Per Andrea Emo il filosofo doveva essere principalmente un sacerdote, doveva essere intento a coltivare un rapporto personale, libero e responsabile ma non mediato da altri e altro, con quella impenetrabile zona di mistero cui generalmente viene riservata la denominazione di sacro. In un mondo in cui si è portati a pensare e a vivere secondo le apparenze, secondo conoscenze e valori già dati o acquisiti, dogmaticamente sottratti all’esperienza e al controllo critico individuali, il filosofo non può sottrarsi alla funzione sacerdotale di interrogarsi sulle origini e sulle ragioni delle cose, ovvero sui fondamenti stessi piuttosto che sugli aspetti fenomenici degli accadimenti storico-mondani. Il filosofo deve esercitare altresì tale funzione in senso laico e non dogmatico-confessionale, secondo approcci teologici istituzionalizzati e quindi riservati ministerialmente a questa o a quella Chiesa, il che non esclude che egli possa avere un suo personale credo religioso. Il sacerdozio filosofico, in altri termini, è realmente libero e universale, se non venga sottoposto a forme di clericalizzazione del sapere, da qualunque parte o ambito possano provenire, e più segnatamente da ambiti ecclesiastici oppure accademici1.
Solo che, nel caso specifico, il punto di approdo dell’attività filosofico-sacerdotale emiana è dato da un Dio molto strano, bizzarro, dall’identità incerta, anzi indecidibile, perché il suo nome non è quello tradizionalmente riconosciuto di Jahvè, Colui che è ovvero Colui che esiste in senso eminente ma, di conseguenza, anche Colui che fa essere, che crea esistenza e tutti i beni che necessitano alla sua perfetta realizzazione, né corrisponde al Dio uno-trinitario evangelicamente annunciato, ma è un nome che almeno in apparenza sembrerebbe collidere con il Dio-Tutto e con il Dio eterno del cristianesimo e del cattolicesimo, perché questo nome è quello di niente, di nulla, ma anche di nessuno, con cui si tratterebbe di caratterizzare la divinità come una divinità anonima, ignota, enigmatica, oscura, benché, è bene precisare, già il Dio-Tutto e il Dio eterno della tradizione cristiano-cattolica sia un Dio talmente imperscrutabile, impenetrabile, inaccessibile, da sentirsi indotto dall’amore infinito e anch’esso illimitato che lo lega alle sue creature a rivelare la sua identità almeno nei limiti in cui quest’ultime possano parteciparne ai fini della loro salvezza ultramondana.
Ora, poiché, pur sperando di non essere un avventato calunniatore di geni filosofici universalmente riconosciuti, non sono mai stato abbastanza esercitato, al pari di Andrea Emo, nell’arte diplomatica, premetto subito di aver sempre diffidato di quel sensazionalismo teoreticistico che consta di spericolate acrobazie linguistico-argomentative e di oscure incursioni logico-metafisiche nell’ambito di una comune ragionevolezza e di una limpida e sensata razionalità. Ne ho sempre dubitato pur consapevole che la teoresi è una dimensione essenziale e imprescindibile del sapere speculativo e del sapere tout court. Quando ascolto o tento di ascoltare certe esibizioni teoreticistiche di Massimo Cacciari, capisco perché, allorché egli, avendo pietà dei comuni mortali, si predispone ad usare un linguaggio più idoneo a favorirne quanto meno la comprensione sintattica e contestuale, venga altresì rivelandosi molto più abbordabile e leggero di quanto forse non vorrebbe apparire2. Fra un secolo, quando anche Cacciari apparterrà al regno dei morti, laggiù, probabilmente, nessuno riuscirà a capirlo, non perché intellettualmente più profondo degli altri morti, ma perché di essi probabilmente più morto già da quando era in vita. Si può forse essere dei viventi nel tentare di annientare a colpi di macete retorico-autopropagandistico chiunque si discosti dalla voracità sofistico-dialettica di chi si ritenga un dio solo per caso caduto nel corpo di un uomo? Altro è la genialità, difficile da emulare ma accessibile da parte di pochi o di molti per ineccepibile, sconvolgente e accecante chiarezza veritativa, altro è l’oscurantismo eristico di coloro che vengano atteggiandosi fanaticamente a superiori e inintellegibili maestri di pensiero. Ho maturato tale convincimento anche dopo aver ascoltato un’introduzione cacciariana in video del 1989 al pensiero di Andrea Emo.
Nessun intento denigratorio, naturalmente, ma solo un doveroso intento dissacratorio verso una brillante e solida ma non sacra e inviolabile intelligenza del nostro tempo. Se quel che tu ritieni di aver significato non lo sia altrettanto o abbastanza per me o per altri, da bravo e paziente maestro, non affetto da solipsismo teorico-esistenziale, dovrai adoperarti per significare ulteriormente quel che, con ogni probabilità, non sei ancora riuscito a rendere sufficientemente significante e significativo quanto meno per un numero congruo di ascoltatori e interlocutori, né potrai cavartela col dire che chi non capisce non è in grado di capire, dal momento che ci sarà sempre qualcuno che potrà obiettare che il problema non sia tanto quello di chi non sia in grado di capire ma principalmente quello di chi non è in grado di farsi capire. Ci sarà sempre qualcuno che, come l’innocente e schietto bambino della favola anderseniana, senza lasciarsi impressionare e ingannare dalle illusorie e scintillanti apparenze di una presunta oratoria regale, non potrà trattenersi dal denunciare a voce alta l’assoluta nudità del re, ovvero l’assoluta inconsistenza del suo pensare e del suo dire3.
