiati, anche in casi di reale, conclamata e verificabile profeticità, per fenomeni psichiatrici.
Fosse vissuta in un’epoca come la nostra, in cui la figura del servo è giuridicamente e socialmente obsoleta, ella probabilmente si sarebbe definita come una donna di servizio, portata però ad offrire le sue amorevoli prestazioni spirituali in modo del tutto gratuito e non per essere retribuita. Tuttavia, osserva don Tonino, «quell’appellativo di serva, che da un punto di vista biblico-religioso denota una grande elevatezza spirituale, non trova posto nelle litanie lauretane! Forse perché, anche nella Chiesa, nonostante il gran parlare che se ne fa, l’idea del servizio evoca spettri di soggezione, allude a declassamenti di dignità, e sottintende cali di rango, che sembrano incompatibili col prestigio della Madre di Dio. La qual cosa fa sospettare che perfino la diaconia della Vergine sia rimasta un concetto ornamentale che intride i nostri sospiri, e non un principio operativo che innerva la nostra esistenza» (Maria donna dei nostri giorni, cit., p. 77). Maria si sentiva e sarebbe stata serva ma non fu una serva frustrata perché sapeva bene che il suo servizio era privilegiato in quanto finalizzato alla preparazione e alla costruzione del più glorioso dei regni, il regno eterno di Dio. Noi, invece, al contrario, spesso ci diciamo servi in senso puramente retorico o per falsa modestia, restando molto distanti, talvolta anche come ministri del culto, dal voler realmente porre, sul piano esistenziale, al servizio di Dio e del prossimo, le nostre vite, le nostre intelligenze, le nostre sensibilità.
Essere servi di Dio è molto più impegnativo di quel che si pensa perché si tratta di mettere a disposizione dei sofferenti e dei bisognosi, occasionali o permanenti, almeno parte delle nostre risorse economiche, intellettuali, morali, spirituali in spirito totalmente disinteressato di carità, e quindi al riparo da ogni spirito di protagonismo o di pubblicizzazione, proprio come Maria aveva fatto alle nozze di Cana, quando nessuno si sarebbe accorto del prodigio che, da lei richiesto al Figlio, allora si sarebbe verificato. Quella di Maria non fu mai un’umanità falsa, finta, retorica, esibita, ma vera, sincera, silenziosa, nascosta, schietta e compiuta. I nostri pastori sono oggi all’altezza della sua umanità? Noi tutti siamo capaci di coltivare nel cuore almeno un seme di quella verginale e sapiente umanità? Maria fu capace, per intervento sovrannaturale ma anche per suo merito personale, di non chiudere gli occhi di fronte al male dilagante nel mondo e nelle coscienze di uomini e donne ma di conoscerlo, toccarlo con mano in tutte le sue forme e in tutte le sue implicazioni, talvolta sperimentandone personalmente i più deteriori o letali effetti; e fu paladina del bene contro il male, praticando il primo e combattendo il secondo nella sua concreta, personale quotidianità.
Non bisogna mai dimenticare che l’Immacolata Concezione, ovvero Colei che sarebbe stata concepita senza peccato originale e quindi come creatura predisposta in modo ottimale ad una vita santa, non sarebbe nata tuttavia già santa, non sarebbe venuta al mondo con una santità già incorporata nella sua anima e nel suo corpo ma, sia pure sotto uno speciale impulso divino, sarebbe diventata santa (Maria donna dei nostri giorni, cit., p. 110) tra molteplici pericoli e notevoli tormenti. E’ a questa donna reale, concreta, esperta suo malgrado delle lordure, delle nefandezze e delle mostruosità della vita, è a questa donna che attraversa la storia non semplicemente osservandola e giudicandola ma vivendola e comprendendola internamente, non alla donna stilizzata e idealizzata dei mistici bizantini o degli artisti occidentali, non alla donna eterea e del tutto estranea alle impurità del mondo tante volte celebrata nell’epopea religiosa e nella trattatistica teologica e mariologica, che bisogna rivolgersi in preghiera e affidare la propria esistenza. A questa che sarebbe stata la Donna più universale di tutte le epoche, a questa Donna che il Cristo volle costituire “nostra conterranea” e “contemporanea di tutti”, dunque anche nostra contemporanea, possiamo fiduciosamente rivolgere la nostra preghiera, come ricorda ancora don Tonino, in qualunque fase e per qualunque necessità della nostra esistenza: «Mettiti … accanto a noi, … ascoltaci mentre ti confidiamo le ansie quotidiane: lo stipendio che non basta, la stanchezza da stress, l’incertezza del futuro, la paura di non farcela, la solitudine interiore, l’usura dei rapporti, l’instabilità degli affetti, l’educazione difficile dei figli, l’incomunicabilità perfino con le persone più care, la frammentazione assurda del tempo, il capogiro delle tentazioni, la tristezza delle cadute, la noia del peccato…» (Ivi, pp. 115-116).
