Un’immagine esistenzialista della fede: Jean Paul Sartre

Se l’esistenzialismo heideggeriano è un esistenzialismo ontologico e metafisico, l’esistenzialismo sartriano è un esistenzialismo umanistico e storico-fenomenologico nel senso che, al centro dell’esistenza, non è un qualche essere indefinito e pensato come suo presupposto e scopo, ma l’essere stesso dell’uomo come individuo dotato di bisogni materiali e relazionali, di attitudine naturale alla socievolezza, di vocazione alla vita politica e sociale, di propensione ad esercitare la sua libertà nei confronti dei molteplici condizionamenti del suo orizzonte esistenziale e il suo impegno etico a favore della propria e altrui libertà, perché è attraverso l’altro e il diverso da sé che può venire definendosi il proprio io e risulta possibile lottare per il perseguimento di ciò che ancora non è e non sarà mai abbastanza l’essere compiuto, il bene compiuto, che si vorrebbe1. L’uomo non ha una natura predeterminata, non ha un’essenza che preceda la sua esistenza, cioè il suo tirarsi fuori da forme preordinate o precostituite di esistenza, perché la sua natura non è definibile aprioristicamente ma solo nel corso del suo farsi, del suo agire. Prima di vivere, egli non è nulla, nulla di precostituito. La natura umana non è prima dell’esistenza umana ma è o può definirsi solo una natura acquisita. L’esistenza individuale è un’esistenza relazionale e intenzionale che crea mentre distrugge, che inventa sempre nuove possibilità di esistenza nel porre continuamente in discussione le forme già date di esistenza, che elabora valori inediti e originali attraverso una critica e un superamento di quelli esistenti in quanto predeterminati nella loro staticità e inautenticità.

E’ la coscienza che, in quanto costitutivamente coscienza di, secondo la nota lezione fenomenologica husserliana, conferisce senso alle cose proprio mentre ne contesta e ne nega, ne annulla o nientifica, le forme ingenue, preconcette, abitudinarie o dogmatiche, in cui appaiono e sono comunemente percepite. L’individuo, dice Sartre, è condannato ad essere libero, a scegliere e ad agire sapendo di poter sbagliare e fallire, senza potersi appoggiare a certezze precostituite, a princìpi e valori metafisici o religiosi. Egli, perciò, è libero essendo solo o non potendo contare in nient’altro che nelle sue decisioni solitarie, e tale solitudine genera anche angoscia e conflitto costante con il mondo oggettivo, con il mondo in sé2. Questo esistenzialismo ateo, lontano tanto da quello religioso di Kierkegaard quanto da quello metafisico e spiritualistico di Heidegger, comporta che l’uomo sia dio di se stesso, ovvero un essere totalmente autosufficiente, autonomo nell’esercizio della sua libertà anche se il prezzo di tale libertà, priva com’è di fondamenti etici e religiosi, sia lo scacco, il fallimento dell’esistenza personale che, di scelta in scelta, si trova ad essere stretta pur sempre tra alternative insoddisfacenti e mai compiutamente significative. Il fatto è che, tra una realtà esterna priva di significato e una coscienza che ne è unica fonte, l’uomo si trova a vivere gettato in un mondo privo di senso in virtù di un connaturato impegno esistenziale puramente soggettivo e quindi privo di valore etico universale.  

Non si danno all’uomo fini che si debbano perseguire o criteri morali cui debba conformarsi o ottemperare la sua azione quotidiana, giacché non esistono princìpi epistemici oggettivi e universalmente validi. Il senso della vita umana è tutto nel suo agire, nella sua prassi situazionale e ogni volta orientata al compimento di una intenzionalità della coscienza individuale. Da una parte c’è l’essere oggettivo, l’essere dato, l’essere in sé, dall’altra c’è l’essere dell’esistenza umana individuale, l’essere soggettivo, l’essere per sé come campo aperto di indefinite possibilità esistenziali ma tutte egualmente equivalenti sotto il profilo assiologico, dove ogni possibilità comporta l’esclusione di altre possibilità, l’impossibilità di una coesistenza sia pure dialettica tra possibilità diverse. L’essere, nel suo farsi, nel suo compiersi umanamente e non in senso meramente e astrattamente speculativo, finisce per coincidere con il nulla. Non c’è una scelta che valga più di altre, motivazioni morali più cogenti di altre, valori più universali di altri, ma quali che siano le scelte, le motivazioni, i valori, l’uomo è condannato ad essere libero e a progettare qualcosa, ad essere libero anche se o quando egli all’impegno preferisca il disimpegno, costituendo anche quest’ultimo una scelta, un atto di libertà, e corrispondendo all’intenzionale atto soggettivo. La vita, la società, la politica, non hanno aprioristicamente un senso: «Prima che voi la viviate, la vita di per sé non è nulla, sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliete. Così vedete che c’è la possibilità di creare una comunità umana»3. Non c’è dubbio che la ricerca sartriana sia ancora funzionale al dibattito contemporaneo sul significato della libertà e sul ruolo dell’individuo in un mondo privo di significati prestabiliti, ma essa appare viziata da un errore di fondo, quello di non capire che anche l’idea di una libertà disancorata da qualsivoglia fondamento metafisico e religioso e da qualunque forma di oggettivismo assiologico ed esclusivamente radicata nella pura intenzionalità della coscienza, può rischiare di configurarsi come un presupposto dogmatico, come una inverificata postulazione teoricistica, capaci di condizionare unilateralmente l’esercizio della libera e responsabile intenzionalità della coscienza soggettiva dell’individuo.     