Ora, si dà il caso che pensatori, solo per limitarci a nomi della storia della filosofia italiana, come Carlo Michelstaedter o Andrea Emo, personalità indubbiamente ombrose ed enigmatiche quantunque realmente profonde e originali del pensiero contemporaneo, forniscano ai loro interpreti più dotati di vena esoterica un’opportunità particolarmente ghiotta di autoesaltazione teoricistica, ma questo, lungi dallo scoraggiare i più umili operai del pensiero, non è certo un buon motivo per rinunciare a scoprire e a divulgare esperienze filosofiche realmente singolari e originali, per quanto ingiustamente relegate ai margini della storia delle idee. Dopo essermi occupato di Michelstaedter, tento ora di far luce su alcuni degli aspetti più caratteristici della tematica di Emo, sempre naturalmente a beneficio di coloro che non sarebbero in grado di capire se non cose quanto più limpidamente possibile comprensibili. Ma devo subito premettere che la teoresi di Emo è molto diversa da quella di Michelstaedter, nonostante le apparenti affinità che sembrerebbero ad essa accomunarla. Se infatti il filosofo goriziano ricorre alla teoresi come ad uno strumento logico-metodologico di chiarificazione analitico-razionale di alcuni delicati nodi esistenziali oltremodo concreti e significativi, come ad esempio il rapporto tra l’io passivo, puramente ricettivo e ingenuamente asservito ai condizionamenti storico-sociali o a condizionamenti comunque esterni alla coscienza, e l’io attivo, riflessivo, creativo sempre proiettato a chieder conto dei significati oggettivi del vivere e del pensare collettivi e a conferir senso alle cose e ai valori dati, oggettivi, precostituiti del tempo e della civiltà, il filosofo veneto vien facendo della teoresi, non metodologicamente ma virtuosisticamente intesa, il senso stesso dell’esistenza, quasi che essa fosse così poco complessa e misteriosa da potersi integralmente ridurre ai giochi logicizzanti ma eccentrici di una teoresi pur sempre irrimediabilmente soggettiva e pertanto fallibile4.
Se nel primo caso la teoresi era funzionale alla comprensione e alla ricostituzione critica di una realtà pensata e vissuta dogmaticamente e quindi al di fuori della sua ontologica eideticità, nel secondo caso ad emergere era piuttosto la pretesa, non già compostamente individuale ma esasperatamente e cinicamente individualistica, di risolvere i grandi temi dell’esistenza, la libertà, la coscienza, il bene, il male, la storia, la giustizia, Dio, il destino dell’uomo, nell’angusto e privatissimo recinto di una spesso funambolica e pretenziosa attività di pensiero. Quando, per esempio, Emo, in uno dei primi 320 quaderni pubblicati nel 1989 [5], scrive: «Io sono un buono a nulla, ciò posso anche confessarlo; ma sono appunto un buono a nulla, capace del nulla; capace di affrontare guardare sopportare il nulla», volendo significare l’inafferrabilità dell’essere e il coraggio di vivere senza ancore di salvataggio e senza porti finali di salvezza, paradossalmente viene anche azzerando qualunque possibilità di salda e coerente eticizzazione di una vita individuale ancora dispersa e atomizzata e di una vita collettiva anonima e anomica nell’Italia dei primi decenni del secondo dopoguerra.
Non si è obbligati, né teoreticamente né moralmente, a ritenere che l’attualismo gentiliano sia filosoficamente indispensabile e che, per questo, imponendo un permanente confronto con esso, non possa che essere continuamente discusso nel quadro di ricorrenti “rinascite” e “riscoperte”. Che l’essere o la realtà siano posti dall’atto e nell’atto di un pensare universale di cui soggetto e oggetto sono poli inseparabili e dialetticamente implicantisi in una loro sintesi unitaria chiamata autocoscienza, piuttosto che risultare contemporaneamente interni ed irriducibilmente esterni sia rispetto ad atti empirici di pensiero, sia anche ad un universale atto storico-umano del pensare, si è liberi di crederlo senza poterlo dimostrare perché tra pensiero ed essere non sussiste solo uno scarto dialetticamente superabile e riassorbibile, ma un vero scarto o una reale differenza ontologica. Il fatto non è solo il pensato di un pensante o di un pensare in atto, non è solo la forma astratta del pensiero sempre diveniente e necessariamente suscettibile di essere in quest’ultimo sempre ricompresa, sviluppata, risignificata in un processo senza fine. Il Logos inteso da Gentile non può avere natura e portata divine, per il semplice motivo che il pensare di Dio è inimmaginabile e neppure minimamente rappresentabile o descrivibile secondo le categorie logico-conoscitive di esseri finiti. E così anche tutte le possibili varianti interpretative dell’attualismo assoluto gentiliano, ivi compreso l’attualismo negativo di Andrea Emo, da questo punto di vista non potranno certo assumere un maggior rilievo teorico.
