1. L’antica immagine della fede cristiana tra pressioni storico-epistemiche e interne fratture o scissioni dottrinarie e teologiche.
Se il pensiero moderno è frutto in non trascurabile misura anche della vasta e articolata eterodossia religiosa che sarebbe venuta generandosi nel cuore della tradizione cristiana, soprattutto a partire dalla riforma luterana e dal particolare influsso che sulla moderna riflessione filosofica avrebbe esercitato la teologia sociniana, di una cosa si può essere ragionevolmente certi: del fatto che non la modernità, persino con il suo carico inestimabile di studi storico-filologici capaci di portare alla luce tante sepolte o incomprese verità della storia delle idee anche religiose, potrà mai assurgere ad esclusivo e oggettivo criterio interpretativo dell’originario e originale senso veritativo e spirituale del cristianesimo evangelico, ma semmai il depositum fidei gelosamente custodito dalla Chiesa apostolica e romana bisognerà pur sempre non perdere di vista per poter discernere tra il grano e la zizzania delle rumorose novità della storia umana: giacché non tutte le ricostruzioni, le riscoperte delle primitive forme della religiosità e della cultura cristiane, rese possibili dal sapere moderno, sono frutto di pura e rigorosa acribia filologica quanto, principalmente, di pregiudiziale distorsione cognitiva che finisce per oscurare non di rado lo stesso significato di rilevanti dati conoscitivi venuti faticosamente alla luce da lavori pure complessi e faticosi di scavo. Peraltro, appare immediatamente improbabile che da tutti i fenomeni ereticali generatisi nel corso dei secoli da un confronto con la tradizione religiosa e l’ortodossia cristiana, possano essere emersi solo contributi preziosi e idonei a ripristinare il volto autentico della fede cristiana, liberandolo dalle deformazioni intervenute nei secoli, e non anche o soprattutto interpretazioni erronee o arbitrarie e in grado di alterarne i tratti essenziali. Che poi, da eventi ereticali quali il protestantesimo luterano e la filosofia teologica sociniana, con cui sarebbero venuti interagendo riflessioni filosofiche del movimento scettico e libertino seicentesco e settecentesco, o, su posizioni completamente antitetiche, una certa teologia islamista, e persino, talvolta, geniali sensibilità scientifiche come quella di Newton o Joseph Priestley, possano essere derivati essenziali contributi chiarificatori alla genuina rappresentazione della fede cristiana, è da ritenersi semplicemente spropositato e decisamente fuorviante1.
Che poi da tutta una serie di avvenimenti storico-culturali di origine cinquecentesca come la nuova scienza e la filologia umanistica, le scoperte geografiche e le conquiste coloniali con connesso incontro di culture e religioni diverse, i nuovi modi di pensare la politica e di accostarsi alle Sacre Scritture, e dalla loro reciproca e feconda interdipendenza, sia stato possibile trarre e consegnare alla coscienza religiosa dell’umanità e della stessa cristianità nuove e significative opportunità di allargamento dei tradizionali significati e orizzonti spirituali della fede cristiana, e in tal senso sia stato possibile ottenere una sorta di vivificazione storico-culturale di ancora inespresse e interne potenzialità valoriali del cristianesimo, è invece possibile2, anche se di volta in volta della forza d’incidenza dell’insieme dinamico di quegli avvenimenti occorrerà precisare naturalmente la misura, i modi e il senso, nel quadro di un complesso processo storico di lenta ma sensibile e ambivalente trasformazione del sentire religioso pur sempre stabilmente ancorato ai fondamenti della rivelazione cristiana. Ho scritto ambivalente trasformazione, nel senso che i contenuti del messaggio evangelico-cristiano vengono generalmente sviluppandosi, in ogni fase della storia umana, in senso evolutivo oppure in senso involutivo, in senso religiosamente e dottrinariamente esplicativo o integrativo oppure in senso riduttivo, limitativo, distorsivo o depauperativo.
Il cristianesimo costituisce, infatti, come il Regno dei cieli che ne è il principale fulcro ispiratore, per riprendere una nota immagine evangelica, un ingentissimo e inesauribile patrimonio di verità sempre antiche e sempre nuove (Mt 13, 52), che rimane quindi sempre identico pur nella indefinita e variegata molteplicità dei suoi aspetti e dei suoi significati, ma solo i veri e più fedeli discepoli del Regno, vale a dire coloro che conservano e alimentano la fede senza derogare dagli insegnamenti evangelici e dai misteri rivelati da Cristo, sono in grado di custodire e tramandare l’identità e, al tempo stesso, di scoprirne e portarne alla luce di volta in volta i sensi impliciti e in essa racchiusi in forma latente3. Ora, volendo seguire lo schema interpretativo di Mauro Pesce, il Cristianesimo premoderno appare fondato sull’assunzione delle Sacre Scritture (Primo Testamento e Nuovo Testamento) come base teologica della fede popolare e delle connesse credenze religiose, sulla rappresentazione di un sacro universo modellato sulla visione astronomica tolemaica, su una concezione della storia universale del mondo fisico e umano come dotata di un inizio e una fine coincidenti con Dio e Cristo, sull’egemonia non solo spirituale e culturale della Chiesa ma anche su un potere politico di natura fortemente competitiva da essa esercitato e socialmente riconosciuto. Tutto questo si sarebbe rispecchiato per diversi secoli nella costruzione di una teologia capace di sostituire le antiche rappresentazioni mitologiche, animistiche e pagane del mondo e della vita sociale, antecedenti l’era cristiana4. Ora, è singolare che Pesce affermi che, costituendo tutto ciò il sostrato fondativo dell’ortodossia cristiana, inevitabilmente qualunque critica o contestazione rivolte a determinati aspetti del “sistema simbolico cristiano” dovesse apparire «come frutto di errore e di eresia oppure come effetto di influsso demoniaco», là dove, sostiene lo storico citato, il concetto di eresia sarebbe «strettamente legato all’assenza di una base epistemologica alternativa a quella del sistema simbolico tradizionale»5. Tuttavia, e per non farla troppo lunga, il discorso o il sapere religioso non obbedisce alla logica che vale per il discorso o il sapere scientifico: tanto maggiore, infatti, è l’attendibilità epistemica di quest’ultimo quanto più differenziato, articolato e dialettico è il suo sviluppo interno ed elevata la sua tenuta epistemica rispetto alle altre discipline rivali, mentre il sapere religioso, fondato non già sulla dimostrazione logica ma prioritariamente su un ordine rivelato di verità, da cui sia tuttavia possibile dedurre anche in senso strettamente razionale, e sia pure in modo virtuoso o erroneo, vie di ricerca e di scoperta basate sulla osservazione e sulla dimostrazione, sarà dotato di maggiore o minore attendibilità a seconda della maggiore o minore fedeltà interpretativa e spirituale al Logos, alla Parola appunto rivelata di e da Dio. Anche in questo caso la competizione critico-esegetica è ammessa e ritenuta in taluni casi persino utile e salutare, ma non sui nuclei fondativi della fede stessa, sulle verità cosiddette dogmatiche e specifiche della rivelazione divina. La competizione è ammessa ma nei limiti di una comune, giudiziosa, condivisa e autorevole accettazione storico-ecclesiale dei contenuti più inequivoci e indubitabili della Parola di Dio.
D’altra parte, anche in ambito scientifico qualunque controversia viene ritenuta legittima solo nei limiti del rispetto dovuto a princìpi ampiamente collaudati e consolidati dalla e nella autorevole comunità disciplinare o interdisciplinare di riferimento. E, tuttavia, mentre per la scienza l’eresia, e non il semplice approfondimento conoscitivo pure caratterizzato da momenti acquisitivi e momenti contestativi, può essere spesso epistemicamente un guadagno, per quanto riguarda il sapere religioso essa è sempre e solo un danno e una perdita, in quanto, a differenza della scienza che può sussistere solo in rapporto alla sua capacità di acquisire cose e verità che non si conoscono in senso empirico-sperimentale o di creare entità logiche puramente ipotetiche seppur dotate di una qualche funzione conoscitiva, la fede conserva la sua integrità, la sua validità, la sua attendibilità, piuttosto rigettando ciò che si presenti come formalmente e realmente difforme dai dati rivelati per quanto ad essi riferibile e ciò che presuntivamente dovrebbe gettare luce sul significato di misteri e precetti predicati da Cristo e già da questi definiti come non ulteriormente penetrabili dall’umano intelletto.
La fede, sin dall’origine della storia cristiana, non è mai stata in competizione con la scienza, perché diverso è il suo linguaggio, diversi i suoi strumenti di ricerca e di conoscenza, diverse le sue finalità, anche perché, se nelle verità di scienza di volta in volta si può credere solo sulla base di determinati esperimenti, verifiche o dimostrazioni, in quelle della fede si può credere o non credere semplicemente sulla base dell’esperienza storica di Cristo e della sua opera a molti apparsa salvifica. Ma proprio questa eterogeneità di statuti teorico-dottrinari, logico-simbolici, pur ugualmente finalizzati alla scoperta della verità del mondo e del senso della vita, non è preclusiva, nonostante tanta diffusa diffidenza, ma virtualmente propedeutica ad una possibile anche se non immediata convergenza di prospettive conoscitive e spirituali. Che scienza moderna e moderni studi storico-filologici abbiano potuto costringere l’antico e premoderno cristianesimo a modificare e a rinnovare le sue forme e le sue tradizionali rappresentazioni del divino e del rapporto tra il divino e l’umano, perché la Chiesa più che millenaria di Cristo, aggiornando ma non correggendo o integrando il suo antico sistema simbolico, potesse continuare a reggere il confronto con sistemi simbolici rivali e alternativi, tra cui quelli patrocinati dai movimenti ereticali, è, in ogni caso, una mera forzatura interpretativa di natura polemica volta ad accreditare l’immagine di una Chiesa e di una fede sempre interessate a mantenere in piedi una ideologia religiosa poco rispettosa della vera fisionomia del Gesù storico e a perpetuare un sistema clericale di potere di contro a ricorrenti processi di emancipazione storico-umana.