L’intenzionalità fenomenologica è metodo di sospensione del giudizio sulle datità del reale, ma questo non implica necessariamente l’aprioristica esclusione della datità stessa come possibile fonte di scelta e di azione morale. La mia intenzionalità di coscienza trova dinanzi a sé l’immagine di Dio e ha almeno tre possibilità di esplicarsi teoricamente e praticamente: o di scartarla radicalmente, o di riformarla parzialmente adattandola alla propria attività immaginativa e creativa, o di acquisirla così com’è nella o nelle forme in cui viene percepita intenzionalmente. Il dato costituito da Dio, posso rigettarlo, posso accettarlo con riserva critica, posso ritenerlo condivisibile e sperimentabile nei modi stessi della sua datità, non dandosi semplicemente una datità statica ma anche una datità dinamica e frutto di continue o frequenti rivisitazioni storico-fenomenologico-esistenziali. Che l’esistenzialismo debba essere costitutivamente chiuso a qualsiasi suggestione o prospettiva religiosa, pertanto, sembra essere un assunto tanto pretenzioso quanto dogmatico e antitetico al principio della libertà intenzionale della coscienza, sebbene Sartre una volta, a una domanda rivoltagli da Franco Fortini, ebbe a rispondere o a precisare che, indipendentemente dalle condizioni sociali, la fede o il sentire religioso è in realtà un fattore costitutivo dell’umana progettualità, ma che, proprio perché viene manifestandosi in forme o modi soggettivi diversi, non può esserne assolutizzato l’eidos, l’essenza, ma può essere solo riconosciuto nelle sue diverse forme intenzionali e storico-fenomenologiche4. Non si dà, in altri termini, un rapporto tipico, più ortodosso o meno ortodosso, più corretto o meno corretto con Dio, perché ogni uomo con Dio ha o instaura un suo particolare o inconfondibile rapporto. E lo stesso ateismo è uno di questi rapporti con Dio, nel senso che Dio è percepito, più che concepito, come ente talmente misterioso e inaccessibile da non prestarsi ad essere qualificato con ulteriori determinazioni aggettivistiche e, pertanto, da non poter essere strumentalmente utilizzato nei vari ambiti dell’esistenza. Quindi, quando parla di “assenza di Dio”, Sartre in realtà intenderebbe proporre una riflessione non precostituita o non predeterminata sulla identità di Dio ma sui possibili e non univocamente definibili sensi della divina identità5.   

Se l’uomo è un dio mancato, la sua fede verrà esercitandosi verso il Dio che manca nel suo io, verrà esercitandosi come ricerca di Dio al di là di tutte le immagini già date, codificate, ovvie, ingenue di Dio stesso: quello sartriano è un Dio depurato dalle sue continue superfetazioni storico-teologiche, da forme cultuali e pratiche di vita acriticamente e asetticamente riproposte e reiterate nei secoli, è il Dio che resta al di là di tutte le rappresentazioni teologiche cui viene ridotto, è il Dio ancora possibile per un vissuto intenzionale fenomenologicamente attivo e generatore di senso. Quando si muore al mondo e al sapere oggettivi che hanno invaso e occupato arbitrariamente la sfera della propria intimità e persino lo spazio riservato all’autonomia della coscienza e alla facoltà della volontà personale di partecipare consapevolmente e responsabilmente ai fatti e agli eventi della realtà; quando si muore, se si riesce a morire, a se stessi e alla identità artificiosamente costruita del proprio io, alle strutture condizionanti e alienanti della vita interna ed esterna della coscienza, quanto più il per sé si sottrae all’in sé muto e opaco dell’esserci come cosa tra cose, come oggettualità determinata e irriflessa, come corpo tra corpi, tanto maggiore è la possibilità della coscienza di dilatare la sua attività intenzionale e di cogliere il senso originario e irriducibile dell’esistenza umana. E così anche i valori,  il Dio alla cui ricerca l’individuo può porsi, non stanno alle sue spalle, non sono oggettivamente dati, non preesistono ai processi intenzionali della sua coscienza, semplicemente essi non sono se non nella misura in cui vengano concepiti, generati, creati dalla sua energia intenzionale: essi non sussistono in se stessi, ma possono sussistere solo nella progettualità del per sé, della intima e profonda relazione che venga a stabilirsi tra il sé opaco, valorialmente neutrale e indifferente, il per sé intenzionale, creativo e progettuale, e l’in sé oggettivato e aprioristicamente significato ma suscettibile di convertirsi in per sé6.

Solo che, poiché il per sé non è solo il mio per sé, il per sé di moi, ma è il per sé dell’Io in generale, anch’esso può essere oggettivato dagli altrui per sé e Dio non garantisce più l’esistenza dell’io, che resta un nulla ovvero un semplice campo di indefinite possibilità, ma è piuttosto l’io che si proietta verso o in Dio, è l’io che garantisce la possibilità dell’essere di Dio ed è l’io che, lungi dal risultare definito da presunte proprietà appunto costitutive della sua identità, viene tentando di definire la propria identità per mezzo di un’apertura relazionale all’alterità del divenire, e quindi di una tensione interattiva con gli altri e con tutto ciò che è altro da sé7. Ma se la verità dell’uomo non è già scritta in qualche modo nel suo cuore in attesa di essere letta, decifrata o in-tenzionata, così come la verità del mondo è già scritta o impressa nelle sue leggi in attesa della loro scoperta, della loro comprensione e ulteriore applicazione a fenomeni ricorrenti nella stessa vita degli uomini, il posto lasciato vacante dal vecchio ontologico ed eterno Dio nella coscienza umana non potrà che essere occupato da forme sempre nuove di divinità di volta in volta create o dotate di senso in virtù dell’inesauribile attività intenzionale della coscienza, e il cui nome sarà ora quello di Umanità e Storia, ora quello di Scienza e Tecnica, ora quello di Mercato e Globalizzazione: non sono forse queste nuove divinità trascendenti a porsi come ideali da raggiungere e come garanzie immanenti dell’identità dell’io?8.