Che l’assoluto, anziché affermarsi, venga negandosi, in quanto l’unica possibile modalità dell’autocoscienza consisterebbe nel differenziarsi, nel darsi come altro da sé, come oggettivazione nientificante, non costituisce un’idea talmente innovativa o rivoluzionaria da immettere in un orizzonte filosofico di inedita e strabiliante potenza teoretica. Anche se fosse vero che l’autocoscienza attualistica vive e si nutre unicamente di ripetitiva e radicale negazione, donde la possibile equazione tra il biblico “Io sono” e la non determinabilità ontologica dell’Essere divino, cioè l’impossibilità di stabilire che cosa sia quell’essere di Dio, il suo porsi come campo di possibilità infinite e inaccessibili alla mente umana, donde un Dio che implichi la negazione e il nascondimento della propria identità divina, tutto ciò potrebbe essere sostenuto a parte subiecti ma non anche a parte obiecti, da un punto di vista soggettivo e non anche oggettivo, e, per questo motivo, tale Dio negativo non sarebbe affatto, almeno non necessariamente, l’unico Dio possibile. D’altra parte, il Dio che si nega, si occulta, si annienta, è anche, proprio perché Dio onnipotente, il Dio che rivela rivelandosi per quel tanto che possa sia rassicurare l’uomo sul fatto di non essere solo, sia renderlo consapevole della sua individuale incapacità di poter trascendere le verità fattuali e la stessa verità rivelata. Donde l’opportunità teoretica tanto di affermare con Andrea Emo che «credere in Dio è credere nel nulla» quanto di sostenere, con tutta la tradizione cristiana comprensiva della stessa “teologia negativa”, che credere in Dio è credere che neppure il nulla sia nulla e che del nulla Dio, cui nulla è impossibile, disponga come di un vuoto assoluto necessario alla sua creazione. Per quella tradizione, il non essere non è né coessenziale, né coeterno all’essere, né l’essere è coessenziale e coeterno al non essere, né il nulla che, essendo, è, è punto ontologico di congiunzione tra il non essere essente e l’essere che è solo in quanto comprensivo dell’essere del non essere, per il semplice motivo che tra essere e non essere, tra il Tutto e il Nulla, non sussiste una differenza logico-linguistica ma una ben più profonda e incolmabile differenza logico-ontologica che il linguaggio pur sempre soggettivo e limitato dell’uomo non può pretendere di annullare e che resta, pertanto, inesprimibile o molto approssimativamente traducibile in termini concettuali6. Peraltro, non è vero che l’Eterno, come Emo ritiene, coincida con il ni-ente, ovvero con l’indeterminato al di là di ogni ente, perché nell’Eterno anche l’indeterminato più radicale si trova ad essere perfettamente determinato e normato secondo inesplicabili leggi divine7. Bisognerebbe solo capire che il linguaggio può rappresentare per via congetturale e noumenica la realtà delle cose ma non certificarne le specifiche e oggettive modalità di sussistenza ontologica: bisognerebbe capirlo sul serio per evitare che una reale originalità di pensiero, tanto enfaticamente e chiassosamente reclamata, possa risultare poi totalmente vacua! Ma non per svalutare la ricerca filosofica di Emo, bensì solo per tentare di impedirne indebite e sgradevolissime ma già correnti sopravvalutazioni.
Si fa molto prima ad ammettere che il Dio di Emo non è quello cristiano per troncare ogni vana disputa e per procedere, ognuno, per la sua strada. Per lui, tanto Dio quanto il soggetto che lo crea, sono solo essenze logiche soggettive e individuali, non concrete e oggettive esistenze, e intanto così argomentando egli pone sullo stesso piano Dio e i soggetti-individui che vengono rappresentandolo non già per fede nella sua reale e storica esistenza ma attraverso la loro attività creativa di natura logico-astraente: «Se Dio esistesse oggettivamente, semplicemente, felicemente, come esistono tutte le cose, come esistono gli esseri viventi, come esiste l’universo, allora come sarebbe bello per noi il vivere, e come facile il morire! Ma se Dio esistesse come tutte le cose, Dio sarebbe antropomorfo, non sarebbe quella differenza essenziale da tutto e dalle creature, che deve essere (forse anche l’esistenza è una sua creatura). Dio si fa antropomorfo per morire, ma non per vivere. Questo prova in che consiste l’essenza divina; Dio non esiste come esistono le cose e le creature; esiste come esiste (o non esiste) il soggetto, come esistono i creatori»8. E’ evidente che Dio non possa esistere come tutte le cose ma questo non implica che non possa comunque esistere e, per esistere, Dio può certo assumere non solo forma ma anche natura umana senza che, tuttavia, ciò ne pregiudichi ogni altro suo possibile modo di esistere e la sua natura di unica e irripetibile divinità creatrice.
Non è, come Emo propende a ritenere, che Dio sia ontologicamente necessitato a negarsi fino a morire, in quanto Egli non muore per costrizione ontologica bensì per ontologica libertà di morire: Dio muore non perché, per vivere, debba morire, debba scomparire e annullarsi per esistere, non perché, solo morendo e autosopprimendosi, ponga le condizioni della sua risurrezione, della risurrezione della sua identità divina, ma più semplicemente perché, proprio attraverso l’offerta sovranamente libera della sua vita, possa efficacemente insegnare agli uomini a vivere. Chi vuole creaturalmente guadagnare la salvezza e la vita deve poter non solo disporsi a subire la morte come pena o castigo conseguente alla violazione dell’ordine regale dell’assoluto Essere, in origine e costitutivamente sempre partecipato all’essere creaturale e tuttavia da esso radicalmente separato, ma questa volta accettarla, il più amorevolmente possibile, come espiazione della sua rivolta originaria contro un giusto statuto divino che, se prevede una compartecipazione esistenziale degli esseri finiti alla vita universale di Dio, non ne estende le modalità fino a farla coincidere con una condivisione ontologica di quest’ultima. Principalmente per tale motivo di fondo, non può che suscitare consistenti perplessità chi, pur potendosi al momento considerare la maggiore studiosa del pensiero emiano, ha affermato: «Il Dio di Emo è innanzitutto il Dio cristiano, ed è da questa “figura storica” che egli necessariamente prende inizio e ispirazione; egli si concentra non tanto sul problema scolastico dell’esistenza o meno di Dio, quanto piuttosto sul vangelo, e specialmente sul concetto della morte di Dio. A suo avviso la chiesa post-tridentina ha la colpa di aver eliminato la morte di Cristo, concentrandosi sulla risurrezione. Il Dio di Emo è questo nucleo negativo, che deve uccidersi, scomparire e annullarsi per esistere. Può allora riconquistare se stesso come altro da sé, come conseguenza di una sorta di doppia negazione. Dio stesso, per esistere, deve morire; il vero significato dell’esistenza, nel nichilismo emiano, è la morte»9.