Senza negare che nella storia della Chiesa fenomeni involutivi e repressivi, teologicamente mistificanti e fuorvianti, abbiano potuto avere periodicamente luogo, appare non solo eccessivo ma deliberatamente preconcetto e arbitrario sostenere che essi abbiano costituito una costante nella e della storia della Chiesa e della religione cristiana e che non siano stati affrontati e combattuti con pronta sollecitudine all’interno della stessa comunità ecclesiale e per opera delle forze intellettuali e spirituali più sane in essa operanti. Quanto alle contestazioni esterne di movimenti a diverso titolo insubordinati all’autorità della Chiesa, quest’ultima non avrebbe avuto alcun interesse a respingere come erronee certe prese di posizione di natura storico-dottrinaria se non avesse potuto disporre internamente di fonti biblico-teologiche talmente cogenti e di strumenti culturali talmente precisi e affidabili da consentirle di accogliere o rigettare critiche o censure in modo del tutto autonomo ed autorevole. Quel che Pesce e tutta una generazione di storici sintonizzati sulla sua lunghezza d’onda non sembrano capaci di comprendere è che, almeno nel caso della Chiesa cristiano-cattolica, la conservazione e la difesa dell’originario e più antico patrimonio della fede evangelica ha sempre costituito il suo principale compito storico, culturale e religioso, ben sapendo, ancora una volta in virtù del divino magistero di Cristo, che le rutilanti novità della storia non sono necessariamente espressione di solida verità e che, anzi, il senso razionale o etico-razionale di qualunque verità relativa emergente dal processo storico di sviluppo dell’umanità è possibile solo in relazione alla verità assoluta del Logos cristiano6.
Pertanto, l’assunto per cui il sapere filosofico, ben ricettivo delle svolte epistemiche della scienza moderna e sotto la contemporanea spinta di correnti o movimenti religiosi ereticali, avrebbe prodotto da un certo momento in poi una sostanziale ridefinizione del cristianesimo, donde i principali contenuti della fede premoderna e il concetto stesso di fede sarebbero stati sottoposti a severa ed erosiva critica trasformatrice, è da considerarsi del tutto falso e peraltro incapace di render conto della capacità dell’ortodossia religiosa e cristiano-cattolica di uscire fondamentalmente illesa da tutte le crisi che, nel corso di ben due millenni, l’avrebbero spesso investita storicamente mettendone a dura prova i fondamenti e la tenuta spirituale nella mente e nella coscienza di diverse generazioni di fedeli sino almeno all’ultimo ventennio del XX secolo. La Chiesa avrebbe dovuto difendere a spada tratta la sua immagine di fede sin dall’inizio della sua storia e a prescindere dai rivolgimenti scientifici e filosofici moderni; e l’avrebbe difesa senza ricorrere ad argomentazioni e a metodologie esegetico-ermeneutiche esterne o estranee a processi conoscitivi ritenuti legittimi o compatibili con i suoi principali dogmi dottrinari, accogliendo e valorizzando altresì tecniche o modalità logico-discorsive del sapere pagano delle quali fosse possibile un uso strumentale in sé non lesivo della natura stessa della fede religiosa e anzi utile a potenziarne le forme comunicative ed educative.
Questo non toglie, evidentemente, che la difesa ecclesiale dell’immagine di fede ritenuta più prossima al nucleo fondante della Rivelazione non sempre fosse in grado di impedire il proliferare di altre, eterodosse o alternative, immagini di fede: certo, accanto e di contro all’immagine ortodossa della fede cristiana, altre immagini ad essa ostili o contrarie si sarebbero venute proponendo nel libero mercato delle credenze religiose in generale, ma, per l’appunto, accanto e di contro ad uno spazio religioso interno esclusivamente occupato da un’immagine di fede universalmente e disciplinatamente condivisa dalla comunità ecclesiale ortodossa che, dotata di rigorosi codici di comportamento, era venuta sviluppandosi nel solco della originaria tradizione apostolica e romana, a sua volta pluralistica ma unitaria, carismaticamente diversificata ma dottrinariamente e spiritualmente compatta, teologicamente vivace e aperta al confronto ma non insubordinata e affetta da faziosità o settarismo7. La più antica immagine cristiana della fede non avrebbe mai ceduto a tentazioni interne di “ridefinizione”, di “riadattamento” o “aggiustamento” tattico, indotte da forze intellettuali o culturali esterne alla sancta communitas ecclesialis delle origini, dalla quale semmai sarebbero state via vie espulse le componenti più riottose e recalcitranti a prestare eterna obbedienza alla imperativa e inequivocabile normatività delle verità e dei precetti rivelati e trasmessi da Cristo in relazione alla vita morale, spirituale e religiosa di individui e comunità, non già in relazione a questioni fisico-astronomiche che non avrebbero mai costituito un nucleo fondamentale del messaggio salvifico e che il linguaggio biblico non poteva pretendere di rappresentare nella loro veridicità scientifica. Cristo, da sempre consapevole di come nella sua stessa Chiesa sarebbe perennemente cresciuto non solo il grano della verità e della giustizia ma anche la zizzania della menzogna e della perfidia e perciò portato ad assegnare a tutti quei discepoli che fossero stati “rocciosi” come Pietro il potere di sciogliere e legare, di stabilire e tramandare le sante verità della fede e le condizioni del perdono da concedere ai peccatori oppure di negare udienza e ascolto ai mestatori della fede e ai diabolici sobillatori del popolo di Dio, non si sarebbe mai preoccupato di impartire lezioni parascientifiche intorno alle leggi di natura o di tracciare lineamenti sia pure embrionali di una qualche teoria fisico-astronomica.
Quindi, stupisce che lo studioso in oggetto affermi che, con l’avvento della modernità scientifica, «la Bibbia va scomparendo come deposito di certezza culturale» abbattendo la nuova scienza tutte quelle concezioni astronomiche, geologiche, mediche che sulla Bibbia erano state costruite8. Ma che c’entra? L’immagine della fede cristiana non viene costituendosi in relazione ad interessi di carattere scientifico ma esclusivamente in relazione a problematiche di natura morale, spirituale, esistenziale e religiosa, in relazione a domande basilari quali: da dove viene e dove va l’uomo, qual è il senso e la destinazione ultima della sua vita, se sussiste e in cosa consiste un’eventuale relazione tra immanenza storica e trascendenza ultramondana? Ma la congettura storiografica di Pesce, abbastanza pasticciata e inconcludente, punta maldestramente a dimostrare che tutte le novità della storia e della cultura moderne, avrebbero finito alla lunga per invalidare la tradizionale immagine della fede cristiana, ovvero l’immagine antica e medievale della fede, in un contesto storico-epistemico sempre più movimentato, agguerrito e differenziato che sarebbe venuto implicando una crescente relativizzazione della figura di Gesù, dei dogmi costitutivi della sua predicazione, dei modi stessi di percepire il divino. Ad essere messi in discussione non sono l’autenticità e l’ispirazione divina delle Sacre Scritture e degli stessi vangeli, perché quel che cambia, alla luce dei rivolgimenti epistemici di cui si è detto, sono piuttosto i modi di porsi di fronte ai sacri libri, i modi di leggerli e di interpretarne simboli, significati e valori. E proprio questo radicale cambio di paradigma interpretativo avrebbe portato, secondo lo storico genovese, alla crisi della originaria immagine della fede, obbligandola ad assumere nuove forme, mentre in vero, come già detto, sin dalla sua origine essa era sempre stata circondata da un pullulare di correnti ereticali e da spinose controversie dottrinali, cui aveva saputo energicamente rispondere in virtù di quell’antica e profonda sapienza spirituale e religiosa di matrice ebraica che era stata ulteriormente integrata e significativamente rivitalizzata dalla sorprendente ed eversiva predicazione di Cristo.
Ecco: non si sarebbero avuti, nella successiva storia dell’umanità, eventi così portentosi e dirompenti come quella predicazione che, proprio per questo, sarebbe venuta traducendosi in tutta una serie di coerenti e ben coordinate definizioni teologiche e affermandosi come un sistema paradigmatico ormai inamovibile e immodificabile di fede pur nel quadro di uno scenario storico abitato costantemente da furiosi tentativi di manipolazione del sacro Logos e da avvenimenti non di rado fortemente destabilizzanti. Da venti secoli quella predicazione subisce contestazioni e attacchi di ogni genere e continua ad essere argomento e motivo di contrasti, divisioni e laceranti scissioni persino all’interno della identità religiosa da essa disegnata e delle diverse Chiese e confessioni cristiane sparse e professate nelle varie aree del mondo. E’ quindi comprensibile che il sistema di pensiero, la forma di sapere, i modelli culturali cui essa avrebbe dato luogo siano stati sempre suscettibili di revisioni e mutamenti paradigmatici indotti da sistemi simbolici e modelli teorici rivali, ma nonostante il fumo di Satana si sia tante volte levato e continui forse a levarsi persino nelle sacre stanze del collegio apostolico e cardinalizio, cattolico e romano, le uniche revisioni, gli unici parziali e non essenziali mutamenti della più antica fede cristiana sarebbero stati quelli derivanti da legittimi e necessari approfondimenti esegetici ed ermeneutici della limpida, inequivoca ma inesauribile Parola di Dio, e consentiti dalla doverosa ricerca teologica dei sensi spirituali ancora racchiusi e nascosti in particolare nelle fitte trame delle narrazioni evangeliche.
2. L’antica fede tra manipolazione e resilienza nell’era moderna e postmoderna.
Certo, quell’antica fede potrebbe andare smarrita e sostituita con forme idolatriche di religiosità. Non è ancora accaduto in modo sufficientemente significativo e, soprattutto, irreversibile, ma potrebbe accadere: non però a causa di forze esogene capaci di incidere trasformativamente sulla natura di quell’antica e gloriosa fede, bensì a causa di una inopinata resa spirituale persino della parte più sana e resiliente dell’ortodossia cristiano-cattolica, di una resa spirituale che potrebbe vanificare del tutto il redentivo sacrificio di Cristo. E’ lo stesso Gesù ad autorizzare a prendere in considerazione questa infausta eventualità: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18, 8), non una qualunque fede, ma la fede delle origini, la sua fede? Qui, il Signore non intende anticipare, pur potendo, la risposta, benché san Paolo ricordi che un fenomeno generalizzato di abbandono della fede, cioè l’apostasia, dovrà avvenire prima della fine del mondo (2Ts 2, 3), e benché le stesse parole di Gesù vengano preconizzando un possibile e inquietante scenario storico, che anche gli esegeti riferiscono alla fine del mondo: «i discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: “Dí a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo”. Gesù rispose loro: “Badate che nessuno vi inganni! Molti infatti verranno nel mio nome, dicendo: “Io sono il Cristo”, e trarranno molti in inganno. E sentirete di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori. Allora vi abbandoneranno alla tribolazione e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, e si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato. Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine» (Mt 24, 3-14).