Quella sartriana sembra essere un’ottica in cui l’uomo si protenda verso un Dio non più autoritario, normativo, vincolante, non più veicolato da sacri testi e da una tradizione o da un qualche speciale magistero, ma verso un Dio semplicemente collocato al di là del bene e del male e che quindi non possa che essere recepito dall’umanità presente e futura in senso antiproibizionistico, antioppressivo, disinibente e liberatorio. In altri termini, il Dio verso cui potrebbe avviare la fenomenologia esistenziale sartriana potrebbe liberare non più dal peccato e dalle sue mortali conseguenze ma dalla paura del peccato e della morte a causa del peccato. Questo Dio potrebbe riconciliare l’umanità con se stessa, con i suoi veri e profondi bisogni di vivere in forme e modi naturali l’esistenza, potrebbe restituire l’immagine di un’umanità sin dalle origini incolpevole di nulla, mai stata soggetta ad atti peccaminosi di trasgressione e di separazione dal principio stesso del bene e di ogni bene possibile. Ma c’è anche da dire che, sulla scorta di quanto da altri già osservato, il Dio sartriano non corrisponde in realtà ad un Dio filosoficamente o teologicamente ben costruito e ben meditato e tale da poter minimamente insidiare la plausibilità logico-ontologica e la legittimità teologica del Dio tradizionale della metafisica patristica e medievale oppure del Dio interiore di tanta filosofia moderna e contemporanea.

Come è stato giustamente rilevato, «l’impressionante quantità delle pagine scritte in cui Sartre si sforza di dimostrare dal punto di vista ontologico che Dio non esiste rimangono piuttosto un esercizio retorico e ripetitivo, in quanto non corrisponde ad un percorso filosofico maturo. Il fatto che il pensatore esistenzialista si accanisce nel negare un Dio indebolito, mancante, assente che si decide di morire, appartiene piuttosto alla situation psicanalitica della sua infanzia»9. Infatti, riconosce apertamente Sartre, che «fui condotto alla non-credenza non in seguito al conflitto dei dogmi ma a causa dell’indifferenza dei miei nonni. Eppure credevo quando in camicia da notte inginocchiato sul letto, le mani unite dicevo tutti i giorni la mia preghiera ma pensavo al buon Dio sempre meno»10. Sartre diventa ateo, posto che sia mai stato realmente credente da bambino, non in base a uno studio, a un ragionamento, a un prolungato e intenso travaglio intellettuale e spirituale, ma semplicemente in base ad un’esperienza psicologica, ad una carenza di esempi pratici di comportamento religioso e di motivazioni affettive all’interno del suo nucleo familiare che potessero irrobustire anziché indebolire il suo sentimento religioso di giovinetto ancora ignaro di complesse e sofisticate elaborazioni logico-ontologiche. In effetti, Sartre dalle sue precoci disillusioni adolescenziali di natura prettamente emotiva e sentimentale sarebbe passato a teorizzare in modo molto approssimativo e confuso l’inesistenza di Dio non su base biblica, su base esegetica ed ermeneutica, non su un piano teologico o appena teoreticamente attendibile, ma per motivi essenzialmente psicologici radicati in vicende pure affettivamente significative della sua infanzia, durante la quale, se da un lato il suo sentimento religioso non era incoraggiato dalla fede convenzionale dei nonni, dall’altro prendeva corpo nella sua mente l’immagine del «silenzio spaventoso del Dio assente», spaventoso «perché non è né il nulla dell’essere né l’Essere illuminato dallo sguardo», e dello sguardo minaccioso di Dio, per cui «Je suis donc perpétuellement sous son regard, je vis sous regard»11.

Il Dio qui percepito è un Dio che risente dell’accavallarsi di stati d’animo diversi nella psiche di un piccolo adolescente e che, gradualmente, finisce per risolversi in una semplice sensazione che quest’ultimo, nel corso del suo successivo processo di crescita, non avrebbe più cercato di integrare con riflessioni più mature, equilibrate e solide, relegandolo invece in un modo sostanzialmente retorico e antropomorfico di rappresentarlo. L’immagine divina che viene imprimendosi nella mente di un bambino o di un adolescente è certo importante ai fini di quelle che potranno essere poi le sue convinzioni religiose o irreligiose di adulto, ma, nell’uno come nell’altro caso, non è l’esperienza pregressa a risultare determinante, bensì la volontà di reiterarla e approfondirne il significato in tutte le altre fasi dell’esistenza, quella volontà che sarebbe completamente mancata nella pur trionfale ascesa intellettuale del filosofo francese12. Alla fine, il Dio sartriano resta un Dio infantile, ovvero legato all’infanzia e all’adolescenza, non ulteriormente e non convenientemente meditato e approfondito, né ritenuto degno di essere collocato tra i più rilevanti temi filosofici e teologici: l’inesistenza di Dio, per Sartre, sarebbe sempre rimasta una semplice affermazione di principio, non suffragata né da dimostrazioni logico-teoretiche sufficientemente significative, né da esperienze morali di vita sufficientemente ricettive dei complessi e misteriosi processi spirituali che hanno luogo nelle forme più profonde e sofferte della vita individuale e collettiva: «per l’autore dell‘Essere e il Nulla la non esistenza di Dio viene portata avanti come una esperienza personale dell’infanzia e non come verità appartenente alla storia della filosofìa ad iniziare da Hegel, o da Nietzsche»13.