Di qui un significativo punto di contatto con la riflessione michelstaedteriana o, direi, di appropriazione di uno dei tratti più caratteristici di quest’ultima, secondo la quale l’essere è finito, compiuto, presente, non soggetto ad alcun mutamento, ad alcun divenire, come avviene nell’ordine delle cose, dei princìpi, dei valori, pensati in forme sempre mutevoli ed epistemicamente espansive, e secondo la quale tale compiutezza e tale presentificazione e totale autosufficienza del vero, vengono resi possibili e attuali attraverso un atto definitivo dell’io che, tra le abissali volute di una intensa e inflessibile teoretica interiorità, può giungere a impossessarsi della morte trasformandola in un momento, anzi nel momento stesso che sugella la vita. L’io, che non si lascia distrarre dalle illusioni e dalle apparenti e rassicuranti conoscenze della cultura occidentale, è quello che punta a svelare l’essenza e il senso originario quanto indefinito e indefinibile della verità mai data ma permanentemente pensata, intenzionata, significata, del proprio esserci, solo in virtù di una solitaria e radicalmente solipsistica attività critica di eidetico approfondimento valoriale, che è come un fuoco in cui venga adamantinamente forgiandosi l’identità unica e irripetibile dell’individuo.
Direi che questa posizione teoretica sia accolta in blocco nella stessa teoresi emiana. Dopodiché, per quanto riguarda la più volte sottolineata originalità dell’emiano attualismo negativo di contro all’attualismo positivo gentiliano10, bisogna capirsi anche a costo di irritare i molti e illustri esponenti della fiorente scuola metafisica veneta. Io sono colui che è: l’essere è e non può non essere. Ma che cosa è l’essere e in che senso, di conseguenza, non può essere il contrario di quel che è pur potendo corrispondere ad un ventaglio ontologico di possibilità ancora non esplicitate? L’essere è certamente non solo quel che è ma anche quel che può o potrebbe essere nel suo stesso processo di autodeterminazione e quindi di autonegazione fino a coincidere con il nulla inteso come radicale impossibilità di essere ma anche come campo astratto di infinite possibilità. L’essere è l’indefinito, l’indeterminato indeterminabile, tutto quel che non è ancora o non potrà mai essere, né potrà mai essere definito e significato, e la verità dell’essere è la verità dell’impossibilità conoscitiva dell’essere nella totalità delle sue determinazioni, non però necessariamente la verità dell’insussistenza o dell’inesistenza dell’essere stesso, là dove il cammino dell’essere non può riflettersi che molto imperfettamente nel cammino del logos umano e nei paradossi di un logos umano che li genera solo perché finito, non nel senso di compiuto e di perfetto, ma nel senso di debole e incapace. In tal senso, il pensiero filosofico è fede, vale a dire esperienza immediata della realtà dell’impossibile, di ciò che trascende ogni possibilità, anche se l’uso della fede del pensiero filosofico in tal senso appare unilaterale e dogmatico, potendosi dare del pensiero filosofico anche un diverso uso, quello per cui possa farsi esperienza intuitiva di una realtà dell’impossibile, in cui, di trascendimento in trascendimento anche l’impossibile venga percepito quale ontologica possibilità di un’infinita ricchezza di senso che venga a trionfare conclusivamente su qualsivoglia negazione o autoannientamento dell’essere stesso. Ciò implica che, se l’essere è vita che, per sua stessa ontologica necessità deve convertirsi in morte, per poi risorgere e riaffermarsi come esistente, questo viene a denotare solo una possibilità del manifestarsi e del negarsi dell’essere, non già tutte le sue reali e ontologiche possibilità. La vita divina si nega e si converte in morte ma solo nel senso che la vita divina faccia libera e salvifica esperienza della morte, salvifica non per sé come Essere essente ed assolutamente esistente ma per gli esseri empirici come esseri contingenti e relativamente esistenti, restando tuttavia vita, potenza primaria e inestinguibile di vita, anche sulla morte, potenza subordinata e anzi funzionale alla prima.
Da un punto di vista cristiano, il Logos è la Ragione omnisciente di Dio, di un Dio personale, e quindi capace di non perdere mai il contatto con gli esseri creati, e trascendente ad un tempo. L’origine intemporale e perciò immodificabile della verità, di cui, tranne che per la parte di essa rivelata da Dio stesso, le creature partecipano imperfettamente e nei limiti delle loro capacità di esseri in vario grado finiti, è rinchiusa e protetta nella mente di Dio, che pertanto ne è assoluto Signore e ne dispone sovranamente senza doverne rendere conto ad alcuno, a differenza della libertà che, sebbene anch’essa dono divino, trova sapientemente la sua origine tanto negli uomini quanto negli angeli. Donde l’impossibilità di discettare in termini rigorosi dell’essere e del nulla, di vita e di morte, di Dio esistente e Dio diveniente, come se filosoficamente, teoreticamente, su questi temi potesse mai raggiungersi anche solo un piccolissimo barlume di verità per via gnostica e non esclusivamente alla luce di verità date solo nelle leggi di Dio, nei suoi comandamenti e nei suoi precetti, nei suoi insegnamenti evangelici, nelle sue promesse come nelle sue minacce biblico-evangeliche. Non è che il ragionare laico di cose religiose non abbia i suoi diritti. Tutt’altro! Ma il ragionare laico mosso da intenti sensazionalistici e da esaltazioni intellettualistiche che non consentano più di tener ben distinta, per qualunque ambito di ricerca, la via della ortodossia da quella della eterodossia, ovvero la via della verità da quella dell’errore, dell’epistème da quella della opinione, e non intendo dire anche della convergenza da quella della divergenza ambedue presenti in una ricerca non avventurosa della verità, non può essere altro che un ragionare arbitrario e destituito di fondamento e non giustificabile neppure dall’ipse dixit di qualche celebre autorità accademica. La filosofia non deve lasciarsi catturare dalle regole del mercato ma neppure dalle regole umorali di un mercato accademico notoriamente soggetto ai vezzi e ai capricci della presunta genialità che vi circola.