Specialmente coloro che, sia pure indegnamente, provano ad affidarsi a lei senza riserve, non si limitano a supporre ma sanno perfettamente, per esperienza talvolta diretta e personale, che la Madre neppure di fronte a casi di peccato apparentemente irreversibile si arrende facilmente, e, anche in tali casi, è sempre pronta a lottare finchè non riesca a smuovere i suoi figli terreni dal torpore spirituale che li abbia avvolti e lasciati in una morsa di peccato e ad ottenere che la grazia divina faccia breccia nel loro spirito debole e umiliato. E’ così che, tante volte, è possibile ritrovare la forza di ricominciare dopo ogni sconfitta e di rialzarsi dopo ogni caduta, di chiedere il perdono divino dopo ogni fallimento personale, di tornare a resistere al conformismo opportunistico ed edonistico-utilitaristico del mondo. Tale forza ha un nome preciso: umiltà, ma umiltà da intendere nell’accezione evangelica più profonda e originale, e quindi principalmente come sinonimo di forza e non di debolezza spirituale, da intendere non già in certi suoi usi correnti sempre più generici, ambigui e superficiali. Se il mondo lotta per catturare e portare a sé quante più anime possibile, Maria lotta impavidamente per liberare quante più anime possibile dalle seduzioni e dagli inganni del mondo, illuminando la mente delle creature meno invaghite di sé e fortificando il cuore delle creature meno soggette alle false o illusorie consolazioni del mondo. Anche se le nostre vite terrene si pongono su un piano inferiore a quello su cui visse Maria, ella non si stanca di generarci in Cristo, di partorirci e di farci nascere sempre di nuovo, e infine di condurci per mano, con il nostro assenso, nell’eternità beata.
La sua lotta spirituale produce anche per noi l’insegnamento salvifico a lottare per il bene individuale e collettivo. Come è stato ben scritto, «la vera lotta spirituale, più che nel perseguire una invincibilità ed una infallibilità assolutamente fuori dalla nostra portata, consiste principalmente nell’imparare a non turbarci eccessivamente quando ci capita di essere miseri e a saper approfittare delle nostre cadute per rialzarci più in alto» (J. Philippe, La pace del cuore, Edizioni Dehoniane Bologna, 1992). Quello che a Maria sarebbe riuscito di ottenere per sé dalla nascita alla fine della sua esistenza terrena, cioè la totale appartenenza al Signore, ogni altra singola creatura è chiamata, sia pure con modalità e in gradi diversi, a conquistarlo sempre in modo instabile e provvisorio per tutta la durata della vita. Ma, proprio nel quadro di una vita spirituale così combattuta, l’Immacolata Concezione funge da potente stimolo spirituale all’impegno del credente per una liberazione quanto più possibile completa dal peccato e dai suoi effetti mortali. Ella, infatti, sta a dimostrare che l’umanità creata da Dio non necessariamente deve essere incline al peccato, a trasgredire l’ordine divino, ad esercitare la sua libertà per contravvenire alla volontà del suo Creatore, pur essendo perfidamente sollecitata da potenze malefiche che misteriosamente si oppongono alla divina sovranità.