Tuttavia, sia pure nei limiti di tale esperienza, Sartre viene approntando un espediente teoreticistico finalizzato alla giustificazione della coincidenza dell’Essere e del Nulla tanto in relazione all’essere umano quanto in relazione all’essere divino.       Dio, il suo essere, non può esistere perché, per esistere, dovrebbe creare se stesso finendo per essere creatura di se stesso e rinnegando la sua natura unicamente creatrice, mentre l’uomo, il suo essere, deve negare continuamente il suo essere già, il suo essere così e così, il suo essere provvisorio, per poter essere altro da quel che è già rimanendo tuttavia identico al Sé ma senza potersi sottrarre ai condizionamenti oggettivanti dell’in sé costituito del mondo e dei suoi valori dati e predeterminati nel momento stesso in cui il suo per sé li viene intenzionando per caricarli di un nuovo significato e di un nuovo valore ovvero di quote virtualmente espansive del suo stesso essere. L’essere divino viene a coincidere con il suo graduale processo di annientamento, in quanto il creatore che diventa creatura non può tornare ad assolvere una funzione creazionale; l’essere umano viene creando continuamente se stesso solo negando continuamente se stesso, solo producendo uno stato di incompatibilità nel suo moi tra identità che si dissolve e alterità che la sostituisce senza integrarla. Essere e Nulla: Dio in quanto essere risulta intimamente e costitutivamente scisso convertendosi nel nulla, l’uomo, sempre teso al compimento del suo essere, ne sperimenta al contrario la continua alienazione, il radicale e permanente convertirsi in alterità, in qualcosa che sempre è senza mai essere niente di quel che intenzionalmente dovrebbe essere. Dio non è mai unità ma molteplicità dispersiva e contraddittoria, l’uomo non è mai unità ma successione deregolamentata e frammentaria di una coscienza intenzionale non ancorata a princìpi o criteri etico-razionali universali o universalizzabili. Per questo Sartre aveva detto che, alla fine, l’uomo è una passione inutile14. Se la vita ha senso solo vivendola e non prima di averla vissuta, essa potrà somigliare talmente alla morte da non meritare di essere vissuta, se non si danno criteri razionali e valori morali già prima di scegliere e agire, tanto il giudizio quanto l’agire morale potranno pur sempre essere asserviti a condotte e progetti irrazionali e disumani, giacché l’umano in sé non è garanzia di umanità e vita morale ma può essere fonte delle peggiori forme di disumanità e iniquità15.

E’ molto opinabile l’assunto costantemente espresso da Sartre per cui l’uomo penserebbe Dio solo perché desidererebbe essere Dio o come Dio ovvero fondamento di se stesso, della sua stessa vita; è opinabile perché non si comprende come un essere umano, sapendosi in un cosmo infinito e per il fatto stesso di poter pensare la sua estrema finitezza e la sua solitudine in esso, possa astenersi, per questo semplice fatto, dal sospettare che probabilmente la sua esistenza come quella di tutto ciò che lo circonda non sia casuale e priva di significato ma risponda ad una qualche precisa logica, anche se sfuggente e largamente inafferrabile. Sartre ritiene che la fede non abbia alcunché di razionale ma sia una semplice passione, ovvero qualcosa che abbia a che fare con la parte emozionale e sentimentale dell’io, come se la passione in quanto tale fosse costitutivamente irrazionale e non si potesse distinguere tra passioni razionali e passioni irrazionali. Ma se la mente si imbatte in qualcosa di infinitamente piccolo al cospetto di un universo infinitamente grande per quale motivo la sua tendenza a credere in un essere creatore dovrebbe coincidere necessariamente con un’illusione, con una passione irrazionale piuttosto che con una passione indotta da motivazioni del tutto ragionevoli e razionali? E’ più razionale la fede in Dio o la fede nel nulla? I matematici potrebbero includere tale interrogativo tra le questioni o gli enunciati che Kurt Gödel avrebbe definito come “indecidibili”. 

E poi perché l’uomo dovrebbe credere in Dio per il desiderio di essere autosufficiente come lui? Non sarebbe più logico desiderare umanamente non già di essere come Dio, perché anzi una tale opzione dovrebbe essere ragionevolmente ascritta ad una qualche causa patologica, ma semmai di essere umanamente autosufficiente nei limiti dei condizionamenti naturali e alla fine anche mortali della vita creaturale, o se si vuole della vita biologicamente limitata degli esseri umani? Che Dio ci sia o non ci sia, resta dunque almeno opinabile e si può ben ipotizzare che di tale questione si continui a percepire la sostanziale indecidibilità teorico-epistemica sino al verificarsi di eventi al momento inimmaginabili e imprevedibili. Ma, sino a quel momento, in senso strettamente logico-teoretico non sarà legittimo asserire né che la fede religiosa abbia una natura razionale, né che essa abbia una natura irrazionale. Tuttavia, per Sartre, anche nel caso in cui Dio non esista, l’uomo, nell’esercizio della sua libertà, avrebbe ugualmente dei punti fermi da osservare, dei paletti da rispettare ed entro cui inscrivere il proprio comportamento morale e le proprie scelte etico-politiche, per il semplice fatto che così come la natura biologica e geologica dell’universo ha leggi da cui esso non può derogare e che semmai vanno pazientemente scoperte e conosciute, anche la natura umana e morale dell’uomo è vincolata a leggi oggettive da cui questi non può prescindere pur avendo piena facoltà di proporre una lettura o un’interpretazione quanto più ampia ed esaustiva possibile dei significati normativi e dei valori intrinsecamente contenuti in esse16.