Qui, in sostanza, viene spiegato il vero significato della fede, che è tale se è perseverante, viva e intrepida, se non si lascia né piegare né scoraggiare dalle tribolazioni, dalle persecuzioni e, tanto meno, dai continui rivolgimenti e dalle sempre emergenti e transitorie verità della storia umana. Perciò, è tutto previsto sin dall’inizio dell’era cristiana: la fede si estingue e viene sostituita solo se abbandonata da quanti l’abbiano abbracciata e non perché processi storici e culturali di straordinaria portata innovativa possano minarne oggettivamente le basi e il valore spirituale. Perciò, non possono che apparire molto confuse e poco pertinenti le conclusive affermazioni del professor Pesce, al punto di poter essere paragonate a vere e proprie divagazioni sul tema del rapporto tra ortodossia cristiano-cattolica di fede e poliedrica eterodossia del mondo storico e culturale pagano, un tema già esistente nell’epoca di Cristo ma che Pesce ritiene decisivo al fine di dimostrare come i mutamenti storico-culturali avrebbero costretto la Chiesa a rivedere e ad aggiornare continuamente il suo sistema simbolico premoderno, che specialmente dall’avvento della modernità sarebbe stato incalzato senza tregua e accerchiato dalla critica oltremodo erosiva di inediti e agguerriti sistemi epistemici: «Mi sembra chiaro che sono molti i motivi per cui tutto l’insieme della teologia tradizionale è in crisi a partire dalla prima età moderna. La sacra Scrittura diviene criterio di critica perché, in alcuni casi, è sottratta alla teologia tradizionale e al dogma (che non vengono più considerati chiavi di interpretazione necessaria). La filologia e il metodo storico costituiscono una base epistemologica nuova che però solo in alcuni casi diventa criterio critico interpretativo della Sacra Scrittura. La filosofia è usata come criterio di verità con cui indagare sui temi posti dalla teologia e dal dogma. La filosofia è però strettamente influenzata dalla nuova scienza che pone a sua volta in crisi non solo Sacra Scrittura, teologia e dogma, ma anche la filosofia tradizionale soprattutto aristotelica e platonica. A questi quattro fattori si affianca poi una nuova prospettiva ebraica, e il comparativismo religioso. La dialettica tra principio filosofico e metodo storico da un lato e pretesa di una rivelazione divina depositata nelle sacre Scritture dall’altro continua incessantemente in età moderna e non porta a una vittoria di nessuna delle due parti nel senso che l’applicazione del principio filologico storico è inarrestabile, ma la pretesa di rivelazione divina del testo sacro è per le Chiese ugualmente irrinunciabile»9.
Per Pesce, l’egemonia cristiana è finita per sempre a tutto vantaggio dell’egemonia della moderna mentalità scientifica. Bisogna solo aspettare, pertanto, per vedere dove l’umanità potrà essere condotta da questa nuova egemonia dell’intelligenza e della spiritualità umane e quali nuove e feconde immagini della fede religiosa essa sarà in grado di ispirare nei prossimi decenni e nei secoli futuri. A giudicare dai caotici e contraddittori scenari storico-sociali di questo inizio di terzo millennio, si sarebbe tentati di pensare che, pur riconoscendo lo stato evidente di appannamento in cui oggi versa l’immagine tradizionale e storicamente più carismatica della fede cristiana, tutti i moderni sistemi epistemici che sono venuti coesistendo o alternandosi alla guida dei processi conoscitivi, sociali ed etico-religiosi, degli ultimi cinque secoli, forse non abbiano prodotto tutti quei progressi civili e culturali che ci si poteva attendere dalla moderna rivoluzione scientifica e culturale né un allargamento degli orizzonti di senso che si sperava potessero essere o diventare nel tempo ben più significativi e confortevoli degli antichi e medievali orizzonti di senso da molti e per lungo tempo ritenuti angusti e non suscettibili di generare forme di vita e di civiltà realmente e profondamente emancipative.
Qualche autorevole esponente del nostro tempo si è già pensosamente chiesto se esso non possa descriversi come l’epoca di una povertà così radicale da non essere in grado di riconoscere la mancanza o l’assenza di Dio come effettiva mancanza o assenza10, in aperta polemica con il dominio ormai storicamente riconosciuto, già verso la seconda metà del ‘900, dell’immenso potere strumentale di scienza e tecnica. Dunque, il cosiddetto pensiero postmoderno, ponendo significativamente in dubbio, attraverso alcuni suoi esponenti ben rappresentativi tra i quali certamente Heidegger, le strutture portanti della razionalità esaltata dall’illuminismo, sarebbe venuto esprimendo attese o aspettative di salvezza in un mondo che, per quanto ricco di avanzate e raffinatissime forme di sapere e di sofisticati strumenti di analisi demistificante all’insegna di un molto erosivo e pluralistico relativismo epistemologico e morale, sarebbe stato percepito come umanamente troppo fragile e troppo poco ospitale, come insufficientemente predisposto ad offrire all’uomo contemporaneo prospettive affidabili di emancipazione etico-civile, spirituale e/o religiosa. Il postmodernismo, pur avendo avuto il merito storico di segnalare la crisi delle grandi narrazioni universalistiche della modernità e l’impossibilità di usare il linguaggio, attraverso esse o attraverso le loro enunciazioni ideali, in modo sufficientemente unitario e lontano da forme soggettivistiche di interpretazione e di giudizio11, non avrebbe affatto contribuito a risolvere il più antico problema dell’uomo, quello del senso del suo stesso esserci e, d’altra parte, sarebbe venuto assumendo una pluralità talmente indiscriminata di significati da rendere impossibile ogni pur minima possibilità di distinzione tra verità e falsità, tra realtà e apparenza, tra oggettivo e soggettivo, tra bene e male, e da vanificare qualsiasi possibilità di comunicazione intersoggettiva.
Con l’irrompere della modernità, era sembrato che le immagini della fede potessero essere destinate a moltiplicarsi e a rendere irrilevante o almeno molto meno significativa e influente che in passato l’immagine premoderna della fede, ma la postmodernità, benché a sua volta condannata ad un clamoroso fallimento storico, si sarebbe incaricata di dimostrare quanto velleitarie fossero le promesse della modernità e le speranze da essa annunciate e alimentate nel corso dei secoli. Si è così giunti di nuovo al punto di doversi chiedere ancora una volta se sia ormai davvero così anacronistica la riproposizione o la riattivazione di un rapporto-confronto tra la vecchia, premoderna teologia e le più vive e feconde espressioni del sapere moderno e, più segnatamente, del sapere filosofico moderno, o non possa rappresentare piuttosto una inaspettata carta vincente nella partita sempre aperta tra un’umanità pensante e un’umanità endogenamente votata, pur nelle diverse e complesse fasi della sua storia, alla ricerca di una propria stabile identità oppure, forse più spesso, ad una corsa irrazionale verso assetti socio-culturali, di uso individuale e collettivo, anonimi e anomici12. Va da sé che, per risultare costruttivo ed efficace, un simile confronto non dovrebbe aver luogo semplicemente in monumentali e fredde sedi accademiche quanto anche e soprattutto in tutti gli spazi civili e culturali in cui trovano concreta e quotidiana manifestazione tanto le diverse e superstiti forme della sensibilità religiosa quanto, e ad esse frammiste, le diverse o eterogenee modalità ricettive del pluralistico approccio interpretativo alla frammentata e, per taluni aspetti, anche indecifrabile realtà di una società in crescente fase di liquefazione normativa, deontologica, valoriale e sentimentale13.
In questo senso, una prima proposta ben esemplificativa del nuovo ruolo che potrebbero oggi giocare la filosofia e la teologia potrebbe essere quella per cui, travalicando consueti e spesso logori schemi accademici di studio e di dibattito, la prima dovrebbe imparare a familiarizzare, meglio che in passato, con la mentalità e il linguaggio teologici, per acquisire inedite e proficue capacità di interdipendenza critico-problematica con una materia di indagine tradizionalmente relegata ai confini della razionalità e di un’indagine affidata più al sentire che al capire, e, per converso, la seconda dovrebbe affinare e rendere più spregiudicata la sua teoresi filosofica in un mondo in cui, sempre più spesso, i tradizionali sentimenti religiosi necessitano di essere rinvigoriti non solo sul piano emozionale ma anche su quello rigorosamente argomentativo e motivazionale14. L’ottica conseguente a questo primo passo sarebbe quella in cui, lungi dall’affrettarsi a gettare nel bidone della spazzatura i frammenti o brandelli di verità esibiti dalla cultura postmoderna, venga esercitata nei loro confronti una caritatevole e paziente opera di individuazione in essi non solo delle indubbie pretese totalizzanti e delle chiusure ma anche delle possibili aperture all’annuncio del Regno. La Rivelazione, in altri termini, deve valere anche per i resti sparsi di una verità ontologicamente integra e luminosa, e non solo per le anime momentaneamente o apparentemente perse delle creature umane. Vedere cosa se ne può salvare e se quel che può esserne salvato possa essere reso funzionale ad una costruzione collettiva del Regno di Dio15. Se il passaggio dalla modernità alla postmodernità si può leggere come un passaggio dal sistema ai frammenti di cui il crollo delle ideologie rappresenti una tipica modalità, senza che tale passaggio possa ritenersi già concluso e possano ritenersene prevedibili gli esiti, questo significa che ancora una volta la “buona novella” può essere proclamata per tutto e tutti, persino per forme di sapere e di vita apparentemente cadaveriche e ormai apparentemente irredimibili e spiritualmente inutilizzabili.
D’altra parte, il moderno non è univocamente antitetico al postmoderno, nel senso che, per certi aspetti, esso può ben essere inteso anche come parte integrante del moderno: poiché la modernità è anch’essa, in senso generale, non meno dell’antichità o della premodernità, un complesso di acquisizioni epistemiche ben definite anche se estensive e migliorative di quelli precedenti, è a sua volta suscettibile, e non meno di altre forme paradigmatiche di conoscenza o di sapere, di critica, revisione e approfondimento, ed è anzi, proprio in ragione di questa sua predisposizione all’autocorrezione, che si può ad essa attribuire la denominazione di moderna. Come ha scritto argutamente Lyotard: «Un’opera può divenire moderna solo se è prima postmoderna. Inteso in questo senso, il postmodernismo non è il modernismo giunto alla fine, ma il modernismo allo stato nascente – e questo è costante»16. Da questo punto di vista, la diffidenza della teologia cattolica verso il frammentarismo programmatico del postmoderno sarebbe incomprensibile se non si trattasse tuttavia di tenere a debita distanza quel sostrato di relativismo nichilistico che indubbiamente caratterizza da cima a fondo l’ideologia postmodernista. E’ vero: si può sempre notare che, tuttavia, temi emergenti da tale corrente di pensiero sono anche quelli dell’interiorità individuale e dell’alterità, donde la tensione della coscienza morale ad una dimensione trascendente del vivere e la possibilità di riproporre come termine intermedio tra l’immanenza della coscienza interiore e la trascendenza dell’alterità il concetto cristiano del dono di gratuità, sí da potersi sostenere che, anche in un contesto filosofico-culturale così convulso e contraddittorio come quello attuale, la carica vivificatrice della carità cristiana in fondo continua a vivere e ad agire, anche se in realtà la carità, la giustizia, la pace, la libertà, l’uguaglianza, la preghiera, che erano stati veicolati per secoli dal cristianesimo premoderno, appaiono oggi usati e riproposti in accezioni o con significati così generici e opinabili da risultare completamente diversi dal senso spirituale e dall’intenzionalità religiosa univoci e inequivocabili che quegli stessi valori avevano assunto nel contesto di una religiosità cristiano-cattolica ancora granitica, se non monolitica, e socialmente ben più pervasiva di quanto non siano le correnti, pluralistiche, deboli e soggettivistiche forme della odierna religiosità, all’interno stesso della comunità cattolica. Certe parole, che un tempo evocavano istantaneamente il senso e il timore del sacro, non solo il precetto e la virtù teologale della carità o della misericordia ma anche e simultaneamente la certezza escatologica del giudizio di Dio, non esprimono più l’incrollabile ed egemonica fede in un Logos, in una Parola di Dio recepiti e interpretabili solo in modo univocamente, correttamente, ortodossamente universalistico, ma la semplice eco di una vaga e indistinta, spesso anche confusa ed equivoca, seppur diffusa, emozionalità sentimentalistica, con la quale, in casi sempre più numerosi, si penserebbe di poter risolvere tutti i problemi del mondo e di poter persino soddisfare talune antiche speranze umanizzatrici di natura biblico-evangelica.