La salvezza, d’altra parte, solo illusoriamente può risiedere nella conoscenza illuminata della verità, dal momento che, almeno per i cristiani, anche ammettendo che la verità sia perseguibile per via esclusivamente gnostica, la salvezza è unicamente nel fare la verità e nel farsi della verità, che è probabilmente quello che intendeva sant’Ireneo quando non esitava ad affermare che «la vera gnosi è la dottrina degli Apostoli»11. Tanto la teoresi, in quanto modalità di ricerca, che la metafisica, in quanto essenziale direttrice dell’indagine filosofica, vanno preservate da un uso logico-linguistico eccessivamente consumistico, perché se la teoresi perde o smarrisce l’essenzialità della sua funzione chiarificatrice e la metafisica viene a configurarsi come uno spazio di comunicazione e di confronto in cui rischia di prevalere persino il ragionamento o il discorso meno sensato, è molto probabile che non si renda un buon servizio alla causa della verità. Così, in un certo senso, risultano certo intellegibili, anche se non incontrovertibilmente inconfutabili, taluni importanti pensieri emiani, come ad esempio quello per cui il nulla, in quanto esso venga esprimendo la continua negazione dell’essere nelle sue determinazioni, obiettivazioni, opposizioni a se stesso, e implicando la non sussistenza di alcun ente insieme tuttavia alla sua pur finita e circoscritta esistenza, «è terrificante, ma non è mai preoccupante e inquietante come l’essere. Il nulla è la salvezza nei confronti dell’essere – l’essere che è la perdizione»12, o per certi aspetti quelli ancor più problematici e unilaterali per cui «l’evidenza è la verità del Diavolo, così come l’oscurità è la verità di Dio. Il Diavolo è nascosto nell’evidenza, così come Dio si rivela ed è evidente nell’oscurità»13 ed «è strano ad osservarsi come tutto abbia sempre la tendenza a trasformarsi nel suo contrario. Aspiri alla realizzazione del suo contrario come al fine per il quale è sorto»14. E ancora: «L’immediato è l’inesistente. Esiste tutto ciò che è cosciente»15, cui però si potrebbe applicare la stessa considerazione contenuta in un altro pensiero: «L’assoluto è ciò che è impossibile affermare ed è impossibile negare – appunto perché assoluta affermazione e assoluta negazione si trasformano l’una nell’altra, e non possono essere l’una senza l’altra»16, dal momento che sarebbe altrettanto possibile affermare in modo veritiero che se esiste tutto ciò che è cosciente, anche l’immediato di cui si abbia o si dia coscienza è esistente. E quindi, più in generale, la vita che è opposta alla morte, l’amore all’odio, la pace alla guerra, pur avendo in generale la tendenza a trasformarsi nel loro contrario, costituiscono semplici paradossi di tipo scolastico resi possibili non solo dalla finitezza del pensiero ma anche dalla naturale, indisciplinata flessibilità del linguaggio capace di adattarsi agli usi più diversi ed eccentrici dell’intelligenza umana.
A seconda del contesto discorsivo di riferimento, se esso venga formulato con adeguato rigore logico-linguistico e sufficiente precisione terminologico-lessicale, sarà infatti possibile chiarire e rendere inequivocabile il significato e non di rado il senso stesso dei propri assunti, mentre è solo da un uso ambiguo, spesso intenzionalmente generico ed equivoco, come accade talvolta nello stesso Emo e in tanti suoi emuli ammiratori odierni, che può poi generarsi l’effetto-sorpresa di un ribaltamento di modi più ordinari e comuni di pensare e di parlare. Ma, è bene dirlo con molta franchezza, certe operazioni linguistiche volte a suscitare scalpore o addirittura scandalo, per esteticamente spettacolari che possano apparire, non hanno mai costituito, nella storia della filosofia occidentale, né il fulcro centrale e più significativo dell’indagine filosofica, né il mezzo più efficace per dar luogo ad impegnative e originali riflessioni di ordine metafisico. Talvolta, possono risultare analogicamente utili e, per esempio, possono consentire di sostenere che non solo Dio ma la stessa storia del pensiero possono conoscersi e trovare la loro vera identità non tanto per quel e in quel che essi hanno detto e prodotto, quanto per quel che ancora non hanno né detto, né prodotto, nel primo caso negli e con gli universali libri della Parola di Dio, nel secondo nei e con i trattati e le opere di filosofia, ma potrebbero dire e produrre, potrebbero, nel caso della filosofia con l’avallo divino, continuare a creare infinitamente.