In ogni caso, poiché non si dà, anche sul piano spirituale e religioso, alcuna scelta senza rischio, si tratta pur sempre di porsi individualmente al cospetto dei massimi esponenti delle principali religioni monoteistiche del mondo, quali Cristo, i grandi profeti ebraici e Maometto, per verificare se, innanzitutto, in rapporto a tutte le dottrine etiche e filosofiche non religiose del mondo, sia più o meno proficuo rivolgere la propria attenzione ad una dottrina religiosa e chi tra essi, eventualmente, in base ai rispettivi insegnamenti e alle relative esperienze di vita, possa ritenersi più attendibile e più meritevole di fiducia. Come in tutti gli altri ambiti della vita, anche in quello spirituale e religioso l’individuo è chiamato a scegliere, ad assumersi la responsabilità della scelta tra diverse opzioni, ivi compresa quella ateistica che, come pensava Sartre, non implicherebbe necessariamente una negazione di Dio ma una ricerca antidogmatica e spregiudicata circa la sua reale e più profonda identità o circa l’immagine più fedele del suo volto. L’uomo, dice Sartre, non è libero perché ha la possibilità di esserlo ma è libero perché condannato ad esserlo, è libero per necessità e la libertà non gli è negata neppure nel caso in cui non voglia essere libero. Pertanto, egli può essere libero di aderire alla logica divina e ad una specifica logica divina oppure ad una delle tante logiche storico-mondane, può essere libero di confidare nel messaggio salvifico di Cristo o nei variegati e difformi messaggi emancipativi elaborati nel corso dei secoli dai geni dell’umanità17.

Sartre riconosce che niente, tranne che la miseria, la prepotenza e il sopruso, viene imposto all’uomo nella sua vita e nella sua storia, nel senso che non c’è nulla, persino nelle situazioni più drammatiche, che possa impedirgli, almeno nella sua interiorità, di far valere la sua libertà. A nessuno è impedito, come scrive il pensatore francese, chiuso nel campo di concentramento di Treviri, nella sua occasionale opera teatrale a sfondo religioso del ’40, Bariona o il figlio del tuono, di sentire che in quel bambino nato in una mangiatoia duemila anni or sono in realtà si celi Dio, che quella carne divina sia la sua carne, che quell’essere divino sia simile al suo essere umano e sia concreto e sensibile come ogni essere umano18. In questo senso, l’esistenzialismo, spiega Sartre, può avere un esito ateo ma può avere anche un esito religioso e, nel primo caso, esso non è né più né meno importante e significativo di quanto lo sia nel secondo caso.

Non è una diminutio della sua umanità il fatto che un individuo desideri essere Dio o come Dio in quanto è nella sua stessa natura costitutiva l’inconscia pulsione di autosufficienza, l’inconscio desiderio di esistere come compiuta e divina totalità esistenziale. La ragione umana, per Sartre, è una ragione essenzialmente teologica, il che significa che l’uomo crede in Dio non a causa dello stato di alienazione economica e sociale in cui versa ma dalla sua stessa situazione umana. Piuttosto occorre capire che, se in Cristo c’è Dio che si sacrifica in funzione della salvezza e della vita immortale dell’uomo, la passione dell’uomo invece consiste nel suo costante sacrificarsi, nella sua continua rinuncia per fare esistere Dio19. Che è un sacrificio inutile in quanto da esso non deriva nessuna salvezza e dannoso in quanto esso produce semplicemente la rinuncia alla propria libertà, che è esattamente l’opposto di quanto prevede l’evangelica concezione soteriologico-escatologica della vita umana. Da una parte, quindi, Sartre afferma che l’esistenzialismo può implicare due esiti ugualmente legittimi, dall’altra però viene contraddicendo tale affermazione allorché definisce inutile e dannosa l’opzione esistenziale religiosa.

Ma se la ragione umana è intrinsecamente teologica come potrà l’umanesimo ateo combattere efficacemente questa sua naturale ma perversa o errata inclinazione? Può riuscire nella sua opera di sradicamento ma solo generando solitudine e disperazione, giacché, se non si è più figli di un Dio che salva, si resta necessariamente soli e disperati20, anche se poi, capovolgendo la prospettiva, ci si deve chiedere se non sia molto più doloroso anche se non disperato il cammino esistenziale di chi, proprio nel sapersi figlio di un Dio paterno e amorevolissimo, accetti il suo destino terreno di solitudine e di rinuncia esistenziale in funzione o in vista di una vita finalmente libera da privazioni e pienamente e festosamente realizzata.  Ma con la decretata “morte di Dio” nell’ormai matura o evoluta coscienza dell’uomo, Sartre dà poi luogo ad una filosofia teologica molto personale, e sino al punto di risultare gratuita,  che viene dipanandosi secondo sequenze teorico-concettuali del tutto distanti dagli schemi teologici classici e anzi estranei alla millenaria elaborazione teologica della Tradizione cristiana, donde il sottrarsi ad un corretto confronto con quella che i cristiani considerano come la fonte più autorevole della Parola di Dio, ovvero la Chiesa cattolica. La verità è che Sartre sarebbe sempre stato molto più interessato ad essere riconosciuto dal mondo e dai suoi poteri costituiti come filosofo, scrittore, conferenziere, uomo eticamente e politicamente impegnato, insomma come eccellente artefice di creatività intellettuale e insuperabile promotore di impegno etico-civile, che non da Dio come semplice, fedele e combattivo operaio della sua vigna sospesa tra terra e cielo. E, in vero, l’ateismo sartriano non sarebbe stato affatto più moderno, più originale e innovativo, o persino più moderato e meno irreligioso di tante altre forme di ateismo moderno e contemporaneo21 e anche certa benevolenza manifestata verso il Sartre critico della religione e teorico di un ateismo non biecamente confessionale ma laico, è più ostentazione di pensiero illuminato che non frutto di rigorosa e coerente riflessione22.