Maria, l’Immacolata vergine Maria, e’ segno tangibile di un’umanita’ capace di non lasciarsi corrompere e trascinare verso beni apparenti ed illusorie forme di felicità, è colei che ha indotto Dio a sacrificare se stesso nella persona storica del Figlio unigenito, perché immacolata sarebbe stata non solo per privilegio divino ma anche per personale volontà di onorarlo vita natural durante, al fine di redimere e salvare quell’umanità che sembrava essere perduta per sempre. Dio vede la purezza e la sensibilità spirituale di Maria, il suo sincero e innegabile desiderio di appartenergli per sempre senza condizioni e senza cedere alla tentazione di rivendicare una sua indipendenza esistenziale e di assecondare passioni o desideri infimi ed effimeri. E Dio si aspetta, anche in virtù dell’esempio pur non replicabile offerto da questa straordinaria creatura, che anche le altre creature, tra faticosi sforzi sempre rinnovati, possano quanto meno mettersi al suo seguito per raggiungere l’agognata salvezza. Ne deriva una precisa lettura teologica: quella per cui Maria esprime, in realtà, l’umanità che si sforza al meglio delle sue possibilità di non peccare contro Dio, perché perfettamente consapevole di non poter conseguire, senza Dio, alcuna felicità. In Maria Dio ricrea il mondo e l’umanità, nel senso che in lei comincia a fare nuove tutte le cose e a rigenerare la volontà e la spiritualità degli esseri umani, rendendo in lei possibile il misterioso e verginale concepimento di quel Messia, la cui venuta era stata prodromicamente annunciata dai patriarchi della fede, dai profeti e dalla parte più santa del popolo d’Israele di cui per l’appunto la giovinetta di Nazareth sarebbe stata l’espressione più alta e più nobile.
Quella piccola donna, agli occhi di Dio sarebbe stata la più grande di tutte le creature perché disposta a servirlo, più di tutte le creature a lui più fedeli, come gli antichi patriarchi, Mosé, Davide o Salomone, come i profeti e tutti gli spiriti umili del popolo di Israele, con un amore non solo illimitato ma viscerale, cioè esattamente con lo stesso amore tenero e struggente di Dio stesso. Ella, più di tanti altri degnissimi servitori di Dio, avrebbe insegnato a una moltitudine di fedeli e devoti a servire non in modo esteriore, non in modo tiepido, meccanico o semplicemente istituzionale, ma con una serietà spirituale rigorosa e refrattaria ad ogni possibile mistificazione, con un’accettazione non ipocrita o puramente ornamentale ma coraggiosa e coerente della croce di Cristo. Ma, nell’avviarmi a concludere questo capitolo, vorrei aggiungere una considerazione che probabilmente farà storcere il naso a credenti e non credenti. Non si deve pensare che l’etica religiosa di questa combattente, di questa partigiana di Dio, la induca a ritrarsi pudicamente dinanzi a tutte le forme di violenza disseminate sulla faccia della terra e ad esprimere verso esse una generica e indiscriminata condanna, allo stesso modo di come lo stesso annuncio evangelico non viene implicando un ripudio astratto e moralistico dell’uso della forza, della violenza, della guerra, ma un rigetto meditato, articolato, incentrato sulla distinzione razionale e ragionevole tra uso legittimo e uso illegittimo di esse, tra scopi difensivi e scopi oppressivi con cui esse possano essere esercitate.
Chi pensasse che il vangelo di Cristo contenga la condanna di qualunque atto di violenza, a prescindere dal contesto specifico cui esso si riferisca, sarebbe sicuramente in errore, perché questo modo di ragionare era generalmente quello dei farisei che davano un’interpretazione letteralistica e decontestualizzata, errata e ipocrita della Parola di Dio. Il porgere l’altra guancia è certo un precetto importante e distintivo dell’etica evangelica, ma esso veniva inteso da Gesù non già come teorizzazione del divieto assoluto di far uso della forza o della violenza, bensì come un invito a singoli e gruppi di individui a depotenziare il più possibile la naturale carica di violenza che, in misura maggiore o minore, è presente in ogni essere umano. Il consiglio di Gesù appare ben comprensibile anche per motivi pratici, essendo espressione del prendersi cura dell’incolumità fisica e psichica di chiunque venga a trovarsi coinvolto in situazioni conflittuali e, in particolare, di soggetti, come i cristiani, miti e indifesi ma anche esposti, per il loro impegno a testimoniare pubblicamente le loro idee e la loro fede, a reazioni aggressive o violente, ma Gesù non demonizza la violenza in sé, in quanto non intende dire, specialmente ai suoi seguaci, di lasciarsi massacrare di botte o di bombe, se allora quest’ultime fossero state già in uso nel suo tempo, senza opporre resistenza. Chi sostenesse questo avrebbe inteso molto male la lettera e lo spirito evangelico. Basti qui, d’altra parte, ricordare l’uso della violenza che, sia pure procurando danni semplicemente materiali, Gesù stesso avrebbe fatto tra i mercanti del Tempio.