Pertanto, anche nel caso di Emo, se l’intenzione è realmente quella di valorizzarne il pensiero, altre sono le strade da percorrere, altri i temi filosofici su cui eventualmente cimentarsi. Si potrebbe cominciare dal modo in cui avrebbe caratterizzato se stesso nel quaderno9: «Andrea Emo, persona di poco fondamento, inetto a qualunque cosa, con qualche vena di pazzia. Con tutto ciò, qual è la cosa che io amo di più al mondo? Me stesso»17. Io prenderei sul serio questo autoritratto, senza pensare di doverne cercare un significato particolarmente recondito e originale, anche perché è stato ormai accertato come il personaggio, molto sincero e schietto, non amasse destinare al pubblico i suoi scritti, specialmente quelli che ne riguardassero la personalità sotto il profilo psicologico e caratteriale. Di poco fondamento può stare per molto soggettivo, tanto sul piano gnoseologico quanto su quello morale, inetto a qualunque cosa può stare per incapace di svolgere in modo disciplinato e proficuo un qualunque compito di vita o di svolgere con rigore e puntualità una qualunque funzione di ordine affettivo e sentimentale, sociale o politico, intellettuale o filosofico; con qualche vena di pazzia, potrebbe alludere ad un carattere e a un temperamento oltremodo umorali, spesso instabili, talvolta intrattabili. Infine, la conclusione di questa articolata descrizione, viene colta coerentemente nell’amor proprio o, in questo specifico caso, amor di sé come espressione di autonomo ma anche individualistico e trasgressivo comportamento umano. Come è stato acutamente notato, a individuare nell’amour propre o de soi un amore smisurato per se stessi virtualmente presente in ogni individuo che rischia di esserne allontanato in modo irrimediabile da Dio, era stato nel ‘700 il teologo e filosofo francese Pierre Nicole, per il quale l’amor proprio corrispondeva ad una vera e propria “facoltà del peccato”, ovvero «il nucleo originario da cui si diramano tutte le passioni. Tra queste, Nicole insiste in particolare sul “desiderio di essere amati”, ossia l’orgoglio, il quale, al di là delle diverse determinazioni empiriche (dalla semplice autostima dei molti al piacere nell’essere temuti dei grandi), si configura come “la più generale”»18.
Ma, proprio nascendo da un confronto con gli altri, l’amor proprio, da sentimento autoconservativo, rischia continuamente di degenerare, come spiega Rousseau, in quanto «si configura come sentimento sociale ed è quindi subordinato all’opinione … appena, infatti, si prende l’abitudine di misurarsi con altri ed uscire da se stessi per assegnarsi il primo e il miglior posto, è impossibile non provare avversione per tutto ciò che ci impedisce di essere tutto»19. Ora, scrive Emo, nonostante questa natura bizzarra e tendenzialmente anarchica della sua personalità, la sua intelligenza non è andata incontro ad un clamoroso fallimento, per il semplice fatto che l’intelligenza non è riducibile a intelletto, a conoscenza e a ragione20. Non è cioè un’intelligenza totalizzante ma dotata di diverse possibilità esplicative e soprattutto è un’intelligenza la cui principale possibilità esplicativa è quella di scavare nella realtà che le è più vicina, quella del proprio io, della propria individualità, dove il riecheggiamento del tema centrale michelstaedteriano è palese, senza cercare il consenso o il favore del pubblico, anche perché il pubblico ama il privato fino al punto che possa diventare pubblico e universale ma restando privato. E questo perché l’unica forma vera, possibile di universalità, è quella individuale, privata. D’altra parte, il pubblico o il popolo non possono essere universali, se non diventando “nazione” cioè individualità, identità, dunque universalità, oppure cercarle nei grandi e singoli geni creatori21. Peraltro, ogni individuo non può comunicare con altri individui, se non limitandosi a raccontare, a descrivere, a raffigurare o a dipingere come su una tela pittorica il ritratto della sua vita, quel che vi ha trovato in modo inatteso o che, pur atteso, non vi ha trovato.
Questi sono, a parer mio, alcuni dei passaggi più veri, più limpidi e profondi della teoresi emiana, al di là del grado di condivisibilità che si ritenga di dover loro riconoscere, e su essi viene essenzialmente basandosi l’originale funzione della filosofia, che non è quella di prendere atto, sulla scia di una scienza moderna atta a misurare, a quantificare le cose e a spiegare sperimentalmente le modalità di funzionamento dei fenomeni, che si danno cose o realtà inconoscibili ovvero non traducibili nell’esattezza oggettiva delle leggi scientifiche e pertanto inaccessibili al pur penetrante sguardo filosofico, ma quella di tentare di andare ancora alle origini e alle radici delle cose, come per molto tempo avevano fatto i filosofi dell’antichità e dell’età di mezzo, sapendo che solo la conoscenza delle origini e delle radici, di intemporali modelli normativi e di princìpi arcontici, intangibili ma carichi di energia spirituale che, pur avvolti in una fitta coltre di enigmatica indeterminatezza, presiedono alle dinamiche delle cose e degli esseri esistenti, potrebbe poi consentire di vivere non per soffocare sotto il peso e i danni dovuti all’accumularsi di verità illusorie e menzognere su contesti storico-esistenziali in apparenza sempre più progrediti ed evoluti, ma per liberarsi dalle loro ormai micidiali contaminazioni tossiche che sembrano condannare il genere umano, ovvero gli individui che lo costituiscono in una comune seppur differenziata e frantumata umanità, non solo alla perdita irreversibile della propria identità ma alla speranza stessa della propria sopravvivenza.
Viene profilandosi, come si comprende, una concezione antimoderna, aristocratica ed elitaria e, per esser chiari fino in fondo, antidemocratica, della vita e del sapere: «Noi forse scriviamo per una minoranza di … eletti; ma non democraticamente, perché eletti dall’alto, e dall’altro. Non dai loro simili, come prevedono le nostre costituzioni democratiche, appunto perché essi non hanno dei simili22. Ed essendo consapevole che pensieri come questo sarebbero sopraffatti e annientati da turbe chiassosamente vocianti di popolo demagogicamente e opportunisticamente educato a valori non meditati di libertà e uguaglianza, Emo opta per una guerra di trincea da affidare alla scrittura, di cui dà una definizione semplicemente magnifica e suggestivamente evocativa: La scrittura è la voce incomparabile del silenzio. La sua sonorità è l’eco di tutti i silenzi; un silenzio di cui niente interrompe la loquacità. Un discorso in cui la vista si è sostituita al suono, e l’astrazione si è sostituita alla rappresentazione visiva»23. La scrittura come guerra di trincea, non solo perché verba volant, scripta manent, ma soprattutto perché l’attacco alle falsità del mondo, all’inautenticità del pensare e del vivere, deve valere gramscianamente für ewig, per sempre, per l’eternità e nell’eternità perennemente presente della coscienza del sé. Infatti, «uno scrittore è tanto più grande e tanto più interessante, quanto maggiore è il suo coraggio di confessare quello che egli è veramente, di confessare la vera natura e qualità del suo carattere. La maggior parte delle persone parla e scrive per nascondersi; lo scrittore dovrebbe essere quell’uomo di eccezione, che scrive per manifestarsi, per mettere le cose a posto e dire effettivamente quale è la realtà. Solo chi è sincero, chi ha il coraggio di manifestare quello che egli è (o quello che gli altri, o che le cose sono), può sperare che altri si riconosca in lui»24.