3. La Rivelazione come paradigma epistemico del sapere filosofico e teologico.
L’errore, il fraintendimento, l’equivoco del pensiero moderno/postmoderno, che rispecchia perfettamente il clima di confusione, spaesamento, stordimento spirituale del tempo presente, trae origine essenzialmente, e non certo in modo innocente, dalla mancata comprensione della specificità del Logos cristiano rispetto al significato del Logos o della Ratio greca: non aver capito questo ha comportato il continuare a leggere il mondo in modi approssimativi e distorsivi, innescando nella storia della spiritualità umana l’illusione che il libero uso del pensiero fosse certamente più vantaggioso se esercitato senza interagire o confrontarsi seriamente con la Rivelazione divina17, là dove, beninteso, il nemico di una concezione del mondo e della cultura in cui al Logos biblico-evangelico venga riconosciuta una legittimazione almeno pari a quella di cui ancora largamente gode un sapere di matrice greco-ellenistica, non sarebbe costituito dalla secolarizzazione, che è anch’essa un modo, accanto alle modalità comunitarie della più circoscritta vita ecclesiale, in cui può rivelarsi la realtà dello Spirito Santo e la potenza di Dio, ma dal secolarismo ovvero, come scriveva Karol Woityla, dalla «vera e propria religione del mondo», da una religione mondanizzata, da una religione sostanzialmente pagana18, in cui la divinità viene concepita gnosticamente come una realtà al di là del bene e del male e resa quindi soggetta ad ogni genere di arbitrio, di volubilità, di contraddizione. Nella o nelle divinità pagane, vero e falso, bene e male, giusto e ingiusto, lecito e illecito, coesistono, contrariamente a quanto prescritto nella dottrina cristiana, per la quale Dio, pur esercitando il suo dominio anche sul falso, sul male, sull’ingiustizia, su ogni genere di perversione, e sulla morte, da egli resi possibili ma al tempo stesso aborriti e avversati, è dotato di una natura costitutivamente buona e quindi estranea a qualunque tipo di commistione e contraddizione. Da un punto di vista cristiano, contrariamente a quello pagano, per quanto il cristianesimo per certi aspetti si sia lasciato contaminare dal paganesimo, non c’è mai nulla di deciso, di predeterminato, di ineluttabile, pur avvenendo tutto, ogni singolo fatto, avvenimento e azione umana nel quadro e sotto il governo della divina provvidenza, perché, per quanto finito e radicalmente fallibile, l’uomo resta libero e responsabile delle sue scelte e del suo destino. E, tuttavia, anche per le credenze pagane vale l’esortazione evangelica sulla zizzania e sul grano: «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura» (Mt 13, 30)19.
Ora, se non la secolarizzazione ma il secolarismo, questo secolarismo, equivale alla cancellazione di ogni principio di verità, di bene, di giustizia o santità ed è, come detto, il vero nemico di un sapere fondato sul Logos cristiano, non è detto che l’immagine premoderna della fede debba risultare necessariamente antitetica a quella modernità che nella secolarizzazione, ma non almeno inizialmente nel secolarismo, avrebbe avuto uno dei tratti più caratteristici. La modernità resta segnata, in effetti, da un’ambivalenza di fondo, in quanto, da una parte apre la strada ad un’emancipazione intellettuale e morale, non ancora incompatibile con la fede religiosa, del genere umano, mentre dall’altra avrebbe innescato nella storia del mondo processi degenerativi di misconoscimento del sovrannaturale, di desacralizzazione, che, nelle loro forme più esasperate o estreme, avrebbero finito per coincidere con la distruzione nichilista di tutte le pur gloriose “certezze” della tradizione religiosa e filosofica, con la distruzione degli stessi concetti di verità, oggettività, universalità. In questa seconda accezione, la modernità avrebbe veicolato il secolarismo, non contro la secolarizzazione ma insieme ad essa, e, per quanto, per un eccesso di pessimismo o realismo, si potrebbe essere tentati di pensare che la bilancia tenda ormai a pendere più dalla parte della mentalità secolarista che non dalla parte della mentalità secolarizzatrice, l’esito del confronto o dello scontro, in realtà, è ancora incerto e, proprio, per questo, pur ovviamente rinnovando le sue forme comunicative, i suoi strumenti logico-metodologici, i suoi approcci esegetici ed ermeneutici, l’antico ma ancora vitale pensiero religioso cristiano ha potuto e può ben sperare di esercitare la sua influenza non solo sui principali versanti del sapere laico su cui è venuta strutturandosi e organizzandosi l’intera vita civile della società novecentesca e ormai postnovecentesca, ma sui processi di elaborazione teologica e critico-culturale oggi in atto, forse più per rincorrere che non per integrare e correggere o “redimere” talune istanze moderniste e/o postmoderniste, negli stessi centri di studio e nelle istituzioni accademiche del mondo cattolico20.
La secolarizzazione, dunque, restituisce al mondo la secolarità, cioè l’autonomia che ad esso appartiene, senza però escludere o negare la legittimità del sacro, mentre il secolarismo intende recidere ogni rapporto dell’uomo e del mondo rispetto a Dio fino a reclamare persino il riconoscimento della totale infondatezza della domanda religiosa. Mi sembra, pertanto, molto chiaro e condivisibile il seguente giudizio: «la secolarizzazione … è un compito non solo possibile, ma anche doveroso», mentre «il rifiuto totale di ogni trascendenza religiosa in cui l’uomo celebri la sua totale ed assoluta autonomia è secolarismo. Esso non rispetta la giusta separazione tra il potere temporale e quello spirituale» e disconosce la presenza e la funzione legittime della Chiesa. Questo secolarismo aggressivo si propone di eliminare Dio e la sua Chiesa dal loro ruolo di formazione civica e sociale»21. In altri termini, la secolarizzazione non comporta un’avversione pregiudiziale verso il dialogo tra società civile-sfera pubblica e fede religiosa ma una possibilità di apertura all’interazione tra discorso religioso e discorso pubblico come riflesso di un rapporto di continuità del tutto legittimo tra sfera privata e sfera pubblica. Una simile posizione, come è stato ben rilevato, presenta implicazioni molto rilevanti dal punto di vista giuridico, e più esattamente in relazione alla questione del fondamento dei diritti e della stessa storia della civiltà giuridica in generale e di quella occidentale in particolare, sulla quale ultima la religione cristiana avrebbe esercitato un ruolo di primaria importanza, che si rivela ancor oggi essenziale per capire la genesi di valori etico-giuridici come quello di uguaglianza e laicità22.
Il mondo, il sapere, la ricerca e le scoperte, si espandano pure autonomamente secondo i talenti di intelligenza, genialità, sensibilità e lungimiranza da Dio instillati nella mente e nel cuore degli uomini: non sarà certo questo a ritardare la crescita e l’avvento del Regno di Dio nella storia, di quel Regno di Dio con cui la Chiesa non va identificata pur costituendone il principale strumento di annuncio e testimonianza profetico-messianici23; anzi, tutto questo potrà essere solo funzionale ad una più fedele esecuzione della volontà divina. Ma poi perché bisognerebbe impedire alla Chiesa di continuare ad assolvere la sua funzione di evangelizzazione, di educazione morale e civile, di formazione intellettuale e spirituale in un mondo oggettivamente contraddittorio e incapace di orientarsi praticamente e teoricamente tra opzioni esistenziali alternative, in alcuni casi ugualmente seducenti o suggestive, ma tutte parimenti destinate ad avere breve vita nel rutilante mondo delle idee e delle diatribe accademico-intellettuali?24. Anche dopo secolari, accesi e coinvolgenti dibattiti storici e filosofici, epistemologici e scientifici, psico-antropologici e teologici, sociologici ed economici, il mondo, inteso come concreta e specifica realtà di vita, continua a porre agli uomini e alle donne di oggi le stesse assillanti domande cui qualunque altra generazione del passato non aveva potuto sottrarsi e a cui aveva cercato di dare risposte soddisfacenti: perché il mondo, perché questo mondo; da dove viene e dove è destinata ad andare la vita e la nostra vita di esseri umani; esiste un rapporto ed eventualmente quale tra tempo ed eternità e tra immanenza e trascendenza; la storia ha luogo secondo suoi princìpi costitutivi di natura immanente oppure è condizionata anche da princìpi e da un ordine di realtà ad essa esterni; perché l’essere e non il nulla o, viceversa, perché il nulla e non l’essere; sono spiegabili la parola, il pensiero, la conoscenza, il sapere, la coscienza, l’arte, la poesia, senza che sia necessario riferirli ad una qualche superiore entità, ed eventualmente in che modo o fino a che punto; come fare, in sostanza, per non peccare di unilateralità, di riduzionismo, di arbitrarietà?