D’altra parte, è obiettivamente difficile che testi pure importanti, come quello dedicato a “Bariona, ou le fils du tonnerre” ma del tutto occasionali e finalizzati a ben precisi e contingenti scopi etico-politici, possano essere utilizzati per un sostanziale ripensamento critico dell’ateismo sartriano e della sua filosofia dell’esistenza23. E’ la stessa concezione sartriana della libertà a risultare talmente involuta e velleitaria da non potersi proporre a garanzia di un percorso teorico sufficientemente chiaro e coerente. Che la libertà umana sia vuota possibilità, sia possibilità di progettazione inerente la natura stessa dell’uomo, sia facoltà di conferire senso alle cose, al mondo, alla società e a qualunque realtà immaginaria o già oggettivata; che essa sia attitudine vocazionale a risignificare continuamente il reale soggettivo ed oggettivo trascendendone ogni volta significati e valori già dati o pensati, creando o inventando senza soluzione di continuità verità e senso sempre innovativi e originali, integrativi di un’umanità perennemente alla ricerca di ossigeno intellettuale e spirituale; che il tragitto della libertà umana sia dinamicamente compreso tra l’essere costituito, oggettivo, in sé compiuto, del mondo e di tutte le sue manifestazioni culturali, e la coscienza umana intrinsecamente relazionata a quest’ultimo attraverso la sua attività intenzionale che lo osserva, lo mette in discussione, lo trascende criticamente, annientandolo e nientificando contemporaneamente la sua perseità intenzionale rispetto ai suoi stessi eidos che non sono ancora pur immaginabili come diversi dai loro dati fattuali e storico-fenomenici di riferimento, senza tuttavia poter mai trascendere se stessa in rapporto a motivazioni altre che non le siano inerentemente coessenziali, è, pur avendo il suo nume tutelare nel padre della novecentesca filosofia fenomenologica, una di quelle costruzioni logico-teoriche apparentemente potenti e suggestive dell’ingegno umano che, a conti fatti, non possono che lasciare l’interlocutore tristemente perplesso e interdetto24.

L’essere libero teorizzato da Sartre, e da questi paragonato iperbolicamente a un “condannato”, dovrebbe corrispondere all’essere che progetta di essere Dio, ma che non l’essere umano astrattamente inteso, bensí un concreto, determinato essere umano, nella sua specifica individualità, debba per forza progettare di essere Dio e progettarlo sulla base delle modalità descritte da Sartre, non è certo asserzione dotata, neppure virtualmente, di valore universale, visto che, come viene correntemente dimostrato da una comune e consolidata esperienza, molti individui si preoccupano di progettare unicamente se stessi, il proprio presente e il proprio futuro più immediato, senza trascendere alcunché ma lasciandosi piuttosto trascendere dalle dure e insuperabili necessità della vita e tentando semplicemente di sopravvivere ad esse. Semmai, proprio perché l’uomo-individuo più comune non è quello intento a fabbricare ardite congetture esistenziali nello spazio ben protetto del suo laboratorio filosofico ma quello che, ingenuamente o riflessivamente, viene affidandosi alla realtà più radicalmente trascendente tra quelle esistenti, ovvero a Dio, più che a progettare se stesso, sia pure inconsciamente, come totalità compiuta di essere e di senso, egli si limita a sperare di poter compiacere il suo Dio, che è assolutamente e radicalmente Altro da sé, pur nei limiti di condizioni di vita tutt’altro che soddisfacenti e di una realtà esistenziale oltremodo incompiuta di essere e senso. Ma, soprattutto, è risibile, che si venga ritenendo l’uomo come «attore e regista della sua esistenza», come «l’unico orientatore dei suoi atti e del senso della sua vita25, quando è evidente, al di là di ogni possibilità di fraintendimento interpretativo del testo sartriano, che la sua capacità progettuale e i suoi singoli progetti possono essere, come spesso sono, condizionati, contrastati, impediti in ogni momento di quella che, nel migliore dei casi, rimane pur sempre la sua precaria e brevissima vita. Non si tratta, evidentemente, di essere deterministi, ma di non essere troppo unilateralmente e miopemente volontaristi, dove nel caso del pensatore francese, volontarismo non è solo o semplice sinonimo di capacità morale di reagire a situazioni avverse, di spirito di resilienza, ma anche e principalmente di quella nietzscheana volontà di potenza che nel corso del ‘900, più che uno spirito di trasvalutazione etica e di elevazione personale, sarebbe molto più spesso venuta evocando una vitalistica, pulsionale e incessante attività psichica desiderante quasi sempre propedeutica a fenomeni di ossessiva, esasperata, irrazionale e narcisistica autoesaltazione esistenziale.