Come si vede, nel momento in cui, allontanandosi dall’angusto porto di una teoresi strettamente e grevemente logicistica, in cui non di rado risultino interscambiabili il piano logico-gnoseologico-ontologico e quello ontologico-teologico, ossessivamente quanto gratuitamente gravitante intorno all’identità di essere e nulla, al configurarsi delle realtà storico-empiriche come autonegazioni dell’assoluto, dell’essenza divina implicante la sua inesistenza, nel quadro di un uso disinvolto e talvolta avventuroso e spericolato del linguaggio e della logica di matrice gentiliana che difficilmente potrebbero superare indenni il vaglio dei controlli e delle contestazioni più aggressive della contemporanea filosofia analitica del linguaggio, la teoresi emiana viene prendendo il largo, distendendosi ed esercitando la sua vista metafisica verso paesaggi tematici via via più nitidi, articolati e vivaci, nonché muniti di più familiari e riconoscibili tonalità etico-esistenziali, anche il discorso filosofico che ne consegue viene assumendo maggiore fluidità e una più attraente e persuasiva valenza teorica, e il grande mare metafisico in cui viene protendendosi audacemente la navigazione di quel nocchiero solitario che è l’individuo irriducibilmente solo è quello in cui questi, nella sua incomprimibile soggettività, prova a capire se la rotta più giusta da seguire sia effettivamente quella di chi si chiede perché l’essere e non il nulla oppure quella di chi, capovolgendo la domanda, ritenga altrettanto se non più plausibile domandarsi, visto che comunque sia pure per qualche attimo esistiamo, perché il nulla e non l’essere.
La navigazione della ragione larga e più comprovabile intersoggettivamente, a differenza di quella della ragione più ristretta e unilaterale, porta anche a dubitare che se l’Essere è pura impossibilità, questo significhi che un’apertura a Lui coincida sostanzialmente con un’apertura al nulla, anche perché, in quel caso, il nulla sarebbe l’essere, l’irrazionalità sarebbe il fondamento del pensare e dell’agire, il non senso la cifra del vivere, inducendo piuttosto a riflettere sui sensi razionali misteriosamente evocativi su quell’ontologico non poter essere dell’Essere che, per il fatto stesso di definirlo così, in qualche modo e in qualche senso deve pur essere. Per questa stessa ragione, si potrebbe ritenere meno scontato il fatto che «non solo i sistemi filosofici, ma anche il senso comune contemporaneo», vivano «nella certezza che “l’essere venga dal nulla e torni nel nulla”»25. Si può certo non conoscere l’identità più privata e recondita dell’essere, ma non si può dubitare che l’essere possa non essere, giacchè anche in questo caso l’individuo avrebbe ugualmente la certezza che qualcosa l’essere debba pur essere. Il problema è di stabilire se l’essere, quale che sia la sua natura e la sua consistenza ontologica, abbia un senso trascendente, che non ne reciderebbe i legami con l’immanenza, oppure un senso meramente immanente che potrebbe implicare un senso di trascendenza solo al suo interno, riducendosi di conseguenza a trascendentale.
Ora, si è sostenuto, che in Emo sia ben presente una religiosità molto accentuata, anche se essa non sarebbe incentrata su Dio-Assoluto, su Dio-Tutto, su Dio-vita, ma, al contrario, su Dio-Relatività diveniente e nullificante, su Dio-Nulla, su Dio-morte, che è un ragionamento paradossale che fa impazzire i pensanti credenti non perché necessariamente incapaci di accedere alle sublimi profondità del sapere gnostico, ma semplicemente perché con l’ortodossa o tradizionale o teologicamente consolidata fede cristiana e cattolica, certe stravaganze metafisiche che alcuni filosofi à la page qualificano boriosamente come prodotti di un serio e rigoroso pensare, non hanno assolutamente nulla a che fare. Se così realmente fosse per Emo, sarebbe un peccato, perché, basta andare un po’ al di là della sua palude teoreticistica, per rendersi conto della originale profondità della sua riflessione filosofica. Ma questo, beninteso, non scaturisce dal fraintendimento del complesso rapporto tra identità e differenza, tra universale e particolare, ovvero dall’intendere tali due termini come necessariamente contrapposti, quanto dalla consapevolezza che la realtà, l’essere o l’universalità, non sono mai interamente riducibili all’atto idealizzante o fenomenologico-intenzionale dell’individuo, sussistendo bene, nella loro dimensione ontologica, anche al di là della coscienza intenzionale ed eideticamente rappresentativa di quest’ultimo.