Così come fondamentale resta al riguardo un’altra massima evangelica: che non l’uomo è per il sabato ma il sabato è per l’uomo, per cui, fuor di metafora, la non violenza è certo doverosa ma non quando essa consenta ai violenti intenzionali, oppressori o criminali, di mietere vittime innocenti senza trovare alcuna opposizione fisica o armata di natura difensiva. Peraltro, ancora oggi la stessa Chiesa, che spesso sembra immemore del pensiero degli antichi Padri e di alcuni dei suoi uomini di pensiero più autorevoli e santi, appare non di rado incerta nell’intendere come l’uso legittimo della violenza sia stato concesso da Dio stesso ai capi delle nazioni, a Cesare e quindi agli Stati per la difesa del diritto dei loro popoli e dei loro singoli sudditi (oggi cittadini) alla vita, alla sicurezza e alla pace, donde la conseguenza per cui la violenza non è necessariamente o unilateralmente contro l’uomo, ma può anche essere al servizio di esseri umani innocenti, inermi e indifesi, indipendentemente dalla loro fede religiosa, pur se spesso pronti a subire violenza e a morire per Cristo. Ecco, Maria non si allontana minimamente da questa che era la reale posizione di Gesù ed è per questo che sarebbe stata invocata e ricordata anche quale suprema protettrice dei cristiani in armi: per esempio, in occasione della prodigiosa e vittoriosa battaglia di Lepanto (1571), con la quale gli eserciti cristiani e occidentali avrebbero difeso il suolo e la civiltà cristiani dalla temibile flotta dei turchi ottomani mossi da uno spirito di assoggettamento alla fede islamica delle terre europee e della fede in Cristo, oppure in occasione dell’assedio islamico di Vienna (14 luglio 1683) quando il grande frate mistico cappuccino Marco d’Aviano, essendo la città austriaca sul punto di capitolare, ne affidò la difesa e la salvezza all’intercessione della Vergine Maria, la quale avrebbe provveduto a concedere al re cattolico polacco Jan Sobieski, accorso in difesa della capitale austriaca, una insperata e portentosa vittoria.
Ma sono solo alcuni degli episodi storici in cui la Madre di Dio non avrebbe esitato a soccorrere, anche nel corso di conflitti bellici, e a salvare letteralmente tanti suoi figli in pericolo di vita e ingiustamente minacciati o perseguitati. Si potrebbe tuttavia dire ipocritamente: la Madre di Gesù protegge anche chi fa uso della forza, anche chi esercita violenza contro altri esseri umani, anche chi uccide il suo prossimo? Questa è una di quelle domande che scribi e farisei ipocriti del nostro tempo rivolgerebbero ancora una volta, se potessero, allo stesso Gesù, in relazione per esempio a quanti oggi auspicherebbero una decisa e impavida reazione armata degli eserciti europei contro la Russia criminale di Putin oppure, in misura non inferiore, contro l’esercito genocida del sanguinario Netanyahu. L’unica differenza rispetto alle motivazioni sottese alle guerre cristiane dei secoli scorsi è che gli attuali stati europei non si mobiliterebbero nel nome della fede e della difesa dei valori cristiani ma nel nome della difesa dei cosiddetti valori laici occidentali dai quali la religione cristiana e cattolica appare sempre più espunta. Una differenza non di poco conto che potrebbe rendere più incerto l’esito di un eventuale o probabile conflitto armato tra Europa e Russia oppure, su diversa scala, tra Europa e Stato di Israele. Ma, beninteso, non è che Maria sia più propensa ad aiutare i cristiani perché migliori di islamici, ebrei o atei, bensi solo perché essi, a differenza degli altri, confidano nella misericordia e nella giustizia dell’unico e vero Dio del mondo e della storia degli uomini. Maria, come Dio, ama indistintamente tutti gli esseri umani ma, in quanto partigiana della causa divina, è sempre pronta a favorire le iniziative di coloro che, anche in guerra e sia pure indegnamente, nei momenti di snodo di quella storia umana che non è mai completamente estranea alla storia eterna di Dio, vengano lottando nel nome e per conto del Signore.
Francesco di Maria