Sono questi alcuni dei grandi interrogativi da cui l’umanità contemporanea e quella che seguirà continueranno ad essere investite e afflitte come se tutti gli studi, la riflessione critica, la cultura prodotti al riguardo sino ad oggi, non rivestissero alcuna sostanziale utilità e non offrissero alle generazioni presenti e future alcun decisivo vantaggio euristico da utilizzare in vista del perseguimento di soluzioni ben più soddisfacenti. Ora, si vorrebbe che, stando così le cose, proprio dell’unica forza di pensiero, di cultura e di vita, la Chiesa, che è sempre uscita indenne da tutte le crisi storiche a differenza di tutte le altre realtà culturali e politico-istituzionali della storia del mondo, conservando e perpetuando, sia pure intelligentemente e criticamente, la sua identità spirituale e religiosa, si dichiarasse bancarotta in presenza di fondamentali e irrisolti problemi e necessità esistenziali sulla cui presa in carica tutta la sua storia di testimonianza religiosa e di studio appare fondata e che, pur tra limiti e disattenzioni non sempre comprensibili e giustificabili, sono sempre stati oggetto della sua precipua scelta vocazionale. Non si dovrebbe, peraltro, dimenticare che la Chiesa è l’unica istituzione storica, ma non secolare, fondata non in ragione di interessi, richieste o sollecitazioni provenienti dall’esterno, dal mondo, oggi si direbbe dalla società civile, come nel caso delle università medievali, la cui fondazione ed esistenza sarebbero state dunque pensate in funzione di specifiche istanze del mondo civile, ma in ragione di uno spirito missionario originario e completamente immune da spinte o pressioni storico-mondane, di uno spirito di servizio disinteressato con cui essa avrebbe sempre cercato di qualificare nei secoli la sua esistenza e la sua attività apostolica25.
Ma quale autonomia di giudizio, quale libertà di coscienza, potrebbero essere ormai garantite dalla Chiesa cattolica, così prigioniera dei suoi dogmi e della sua tradizionale, seppur sottaciuta, autoreferenzialità teocratica, al mondo secolarizzato e alla laicità desacralizzata del terzo millennio? Questa obiezione non può più essere considerata irresistibile, visto che, come dimostrano bene i più recenti studi di epistemologia comparata26, nessuna forma di pensiero è totalmente esente da condizionamenti e il problema, semmai, è quello di liberare, nei limiti del possibile, l’attività intellettuale da condizionamenti non strettamente necessari all’economia esplicativa della sua teoresi. Tuttavia, anche se «la pretesa di pensare senza presupposti è tanto ingenua quanto impossibile, … continua pur sempre a valere come preziosa idea regolativa. Tale istanza pone alla filosofia il compito di esercitare la più minuziosa autocritica allo scopo di portare entro l’angolo visuale della coscienza quanto più possibile dei presupposti del pensiero. La comprensione della storia e il pensiero filosofico procedono per progressivi ampliamenti e crescente complessità. Ogni nuovo contributo – come per esempio i risultati della scienza e della tecnica, la concezione materialistica della storia, il ruolo dell’inconscio – costituisce un’apertura di senso, ma anche uno strumento ermeneutico per l’interpretazione del presente e per la reinterpretazione del passato»27. Non si comprende, dunque, perché solo il pensiero cattolico dovrebbe essere ritenuto incapace di arrecare almeno qualche “contributo” suscettibile di convertirsi in un’apertura di senso e magari anche in uno strumento ermeneutico per l’interpretazione del presente e per la reinterpretazione del passato.
Se, d’altra parte, si conviene che «la filosofia … vive nella stretta paradossale tra la necessaria consapevolezza dei limiti del pensiero e la inesausta spinta a trascendere tali limiti»28, non si può, ancora una volta, non riconoscere e non affidare al cristianesimo il compito messianico, di natura intellettuale non meno che spirituale e religiosa, di relativizzare tutti i condizionamenti etico-conoscitivi della storia umana nel nome di quell’unico divino incondizionato che, lungi dal potersi a sua volta imporre come condizionamento distraente o fuorviante, funge solo da unica condizione ontologica di superamento di qualsivoglia forma di condizionamento unilaterale e provvisorio, ivi compresi eventuali e indebiti condizionamenti della stessa vita ecclesiale. Sí, perché, per quanto sia stata voluta da Cristo proprio al fine di ricordare e indicare continuamente e correttamente a ogni singola creatura e a tutti i popoli del mondo, attraverso i secoli e i millenni, quale sia la via che conduca al suo Regno, la verità che illumina il cammino verso quest’ultimo, la vita che può essere ottenuta al termine dell’esperienza terrena, la Chiesa stessa non è esente da limite, da peccato, da menzogna o da perversione, donde anche, con la sua primaria responsabilità di non favorire l’errore o l’appannamento dei santi insegnamenti e precetti di Cristo con vaneggiamenti teologici che celino inconfessate e soggettivistiche spinte antiecclesiali, anche se di segno ecclesiastico, la possibilità di reiterare non certo impunemente, nonostante l’apparente vicinanza ministeriale e sacramentale a Dio, l’antica ed evangelica tentazione di tradire Cristo e la volontà del Padre29. Qui, però, non si allude tanto ad errori o orrori ipotetici e reali compiuti dalla Chiesa contro eretici o infedeli oppure contro uomini e donne integri e solo colpevoli di aver gridato al cielo il proprio bisogno di una Chiesa più pura e santa, e ancora contro interi popoli o gruppi etnici non di rado inermi e indifesi, quanto e soprattutto a veri e propri crimini commessi da rappresentanti dell’istituzione ecclesiastica contro la Parola stessa di Dio e contro l’immagine più nitida e veritiera della fede in Cristo. Per chi, anche dentro la Chiesa, avrà cercato di frapporsi non solo alla pratica del bene e della giustizia ma al rispetto stesso dell’ortodossia, non ci sarà impunità30.
4. Supremi simboli della fede tra laicità e desacralizzazione.
Quale che sia la cultura di un determinato mondo storico, quali che siano i suoi usi e i suoi costumi, le sue logiche prevalenti, le forme più peculiari della sua mentalità, il ruolo della Chiesa e della fede non può mai essere di pura acquiescenza, di passiva e indiscriminata accettazione o anche di sostanziale adattamento, di assoggettamento spirituale a forme di pensiero e a pratiche di vita realmente incompatibili con i princìpi e i valori evangelici delle origini. Non sarebbe necessario far riferimento alle origini se non fosse per la consapevolezza di come tutto nel tempo, persino i pensieri e i comportamenti più nobili, gli ideali e gli atti più limpidi e virtuosi, possa essere manipolato, travisato, snaturato dagli uomini. Non è che la fede insegnata da Gesù non sia, in parte, anche di natura adattativa, perché è evidente che essa deve esercitarsi in un mondo molto diverso dal mondo celeste, in cui gli esseri che abbiano il privilegio di farne parte e di vivere letteralmente immersi nell’amore di Dio e di tutti i beati, non hanno più bisogno né della fede né della speranza, ma essa si contraddistingue principalmente per la sua capacità di apertura alla Parola di Dio, di sottomissione quanto più serena possibile alla volontà divina, di fedele e fiducioso adattamento alle sollecitazioni sempre nuove ed urgenti dello Spirito Santo. Non bisognerebbe mai dimenticare che la fede in Cristo è intrinsecamente, costitutivamente, uno strumento di lotta contro un mondo di peccato, di inganno e di violenza, non già uno strumento di evasione dallo scontro o dal conflitto con il mondo e con tutto ciò che sia mondanamente presente nella nostra personale interiorità. Diverse sono le immagini cui può essere collegata la fede: fra esse, ben note sono quella del libro, del libro dei libri ovvero la Bibbia come lo ha definito giustamente anche di recente John Barton31, dell’aratro, con cui si traccia il solco della propria vocazione spirituale e della fede, della rete da usare come strumento di conversione e unità in Cristo, della colomba simboleggiante la pace da intendere e perseguire come condizione di armonia e di benessere in uno spirito di giustizia, ma non c’è dubbio che l’immagine centrale e più caratteristica sia della Parola di Dio che della fede in Dio, l’immagine verso cui tutte le altre immagini convergono o in cui confluiscono, è quella della spada, con cui si tratta di tagliare e separare il vero dal falso, il lecito dall’illecito, il santo dall’empio, con cui si tratta di opporsi risolutamente alle menzogne e alle tentazioni che possono intossicare la vita, l’intelligenza, le relazioni non solo dei non convertiti a Cristo ma anche dei suoi più stretti seguaci. Ma la fede come strumento tagliente di lotta contro il male è strettamente connessa e anzi subordinata alla fede come preparazione alla morte redentiva di croce.
Il cristiano, dunque, indipendentemente dalla sua forza fisica o dalla potenza dei suoi mezzi civili o legali di resistenza, è innanzitutto un soldato, un combattente, pronto a dare la vita per fedeltà al suo Dio. Ma è doloroso dover constatare che, di tutte le immagini biblico-evangeliche abbinate alla fede nel Dio vetero e neo testamentario, quella che oggi, pur senza meritare di incorrere necessariamente nell’accusa generalizzata e abusata di fondamentalismo, appare come di gran lunga la più trascurata ed emarginata dal discorso religioso cristiano e cattolico è, senza dubbio alcuno, quest’ultima32, anche se tutte le altre, pur sempre costitutive di un’immagine antica e premoderna di fede, non si può dire godano di ottima considerazione e, va ribadito, non solo nel mondo in generale ma nello stesso mondo ecclesiale e cattolico. E’ come se ormai, rispetto all’epoca in cui la fede nasceva e cominciava a diffondersi, e beninteso su un piano strettamente religioso e teologico, il tempo fosse percepito come più importante e urgente dell’eterno, la vita temporale come molto più significativa e gratificante di quella spirituale, l’esistenza terrena come molto più certa di quella ultraterrena e anzi, probabilmente, come l’unica forma di vita possibile. La fede, in sostanza, si è ateizzata, sopravvivendo più come abitudine mentale e come ipotesi di tipo scaramantico che come certezza inespugnabile di coscienza e di vita e manifestandosi essenzialmente in una rituale partecipazione alla vita liturgica e sacramentale, anch’essa non di rado e in vario modo utilizzata a scopi di carriera, di potere o di utilità mondana piuttosto che per la salute dell’anima e la concreta partecipazione alla costruzione del Regno di Dio. La fede c’è ma non si vede, non si sente, non si percepisce, in quanto, non essendo più vissuta come reale, quotidiana e sofferta assunzione di responsabilità di fronte ad un Dio vivente, non crea problemi per nessuno, non crea nel quadro dei correnti rapporti interpersonali e della dinamica dialettica della vita civile, non mette in discussione né modi di pensare né stili di vita se non nella forma di un’etica mondana corrispondente più che altro ad un travestimento moralistico di incontrollati e aggressivi meccanismi di un inconscio soggettivo carico di desideri repressi e di inconfessate frustrazioni esistenziali. La critica non è più motivata a causa e nel nome della fede, non viene esercitata nell’adempimento di un doveroso compito di testimonianza religiosa, e la fede, lungi dal confliggere proficuamente con le apparenze e le falsità del mondo e dal rifiutarne i frequenti compromessi, perde il contatto con la lama tagliente, destabilizzante o salvifica della Parola di Dio. Si ha troppo frequentemente a che fare con un Dio cristiano sperato più che creduto e con un cattolicesimo “culturale” più che rigorosamente dottrinario e militante, con una fede sempre più debole, incerta e spaesata, sempre meno comunitaria o collettiva e sempre più circoscritta a singoli individui33.