Anche l’«oltreuomo» nietzscheano, come il creativo uomo sartriano, si sentiva chiamato a rovesciare tutti i valori esistenti e a rinnovare radicalmente gli statuti etici e spirituali del vivere civile e personale, ma anche in quel caso la scommessa consisteva in una rifondazione permanente, ma priva di telos e senso, della moralità umana, e la sua energia creativa, del tutto priva di fondamenti logico-ontologici e di criteri oggettivi di ricerca, finiva inconsapevolmente per tendere alla sua stessa divinizzazione, ma se “Dio era morto” in che modo e fino a che punto l’uomo avrebbe potuto continuare a vivere sotto un cielo ormai vuoto di eterna e trascendente verità26? A cosa avrebbe potuto portare quel continuo autotrascendersi, quel continuo autosuperamento etico-esistenziale se non, in mancanza di una sicura bussola per la coscienza, verso un graduale e ineluttabile processo di smarrimento dell’uomo a se stesso? Ma, d’altra parte, non è lo stesso Sartre a scrivere che l’uomo è una passione inutile?27. E’ vero che bisogna avere fiducia nell’uomo, nell’esercizio responsabile della sua libertà e nella sua capacità creativa nel quadro di un orizzonte di indefinite possibilità esistenziali (Julian Huxley), è altrettanto vero che quanto più responsabilmente viene esplicandosi la sua libertà di scelta e di azione tanto più estesa e profonda è la sua solitudine (Sartre), ed è altresì vero che l’uomo è simile a Dio non in quanto voglia essere Dio o come Dio ma in quanto si sforzi e speri di poter vivere in comunione sempre più intensa con lui (Stephen Neill): sono tre punti di vista non necessariamente antitetici e destinati ad elidersi ma a completarsi o integrarsi vicendevolmente, ma solo a condizione di comprendere che la libertà umana non esprime una realtà monodimensionale bensì pluridimensionale e suscettibile di essere esaminata da punti di vista diversi28.

L’uomo non è ma può essere una passione inutile non già a causa del suo connaturale processo di continuo autotrascendimento creativo, non già in conseguenza dell’attitudine creativa e nullificante ad un tempo in cui viene manifestandosi e concretizzandosi la sua libertà pratico-immaginativa, anche perché la forza creativa e insieme annientatrice di quest’ultima potrebbe risultare puramente presunta o ipotetica ed essere più simile ad una finzione letteraria che all’esito di un giudizio di comprovata validità epistemica, ma solo in conseguenza di usi tendenzialmente irrazionali o maldestramente unilaterali della sua stessa libertà, specialmente se si pensasse di poter escludere aprioristicamente o sulla base di pulsioni fondamentalmente emotive l’esistenza o la presenza di Dio nella e per la vita dell’uomo29. E anzi, a voler essere più conseguenti ed espliciti, non c’è dubbio che l’unico caso in cui l’uomo sarebbe incontrovertibilmente una passione inutile è quello che ne prevede l’irreversibile mortalità, al di là di tutti i suoi possibili meriti o demeriti etico-esistenziali. Le parole sono importanti e persino esistenzialmente determinanti se il loro oggetto sia espressione, almeno in un certo grado, di verità non solo su un piano logico-linguistico ma anche e principalmente ontologico-fenomenologico e, francamente, questi due piani non sempre paiono coincidere in Sartre. La realtà non si riduce a linguaggio e tanto più un linguaggio è universale quanto più si mostri idoneo a riflettere determinate strutture ontico-oggettive di una complessa e irriducibile realtà30 ma un particolare interesse per il problema del linguaggio non sembra sia stato mai coltivato dal pensatore francese che l’avrebbe essenzialmente concepito come mezzo indispensabile di espressione della vita soggettiva degli uomini.

Non a caso, Sartre  avrebbe sempre difeso l’irriducibilità della soggettività esistenziale umana a quelle strutture oggettivamente condizionanti del reale e della storia che sarebbero state al centro di ampia e articolata tematizzazione sia nel campo dello strutturalismo che in quello del materialismo marxista, e questo perché, a suo avviso, l’attività significante dei soggetti tende di continuo a modificare o alterare il significato o i significati nella loro oggettiva inseità che, pertanto, non può in buona parte che sfuggire o sottrarsi alla prensione logico-analitica del soggetto significante, per cui alla fine l’attività significante è sempre un po’ al di qua o al di là rispetto alla pur complessa rete di significati con cui deve rapportarsi ma rispetto alla quale, proprio per questo motivo, non appare privo di autonomia critica e progettuale. Donde poi la rivendicazione sartriana del compito del linguaggio «di uscire dalla sua banalità quotidiana capovolgendo la sua subordinazione all’inerzia del mondo dato come oggettivo, ed indica anche alla filosofia, in questo aprirsi all’altro da sé che è la scrittura letteraria, la strada per superarsi sottraendosi al rischio di irrigidirsi nella contemplazione del dato per ritrovarsi come ripiegamento sull’esistenza concreta, che è poi sempre stato il problema di Sartre»31, anche se non si comprende per quale ragione un linguaggio che non voglia restare passivamente assoggettato alla datità oggettiva e alle dinamiche strutturali del mondo e della vita storica non debba porsi comunque il problema di affinare progressivamente le sue lenti di lettura e di ascolto proprio al fine di evitare che il non colto del significato costituito presenti margini talmente ampi da non consentire alla stessa soggettività parlante e significante di porre adeguatamente al riparo proprio la sua libertà creativa32.