Tuttavia, tale situazione, per quanto sconfortante possa risultare, non è certo tale da dover atterrire il cristiano in quanto tale, il cristiano che, da solo o in gruppo, sa di dover esser pronto a sopportare momenti di grave solitudine in un mondo in cui non di rado accade che l’eclissi della fede sia simultanea a quella della ragione. In fin dei conti, il cristiano è straniero sulla terra, come recita il salmo 118, è forestiero nella storia del mondo, perché egli è suddito o cittadino di un altro mondo e appartiene ad un’altra patria che dovrà preoccuparsi di servire nel migliore dei modi anche o soprattutto durante il suo esilio terreno. Il vero popolo di Dio, peraltro, biblicamente tende ad identificarsi con quel “piccolo resto”, con quella porzione di esso che, pur afflitto da mille contrarietà e da dolorose umiliazioni, sa fare leva sul suo spirito di giustizia e sulla sua fedeltà a Dio per conservarne le promesse e attendere il suo giorno, che sarà un giorno di liberazione ma anche di giudizio sul mondo e su ogni sua creatura. Non ha importanza che la fede cristiana sia una fede di folle oceaniche, una fede di massa, anche perché una fede di massa può trasformarsi facilmente in una fede massificata, standardizzata e conformista. Meglio vivere un cristianesimo meno di massa, ma più convinto, più qualitativo e, soprattutto, realmente gradito a Dio: finirà probabilmente, ove non sia già finita, la cristianità, ma resterà la fede in Cristo, quella che dà veramente frutto ed è necessaria all’avvento del Regno di Dio34. La Chiesa esisterà e opererà nella storia dell’umanità fino a quando esisterà, per volontà e grazia di Dio, un «piccolo resto», un’avanguardia apostolica armata solo di fede ardente, di adamantino spirito di verità e di carità bruciante. In fondo, a ben vedere, è sempre stato così, anche nelle epoche di maggiore diffusione della fede tra le masse, e d’altra parte è sufficiente pensare al comportamento delle masse al tempo di Gesù quando esse, un attimo dopo aver pensato di proclamarlo quale nuovo re del popolo di Israele, l’avrebbero clamorosamente abbandonato al suo destino di morte35.
In questo senso, seppure il cristianesimo sia venuto assumendo volti storici diversi, talvolta più fedeli a quello del suo fondatore, talvolta più dissimili o difformi da esso, non sono mai mancati e probabilmente mai mancheranno nella sua storia piccoli gruppi o comunità o singole anime, apparentemente marginali o insignificanti ma in realtà dotati di uno speciale potere carismatico di riscoprirne e ravvivarne la vitalità delle origini e il senso eterno e indistruttibile della sua carica salvifica. Si potrà anche parlare di un cristianesimo antico, medievale, moderno o postmoderno, per cogliere, non necessariamente in forme illegittime, talune diversificazioni storico-fenomenologiche dei suoi possibili modi di venire declinato nella storia, ma il cristianesimo apostolico e gerarchico-istituzionale, nelle congiunture storiche più complesse e drammatiche come in quelle meno cariche di tensione e di contrasti, verrà sempre “salvato” significativamente da un cristianesimo ancora discepolare e carismatico, da esperienze umane e religiose scarsamente visibili o addirittura impercettibili, dalla testimonianza di spiriti ignorati e scartati dai poteri e dalle logiche del mondo, ma resi ugualmente fecondi, creativi e luminosi dal soffio immaginifico e sorprendente dello Spirito Santo. A trionfare attraverso i secoli, in questo modo, sarà sempre un cristianesimo originario, puro, incontaminato, anche se in apparenza sconfitto, di cui potranno fruire solo gli amanti di un Dio capace di risorgere non una volta ma sempre dalle mortali rovine della storia e dalle più tenebrose tragedie dell’umanità36.
Che sia sociologicamente moderno, postmoderno, liquido o gassoso, nelle apparenze fenomeniche del mondo, il cristianesimo avrà sempre la sua immagine più gloriosa e iconicamente più rappresentativa nel doppio simbolo della spada e della croce, anche se spada sarà, cristianamente, non quella che infliggerà ad altri ferite o morte ma quella che li costringerà eventualmente ad essere coscienti delle proprie ambiguità o delle proprie perversioni, non quella che toglierà loro vita e salute ma quella che li costringerà a ripensare profondamente il senso della propria vita e della propria salute, mentre procurerà sicuramente la sofferenza e l’angoscia della croce e talvolta la più solitaria e la più straziante delle morti a chi, senza risparmiarsi, avrà inteso farne uso per il bene e la vita del prossimo e del genere umano dopo aver squarciato lo spesso velo di falsità, di ipocrisia, di doppiezza e inerzia spirituali, in cui l’uno e l’altro tendono non di rado ad avvolgere il proprio pensare e il proprio agire. Ove si muova da questo specifico modo di intendere la fede cristiana, non ha più molto senso porre e porsi il problema generico di una ricerca di senso nell’epoca della complessità, della crisi permanente dei tradizionali sistemi filosofici, del tramonto delle grandi ideologie, del maestoso incedere di una conoscenza scientifica e tecnologica che, di fatto, non solo non contribuisce a risolvere le contrapposizioni e i conflitti planetari ma sembra anzi incentivarli e alimentarne la potenza realmente o virtualmente distruttiva non dandosi ormai scoperta scientifica o innovazione tecnologica che non sia suscettibile di essere immediatamente utilizzata per scopi di indiscriminato arricchimento finanziario e di antagonismo politico-culturale, di competizione militare o di egemonia geopolitica: con l’andar del tempo, appare sempre più problematica la tradizionale convinzione che la scienza sia condizione di sicuro progresso civile e benessere economico, proprio mentre appare sempre più dubbio che una logica dell’incertezza epistemica possa risultare esistenzialmente più promettente e vantaggiosa di una logica delle certezze metafisiche e religiose37.
Certo, una scienza aperta, problematica, ipotetica, congetturale o convenzionale, sempre soggetta a verifica sperimentale e confutazione, sembra dare in apparenza garanzia di massima oggettività e universalità conoscitive, e risulterà funzionale alla valorizzazione del pluralismo logico e metodologico e analitico-comparativo, cosí come, per estensione, nel campo degli studi storici, economici e sociali, etici e politici, e persino religiosi, verrà legittimando criteri epistemici di giudizio mai troppo rigidi, unilaterali e selettivi ma tendenzialmente flessibili, antiriduttivi e pluridirezionali, donde anche connesse forme di sapere ispirate a princìpi etico-razionale di confronto civile e democratico oltremodo libero e democratico. Ma, come già notava Montaigne, quanto maggiore è la crescita del sapere tanto maggiori sono o diventano le possibilità di dubitare della sua esattezza, e oggi si può aggiungere che, quanto più estesa o sviluppata è la struttura o la rete cumulativa, espansiva o integrativa della conoscenza in generale e quanto più sofisticati e integrativi sono i suoi metodi e le sue categorie, tanto più alta è la possibilità di un assottigliamento dei margini di certezza conoscitiva dei contenuti, degli assunti, delle definizioni in essa e da essa via via acquisiti. Si potrà sempre ritenere che la relativa incertezza di una conoscenza epistemicamente rigorosa valga molto di più della tradizionale certezza metafisica o religiosa, ma non può non colpire il dato paradossale per cui il grado di espugnabilità teoretica di quest’ultima, dopo diversi secoli di vertiginoso e produttivo sviluppo della logica scientifica sperimentale, a tutt’oggi risulti largamente inferiore al grado di accertamento dimostrativo, peraltro non elevatissimo, che il complessivo apparato critico-confutatorio della scienza contemporanea può garantire in rapporto alla maggior parte delle sue teorie e dei suoi più avanzati di ricerca. D’altra parte, la scienza può solo servire l’uomo entro determinati limiti, ma non può certo salvarlo, non essendo di natura divina ma umana38.
Ora, il problema del senso, del senso e non del semplice significato, apparentemente così centrale nell’odierno dibattito filosofico, culturale e religioso, non ha tanto a che fare con ineccepibili evidenze formali o teorico-sperimentali, pure in larga parte inesistenti in modo definitivo o sufficientemente solido, quanto con percezioni intuitive, con convinzioni soggettive maturate a contatto di una quotidianità emozionale e affettiva, morale e spirituale o religiosa più o meno intensa e significativa, nel cui ambito tende a porsi principalmente un dilemma: se, in assenza di verità razionali e scientifiche univocamente e incontrovertibilmente dirimenti, sia o non sia il caso di confidare nell’attendibilità di chi, promettendo eterna inimicizia ai nemici recidivi di Dio e delle sue leggi, avrebbe brandito fino alla croce la spada di una vita giusta, santa e immortale39.
5. L’Apocalisse tra interpretazione biblica e interpretazione immanentistico-culturalistica.
Non so se, in quest’epoca di paganeggiante individualismo, di empio umanesimo e di uso talvolta persino blasfemo del verbo cristiano, sia ancora consentito, nel rigettare criticamente la rappresentazione idolatrica del mondo proposta dal pensiero postmoderno, mostrarsi fiduciosi sino al punto di ritenere che sarebbero di certo «rimasti assai più di dieci giusti, per convincere Dio, in favore delle generazioni che vengono, che non siamo cosí indegni dei doni ricevuti»40. E, tuttavia, non c’è dubbio che, quali che siano le passioni tristi e perverse del secolo e quale che sia il numero di coloro che potrebbero realmente combatterle per favorirne possibilmente una conversione in virtuose e ardimentose passioni d’amore evangelico, la Parola di Dio continuerà ad avere chi saprà seminarla, nella sua forma originale, anche in condizioni particolarmente avverse. Non tutti gli operai, laici ed ecclesiastici, che lavorano nella vigna del Signore, usano per la mietitura semi di primissima qualità, e dunque occorrerà particolare prudenza per evitare che la Parola di Dio possa essere confusa con forme caricaturali o comunque inautentiche di essa, specialmente là dove si muova dal falso presupposto che essa sia compatibile con tutto ciò che emerga dalla vita e dalla storia. Non è affatto cosí, anche perché «un cristianesimo che» andasse «d’accordo con tutto e che» fosse «compatibile con tutto» sarebbe «superfluo»41, ed è perciò necessario che la Chiesa cattolica possieda o continui a possedere «una chiara consapevolezza della sua universalità, sia nella prospettiva sincronica sia in quella diacronica: essa unisce uomini e culture di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La Chiesa cattolica è una forza che unisce in un mondo minacciato dai particolarismi. Questo nel contempo sta a significare il suo carattere metapolitico: in se stessa la Chiesa non è uno strumento politico, la fede ha il suo ambito proprio, che costituisce un correttivo di tutto ciò che è politico e contemporaneamente è forza morale per la sua giusta configurazione. In definitiva, la fede dà all’essere umano i contenuti essenziali sul suo “da dove” e sul suo “verso dove”: una certezza che ci accomuna e ci sostiene durante la vita e al momento della morte»42.