E’ obiettivamente difficile stabilire se e fino a che punto Sartre possa essere considerato filosofo radicale più di altri insigni pensatori del Novecento, così come appare molto impegnativo sostenere che egli ne sarebbe stato «la figura dominante»33, anche perché si può essere dominanti per ragioni e in sensi molto diversi. Ognuno, se sia realmente filosofo e non semplice doppiatore di una figura filosofica, cerca a suo modo di essere radicale e sarebbe francamente eccessivo pensare che Sartre possa esserlo stato semplicemente per aver proposto di passare dal chiedersi «che cosa significa essere liberi» al più impegnativo interrogarsi su «come si deve essere liberi» o «si deve esercitare la libertà»34, non solo perché è quel che, con esiti molto diversi, hanno cercato di fare, attraverso diverse epoche storiche, una grande quantità di pensatori, ma anche perché quella di persuadere in modo stringente i suoi lettori su questo delicatissimo tema non è forse stata la sua arte migliore. Anche il riconoscere che «la radicalità e l’esemplarità di un’esistenza non possono restare dei meri insiemi di libri, articoli, parole» ma devono potersi trasformare in coerente engagement etico-civile e politico, in presa di posizione a favore di individui oppressi e alienati35, è quel che si è spesso sentito dire e ripetere da filosofi consumati, accademici o non accademici che fossero, anche se non sempre consapevoli della propria malafede, e che sempre continueranno a ripetere tutti quegli intellettuali, piccoli e grandi, che, senza fare scelte particolarmente costose di vita e rinunce sostanziali alla propria pur legittima egoità, individueranno in certi libri piuttosto che in altri la cartina di tornasole della propria autenticità umana e filosofica senza tuttavia preoccuparsi di passare esaustivamente in rassegna le diverse, possibili forme di oppressione e alienazione e di schierarsi innanzitutto dalla parte dell’umanità più pensante e sofferente.

Che poi Sartre, diversamente da quel che è avvenuto, non dovesse essere comunque «banalizzato e attaccato riducendo il suo pensiero a poche frasi e puntando su di esse tutta l’artiglieria pesante per demolirne ogni possibilità di recupero»36, è altrettanto vero, giacché anche quando un intellettuale, come nel caso di Sartre, riceve onori e  riconoscimenti solenni, ancorché non sempre meritati, da un mondo contro cui non abbia mai cessato di scagliare i dardi apparentemente infuocati della sua critica, non ci si dovrebbe sentire autorizzati, per un semplice e irresistibile gusto di risentita e postuma demonizzazione anticonformistica, a ridimensionarne drasticamente l’opera fin quasi ad ignorare gli apporti più vitali e significativi che ne siano conseguiti nel quadro del complessivo dibattito filosofico-culturale di un’intera epoca storica. Non è per aver rifiutato il premio Nobel per la letteratura nel 1964, sia pure con motivazioni degne di apprezzamento, che le cerimonie e i monumenti storico-mondani non si addicono a Sartre, in quanto gran parte della sua esistenza sarebbe stata al centro di celebrazioni e di riconoscimenti istituzionali di ogni genere, ma non c’è dubbio che Sartre abbia espresso, a modo suo, «un pensiero engagé che abita il mondo, un punto di vista che preme per costruire una società di eguali, un pensiero irriverente in lotta contro il potere», anche se non fino al punto che, anche da morto, come è stato scritto apologeticamente, egli potesse dare «ancora fastidio»37

Che, secondo l’insegnamento sartriano, l’uomo del futuro possa non essere più in grado di cogliere il senso della propria vita e delle cose circostanti, anche e forse soprattutto perché decapitato di ogni fede religiosa in un mondo ultraterreno e unicamente interessato all’essere sempre mutevole della materia e all’incessante scoperta delle possibilità relazionali con il proprio sé, con gli altri e con la realtà, è certamente possibile, anzi probabile, ma che questa visione possa anche coincidere con un pensiero engagé realmente capace di sollecitare l’umanità contemporanea a chiedersi se l’orizzonte esistenziale della sua origine e della sua fine sia veramente il nulla o se, al contrario, non possa essere stata progettata da qualcosa o da qualcuno in funzione di valori e fini tutt’altro che provvisori e inconsistenti, è molto più difficile anche se per molti non necessariamente auspicabile. Sartre è stato un sacerdote dell’esistenza, senza tuttavia capire che la vita non si esaurisce nell’esistenza ma la eccede, la trascende infinitamente fino al punto di porsi quale condizione necessaria anche se non sufficiente dell’esistenza38. Per risultare condizione non solo necessaria ma anche sufficiente, bisogna che chi intenda beneficiarne debba saperla amare amandone, cercandone e rispettandone le leggi. Sartre non ha capito che esistere non è ancora vivere e che, solo vivendo al di là dell’esistere, sarà possibile cogliere il senso sia del vivere che dell’esistere. Uno studioso cattolico non particolarmente benevolo verso Sartre, coglieva forse nel segno quando, a parte il giudizio eccessivamente acrimonioso e sprezzante su Sartre e la sua compagna, descriveva in questi termini la situazione culturale contemporanea: «Oggi, la scena della nostra “cultura” (ammesso che si possa ancora parlare di una cultura, nella nostra società) è tutta occupata da tanti piccoli Sartre (ancora più piccoli, ancora più lillipuziani di lui) e da tante piccole Simone de Beauvoir: cattive imitazioni di cattivi maestri, profeti del nulla in sedicesimo, pensatori formato tascabile, autori di libri e saggi usa-e-getta che fanno scalpore per lo spazio d’un mattino e che sono incessantemente rimpiazzati, nel mercato del consumo culturale, da nuovi “imperdibili” e “fondamentali” saggi che dopo un mese sono già dimenticati»39.

Francesco di Maria

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