In generale, e contrariamente all’andazzo di un pensiero postmodernista molto attivo anche solo inconsciamente, la Chiesa non può e non deve farsi garante né di una libertà formale genericamente enunciata e suscettibile di essere esercitata anche in forme e per ragioni palesemente arbitrarie, illiberali o comunque lesive di elementari e universali princìpi morali, né di una verità di natura puramente o unilateralmente consensuale in quanto, per questa via, rischierebbe facilmente di favorire e legittimare forme non solo soggettivistiche ma devianti di pensiero e di condotta pratica e modelli irrazionali di vita individuale e collettiva, fino a poter persino avallare la formazione di maggioranze o minoranze ideologiche e politiche di tipo dispotico o dittatoriale. Non è possibile progettare e “montare” il mondo in conformità alla diagnosi postmodernista, ovvero «senza criteri prestabiliti», senza norme saggiamente predeterminate, perché in tal modo si finisce inevitabilmente per superare o rendere aleatorio «anche il concetto di dignità umana, sicché anche i diritti umani diventano problematici. In una siffatta concezione della ragione e della razionalità non rimane spazio alcuno per il concetto di Dio. E tuttavia la dignità umana alla lunga non può essere difesa senza il concetto di Dio creatore. Essa perde così la sua logica. Naturalmente noi non possiamo e non ci è consentito di costringere alcuno a credere in Dio. Tanto più urgente è allora il compito di far di nuovo valere il concetto di Dio creatore nella sua razionalità»43. Ma non è solo o principalmente per l’uso politico che si potrebbe ancora fare della religione cristiana e cattolica, e per eventuali e annessi vantaggi di carattere confessionale, che occorrerebbe tutelarne e rilanciarne alcuni fondamentali nuclei teologici, bensì anche e soprattutto per evitare che ne vada perso o smarrito quell’indubbio e ricco patrimonio di sapienza e spiritualità su cui ha potuto fondarsi una bimillenaria storia di civiltà, non solo per quanto riguarda il familiare Occidente ma anche più lontane e meno conosciute aree del mondo.
Appare necessario rilanciare con forza le antiche e sempre solide verità della predicazione evangelica perché tutto ciò che è postmoderno è anche, necessariamente, postcristiano, ma una fede postcristiana sarebbe una fede tra altre, una fede senza una verità dirimente, e un cristianesimo che rinunci a tagliare, a dividere, a dirimere e a discernere con ispirata razionalità, non ha più ragione di esistere, di essere amato e professato. Il cristianesimo non può essere ridotto a forma particolare e non più universale di esperienza religiosa, perché la ragione stessa del suo radicamento nella storia e nella cultura del mondo è quella di trasformare, convertire, salvare il mondo e l’umanità per l’eternità. Quindi, la pretesa postmoderna di fare del cristianesimo una delle tante possibili opzioni della vita contemporanea, senza poterne più cogliere l’irriducibile specificità spirituale e la insostituibile funzione critico-fermentativa rispetto a tutte le forme reali e possibili di sapere, di potere e di volere storico-mondane, verrebbe implicando una lenta ma ineluttabile scomparsa culturale dell’umanità, la quale è culturalmente viva finché sia alimentata da ricorrenti crisi coinvolgenti le sue stesse nozioni tradizionali di verità, di storia o proprio di umanità44. Da questo punto di vista, è innegabile, pur se lo si continuerà a sostenere, che la fede cristiana è, non solo da un punto di vista religioso ma anche etico, intellettuale, politico, l’alternativa più rigorosa e radicale ad un nichilistico appiattimento di posizioni, idee, valori, per cui qualunque cosa, qualunque manifestazione di pensiero o prospettiva di vita, valgano esattamente quanto valgono o possono valere tutte le altre. Se questo dovesse essere accettato, condiviso e adottato come unico sistema di convivenza, la vita intellettuale e culturale dell’umanità sarebbe condannata all’estinzione, in quanto, se il principio dev’essere quello per cui ogni opzione di qualunque genere deve ritenersi legittima, e non soggetta a superamento o ad oggettiva confutazione critica e valoriale, si finirebbe in realtà per decretare l’impossibilità di qualsivoglia forma di reale progresso razionale, etico-civile e spirituale del genere umano, il che preluderebbe evidentemente alla scomparsa tout court del genere umano, ovvero all’apocalisse della storia, apocalisse però, non utilizzabile più semplicemente, come ama fare il postmoderno45 per evocare le crisi e i significati nascosti delle cose e degli eventi del mondo, nel senso etimologico di ἀποκάλυψις = rivelazione, disvelamento, ma da intendere proprio nel più realistico senso materiale di crisi distruttive e irreversibili, di processi non semplicemente sconvolgenti ma alla fine palingenetici46, da cui il mondo, la storia, l’umanità, nelle loro strutture di potere, nelle loro forme espressive e rappresentative, nei loro sistemi culturali e nelle loro ultrasecolari abitudini di vita, potrebbero ancora una volta rinascere, rigenerarsi e riorientarsi riproponendo tuttavia vecchi e logori schemi e prospettive esistenziali di ormai consunta forza creativa ed emancipativa, ma di processi inequivocabilmente volti a decretare la fine, il fallimento finale di ogni forma di salvezza storica e di protezione culturale, l’impossibilità, per il genere umano, di poter disporre di ulteriori chances di riscatto e di recupero stabile e definitivo della propria identità antropologica e firmata dal divino. Si tratterà allora della catastrofe ultima e irreversibile della civiltà e di ogni civiltà mai costruita sulla terra, non già, come ebbe a scrivere Ernesto De Martino sia pure in un’ottica irreligiosa o areligiosa, della fine “di un mondo” ma della fine “del mondo” e “di ogni mondo possibile”47. Ancora una volta, certo, si tratterà di una rivelazione, ma di una rivelazione, questa volta, che non potrà più prestarsi a discussioni, interpretazioni, rivisitazioni, teorizzazioni più o meno soggettivamente attendibili o brillanti, giacché sarà la rivelazione di ciò, di una realtà, di scenari spirituali che, pur essendo rimasti sempre relativamente nascosti attraverso i tempi, molta parte di umanità, di intelligenza e sapienza umane, non avrà mai voluto vedere, capire, accogliere, per innestare le salvifiche meraviglie dell’eterno nel faticoso e doloroso cammino di contingenti esistenze storico-temporali.
Il postmoderno si configura come attesa della fine, o meglio di una fine, ma, in realtà, l’apocalisse biblica e neotestamentaria da esso simbolicamente utilizzata per evocare inizi storico-temporali sempre nuovi e imprevedibili, prima o poi avrà in serbo una sorpresa forse inattesa e non preventivata dai teorici della frammentazione ontologica ed epistemologica della verità e del sapere: quella fine non sarà una fine, ma la fine di un intero universo storico-antropologico segnato non solo dalla fallibilità ma dal più irragionevole e osceno dei fallimenti possibili, mentre l’inizio che ne seguirà sarà un inizio radicale ovvero quello che introdurrà ad un ordine non transitorio ma imperituro di giustizia, pace e felicità48. Lungi dal coincidere con l’apocalisse immanentistica di estrazione postmoderna, l’apocalisse biblico-escatologica preannuncia un taglio netto e irreversibile con tutte le simbologie nichiliste di una ragione storico-umana poliedricamente esercitata nell’assolutizzazione e nell’assunzione del concetto di crisi come una sorta di principio catartico interno a quella irrazionale volontà di vita che viene universalmente manifestandosi come natura, come cultura e come storia. Se il postmoderno comporta una debolezza o una particolarizzazione del pensiero, una proteiforme variopinta e diversificata realtà di modi di pensare, di percepire l’altro e gli altri, di comunicare intersoggettivamente il proprio vissuto personale, e quindi anche una impossibilità di dar luogo ad universalistiche rappresentazioni teorico-politiche, etico-esistenziali o religiose della vita e del mondo, tutto ciò può essere ancora compreso, valorizzato se non sempre giustificato, salvato, solo alla luce di un ordine critico-conoscitivo, etico-normativo, assoluto e trascendente, pur comprensivo di ogni possibile genere di relatività immanente, e capace, sia pure per ragioni intellettivamente inesplicabili, di rivelarsi come principio ultimo e condizione incondizionata di verità, di libertà e di giustizia. Ove si sia dotati o muniti, per via di faticosa ma proficua applicazione spirituale, di requisiti spirituali adatti a favorire un rapporto interattivo con tale ordine, potrà disporsi di criteri-base, di una sorta di bussola extrarazionale ma non irrazionale idonea a garantire un corretto o giudizioso orientamento veritativo su tutte le questioni mondane generalmente oggetto di un orizzontale e trascendentale scire per causas che potrebbe appunto validamente e integrativamente avvalersi dell’apporto di un serbatoio ontologico-trascendente di verità ideali ovvero non sperimentate ma sperimentabili attraverso procedure parallele o alternative a quelle di una intelligenza puramente logico-analitica. Tale argomentazione, oggi non più improponibile in sede critico-razionale, potrebbe risultare compatibile con la teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner, secondo il quale l’intelligenza non è un fenomeno unitario e valutabile attraverso il cosiddetto quoziente d’intelligenza, ma una struttura antropica che può essere dotata di diverse capacità neurologiche49.
6. L’intelligenza della fede. Tra Logos greco e Logos cristiano.
In particolare, Gardner giudica riduttive e semplicistiche le teorie classiche sull’intelligenza, in quanto ne contemplerebbero solo due forme o domini cognitivi, l’intelligenza linguistica, consistente nella conoscenza della lingua ma anche nella capacità di esprimere pensieri complessi in modo chiaro ed efficace, e l’intelligenza logico-matematica, consistente nella capacità di analizzare dati in modo particolarmente creativo e di trovare soluzioni oltremodo geniali ed efficaci per l’innovazione e il progresso tecnologico. Gardner sostiene, invece, che, lungi dal potersi ridurre a questi due domini cognitivi, l’intelligenza ne comprenda molti altri costituendo non un’unica entità che possa essere misurata in modo uniforme ma una rete complessa di abilità cognitive uniche che vengono manifestandosi in modi diversi nei singoli individui. L’opera di Gardner sarebbe stata approfondita e ulteriormente sviluppata da un altro grande studioso dello sviluppo cognitivo, ovvero Robert Sternberg, che sarebbe approdato alla teoria nota come tripolare, cioè una teoria secondo cui l’intelligenza verrebbe esprimendosi attraverso tre fondamentali componenti: analitica (o analitico-comparativa), creativa (legata all’intuizione e aperta a più possibilità di soluzione) e pratica (capacità di organizzazione e pianificazione)50. Che la natura della razionalità umana sia o debba essere esclusivamente di genere induttivo-deduttivo, ipotetico-congetturale o sperimentale, assiomatico o confutatorio, è tesi appartenente ad una fase precedente e ormai superata della storia dell’epistemologia scientifica: anche da questo punto di vista, gli sviluppi della scienza pratica attestano che la razionalità umana è una questione molto più complessa ed enigmatica di quanto per interi secoli non si sia pensato, e che, anche per questo motivo, delle ragioni della fede probabilmente non si potrà continuare a decretare l’espulsione per sempre, posto senza concedere che in passato tale posizione ostracistica fosse realmente motivata, dalla sfera della più sofisticata razionalità filosofica e scientifica. La fede come la rivelazione, piaccia o non piaccia, e in relazione all’evoluzione storica del pensiero, sono ormai diventate categorie imprescindibili della ricerca filosofica contemporanea e non può più ritenersi viziata da soggettivismo la posizione di quanti lo sostengono quanto piuttosto quella di coloro che lo negano51.
Leo Strauss riteneva che il rapporto tra filosofia e rivelazione sussistesse un rapporto fortemente conflittuale in quanto, pur nascendo entrambe da una critica delle vecchie e idolatriche mitologie, la prima identificava la sua natura e la sua funzione demistificanti come ricerca conoscitiva della verità mentre la seconda, all’opposto, trovava la sua ragion d’essere nell’obbedienza al dio vivente52, anche se l’obbedire ovvero il conformarsi alla o alle verità del Dio vivente è, di per sé, un atto esattamente simmetrico a quello filosofico di cercare e scoprire la verità al di fuori di Dio. Sono, certo, percorsi conclusivamente alternativi, ma che sia mai stato possibile ad oggi sancire un primato di razionalità a favore dell’una o dell’altra, come invece avrebbe preteso Strauss nel chiedere che la rivelazione fosse assoggettata al controllo della ragione, non sembra possibile poterlo sostenere a fronte del fatto che, in caso contrario, occorrerebbe letteralmente dimezzare il numero di coloro che figurano generalmente come esponenti di spicco della storia del pensiero filosofico piuttosto che di quello religioso. Sapere rivelato e sapere filosofico sono semplicemente due forme di razionalità, a volte simmetriche a volte antitetiche ma interagenti e dotati di linguaggi diversi ma ugualmente legittimi e comunque, proprio per questo, reciprocamente funzionali all’analisi e alla chiarificazione di concetti etici, giuridici e religiosi di primaria importanza che hanno concorso e concorrono alla graduale costituzione della spiritualità occidentale e internazionale.
Il Logos greco e il Logos cristiano, congiuntamente, costituiscono le due più imponenti strutture portanti della cultura occidentale: a caratterizzare entrambe è la spada, la capacità del giudizio critico-selettivo, del discernimento, della scelta, e si può ben dire anche il coraggio della distinzione, della divisione, della separazione tra opzioni esistenziali contrapposte. Solo che nel caso della razionalità greca, la verità è concepita come termine ad quem, come punto sempre relativo d’arrivo verso cui è rivolta la ricerca filosofica mossa solo dall’esperienza sensibile e dai processi interni della ragione umana, mentre nel caso del Verbum Dei o verbo divino essa è data in quanto rivelata, che tende non già a disconoscere o ad annullare ma a correggere o integrare le verità esclusivamente intellettuali del mondo, fungendo dunque sia da presupposto ontologico e trascendente (termine a quo) da cui può muovere ogni atto o fase della ricerca razionale nel quadro dell’a priori sensibile-materiale e intellegibile del mondo esperito, sia da essenziale strumento ermeneutico di decifrazione, validazione o invalidazione, dei significati e dei valori costitutivi della razionalità pratico-strumentale del mondo.
La verità cristiana è rivelata in funzione di un’acquisizione quanto più universale e sensata possibile delle verità plurali del mondo, delle molteplici e sempre ulteriori verità da perseguire e conseguire nell’orizzonte storico-mondano dell’umana esistenza, ed è rivelata quindi per favorire e agevolare non per impedire o ostacolare la libera e autonoma ricerca razionale. Essa può o può non essere assunta, con un libero e responsabile atto di razionalità, quale base epistemico-religiosa, quale fonte primaria di illuminazione conoscitiva e spirituale, quale principio incondizionato, direttivo e unificante di indagine pluritematica su tutti i campi conoscitivi e le realtà settoriali del mondo e della cultura. In tal senso, la rivelazione, ove si ritenga di assumerla quale supporto indispensabile all’attività veritativa della ragione umana, è non solo propedeutica ma coessenziale ai processi logico-conoscitivi di un sapere razionale non indipendente dalle sue originarie e ontologiche strutture epistemiche (equivalenti ai contenuti rivelati), quantunque utilizzabile, con esiti in ogni caso incerti e non prevedibili, anche a prescindere da esse e dalle connesse coordinate religiose e spirituali53.
Ma se il Logos greco e il Logos cristiano possono essere accomunati simbolicamente dalla spada, essi risultano nettamente contrapposti da un altro simbolo, che è il simbolo per antonomasia del cristianesimo: la croce. Il Logos greco ha per oggetto le evidenze logico-discorsive o presunte tali, le verità acquisibili per via di procedimenti rigorosamente formali del pensiero, l’individuazione delle essenze che si celano o si nascondono dietro o sotto le apparenze, e quindi, in tal senso, il discorso, il sapere, sono già intrinsecamente di natura divina54. Non c’è un Dio di cui la razionalità umana sia diretta anche se imperfetta manifestazione, ma è la stessa razionalità umana che, nel differenziarsi dalla comune e volgare opinione (doxa) e affinandosi attraverso procedimenti sempre più rigorosi e sofisticati dell’intelligenza umana, viene essa stessa assurgendo, nella coscienza filosofica del sapiente, a principio costitutivo e ordinatore, a principio divino della realtà e della conoscenza umane. Dato il carattere intrinseco di nobiltà riconosciuto alla parola, al discorso, al pensiero, alla ragione, intesi, a differenza della cultura biblico-ebraica in cui il logos ha una relazione diretta con la sarx o carne, nella loro pura e assoluta astrattezza logico-conoscitiva, e quindi nel loro essere funzioni disincarnate dell’essere umano, era poi inconcepibile per i greci che un Dio, che la divinità tout court, non solo potesse essere soggetta a morte ma potesse essere soggetta persino a morte di croce. Ora, proprio la croce costituisce la specificità della spada evangelico-cristiana e, di conseguenza, il discrimine tra logos critico-diagnostico della sapienza greca e logos critico-diagnostico ma anche redentivo e salvifico della fede e della sapienza cristiane. La croce indica, infatti, sia il senso, la destinazione della vita terrena, la direzione di marcia dell’uomo che aspiri alla vita immortale e alla beatitudine eterna nella riconquistata e gloriosa casa di Dio, sia, e per ciò stesso, le ragioni per le quali e i modi in cui, avendone le capacità e le opportunità spirituali, andrà adoperata ogni volta con fraterna franchezza e santa risolutezza, l’affilata e tagliente spada della Parola di Dio nei confronti del peccato e delle iniquità del mondo e di tutte quelle realtà umane che della menzogna, dell’inganno, della malvagità e di ogni genere di corruzione e perversione, vengano facendo impenitentemente le proprie leggi. Ma la croce indica anche che la milizia cristiana potrà venire esercitandosi anche nella consapevolezza che da essa potranno derivare più sconfitte che vittorie, più afflizioni e delusioni che sereni e gioiosi momenti di vita, e che persino una morte straziante o ingloriosa potrà sigillare l’impegno di chi umilmente ma indefessamente l’abbia intrapresa e condotta a termine. La parola della spada comporta la parola della croce, perché il cristiano deve usare la spada per incidere nella carne, nella psiche, nella mente e nel cuore di fratelli e sorelle, spiritualmente “nemici” e talvolta anche “amici”, senza procurare loro ferite mortali o danni antitetici alla possibilità di una loro conversione e redenzione morale, civile e spirituale o religiosa, e tuttavia anche sapendo che, semmai, proprio egli potrebbe riceverne i danni maggiori. Il cristiano, nell’usare la spada, deve essere pronto a pagarne un prezzo più o meno costoso e, talvolta, persino immolando la sua stessa vita. Egli, pur in qualità di combattente fedele di Dio, potrà venire a trovarsi nella condizione del Cristo: perché tutto questo, perché il mio smisurato amore per te, Padre, deve avere come inevitabile conseguenza la mia umiliazione, la mortificazione più radicale della mia dignità umana e divina? Il Padre può non rispondere a tale angosciosa domanda, non per disinteresse o indifferenza, ma perché troppo profondamente toccato da quel lamento disperato ma gonfio d’amore, cosí profondamente toccato e devastato da quella purissima e addolorata preghiera filiale da non riuscire a trovare parole ad essa adeguate55. Non bisogna, peraltro, dimenticare che Gesù, il santo di Dio, sarebbe stato condannato alla crocifissione, su ostinata e pressante insistenza delle autorità religiose giudaiche, da Pilato, che tuttavia avrebbe voluto liberarlo, donde il monito per il genere umano a non pensare che il potere religioso e sacerdotale sia necessariamente rappresentativo della volontà divina e che non si possa morire nell’amore di Dio anche quando si venga incompresi, disconosciuti e abbandonati, proprio da coloro che più agevolmente dovrebbero interpretarne la legge e il giudizio56.
Per tutto questo, se, per i cristiani, la croce è segno e simbolo di benedizione e redenzione, per greci e pagani, come per fautori della dea ragione e di concezioni idolatriche della vita, essa non potette essere e non può continuare ad essere che segno di colpa e maledizione. Viene sempre la morte ma, con la fine della vita biologica, essa non segna e non segnerà anche la fine di qualunque domanda, perché proprio l’inabissarsi della vita nell’oscura voragine della morte fa puntualmente emergere come universalmente ineludibile l’unica domanda cui ogni essere umano è condannato a rispondere da solo, poco prima di esalare l’ultimo respiro e in termini molto diversi da quelli unilateralmente formulati da forme moderne e postmoderne di pensiero: finisce o non finisce la mia vita? L’invisibile per qualche istante, forse, diventa visibile, attestando che ogni speranza o ogni terrore di cose celesti era realmente fondata57.
Francesco di Maria
*Le note bibliografiche di questo saggio verranno pubblicate a tempo opportuno.