Che poi l’universale possa essere anche un travisamento del particolare e dell’individuale e il particolare una fuga dall’universale e dall’identitario, è altresì possibile, ma esiti degenerativi di tal fatta sono possibili solo nell’ordine di ciò che è liberamente voluto dagli uomini, non nell’ordine delle cose ab aeterno decretate da Dio, di cui l’individuo può pensare quel che vuole ma che l’individuo non può pretendere di catturare e schiavizzare nelle sue categorie logico-interpretative. Da un punto di vista evangelico e cristiano è semplicemente un’eresia e, laicamente parlando, una fesseria, la solenne affermazione emiana: «La verità è sempre doppia e ambigua. Nulla è meno sincero, semplice, univoco, identico ed evidente della verità. La verità non potrebbe vivere, cioè essere, se non fosse ambigua, se fosse solo identità ed evidenza. Ogni parola degna di essere Verbo ha sempre due significati»26. La parola del verbo divino, di Cristo, non è doppia, non è ambigua, non ammette esitazioni, se non nella incapacità dell’intelletto credente o non credente di accostarvisi con umile e sapiente linearità.
Nella concezione emiana dell’individualità non prona a paradigmi oggettivistici di carattere conoscitivo e scientifico, etico o religioso, sembra esserci posto solo o prevalentemente per valori di libertà e responsabilità, non anche per scelte deliberatamente sbagliate e aberranti, per eventuali disvalori di vita morale. Ma, se da un lato, l’attivismo o l’attualismo etico individuale emiano sembra ben recepire un fondamentale principio assiologico di derivazione biblico-evangelica, nel senso che il compito di cercare la verità della vita non nelle cose esteriori, nei fatti e negli eventi mondani, ma nella propria interiorità, in cui si tratta di far emergere le essenze eterne di contro alle apparenze transitorie, è un compito fondamentale assegnato all’individuo da Dio in ragione di quello stesso dono divino, la vita, il primo dei beni elargitogli e di cui deve dunque essere personalmente responsabile, dall’altro, proprio la tendenza a discettare intellettualisticamente sull’essere o non essere di Dio stesso, sull’identità immobile e compiuta o diveniente e autonegatoria di Dio stesso, sulle modalità logico-ontologiche in cui il divino possa essere pensato e vissuto dall’individuo, piuttosto che a riconoscerne con semplicità di fede e di spirito l’esistenza, l’onnipotenza e l’infinito amore, si pone in contrasto con il connesso dovere evangelico di far fruttare i talenti divini allo stesso individuo divinamente elargiti non perché esso si attardasse in astrusi e complicati ragionamenti circa la struttura ontologica della realtà divina ma perché si adoperasse prontamente per farli fruttare conformemente ai comandi impartiti e rivelati non esotericamente ma essotericamente da Dio agli individui attraverso il suo Cristo. Non basta proclamare la fede per farne poi un uso discrezionale, perché la fede consiste non già nel culto di verità arzigogolate bensì nella professione di verità rivelate e suscettibili di commento assertivo e non interlocutorio o, tanto meno, inquisitivo. Che è esattamente il contrario di ciò che, troppo spesso accade, nella riflessione certamente legittima e a tratti anche suggestiva ma altrettanto chiaramente non cristiana del conte Andrea Emo: «La luce è il supremo mistero; la luce, vetta delle sensazioni, è, per la razionalità, la massima oscurità, tanto più oscura quanto più lucida. La meravigliosa luce che illumina il mondo, alla cui perfezione nessun inno di lode potrà elevarsi, immagine e traduzione per così dire luminosa dell’attualità; questa meravigliosa luce è l’invenzione suprema del nostro sistema nervoso, il culmine della sua gloria. Il nostro sistema nervoso traduce in luce (in ogni sensazione vi è qualcosa di luminoso) oscure e cieche forze dell’universo, nascoste per sempre alla nostra comprensione, nascoste appunto dalla luce. Ma questa luce trionfale, inconfutabile e divina, non è forse con la sua sublime affermazione (una luce che diviene oscurissima per l’intelletto che vuole capirla), non è forse la smentita alle teorie del nulla, alle teorie secondo le quali soltanto riducendo tutto alla oscurità, tutto alle tenebre, possiamo ritrovare noi stessi, la nostra pace, la nostra attualità, la nostra luce interiore? O forse questa luce è la più alta esplosione della negazione di sé o dell’essere negati (negazione di sé dell’assoluto della vita)? Questa esplosione è l’attualità della luce – infatti, la luce è pura soggettività inobiettivabile»27. Se questa luce è così complicata da decifrare, da intendere, da capire, come sarà possibile poi ricondurla al Dio di Gesù Cristo?
Non si vuol certo negare che la fede non debba essere pensata, che essa non possa o non debba essere pensosa e inquieta, ma ritengo già poco consequenziale l’aggiunta successiva: «Il credente, in fondo, – potremmo parafrasare così Agostino – è un povero ateo, pieno di domande, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere». Ecco, non penso che il credente possa definirsi “un povero ateo, pieno di domande”, intanto perché chi è pieno di domande non dev’essere necessariamente un ateo e poi perché è improprio parafrasare in tal modo il credente: «potremmo parafrasare», ma non dovremmo. Sto alludendo all’arcivescovo-teologo Bruno Forte che, essendo un grande ammiratore di Emo, notoriamente convinto di poter identificare il nulla con il paradiso o l’inferno28 ne scrive entusiasticamente in questi termini: «Andrea Emo, semplicemente, capovolge la grande idea di Gentile: l’atto puro, l’atto per il quale tutto viene pensato in un istante, non è altro che il Nulla. Andrea Emo è il sacerdote del Nulla. Vi leggo, innanzitutto, una sua paradossale preghiera: “Concedici, o Signore, i paradisi del Nulla, i giardini della tua primavera. Signore che fai della notte un mattino, il mattino che paghiamo con le monete luminose degli astri, astri della notte, guida degli erranti, degli erranti verso l’infinito, che cos’è il cielo se non l’infinita via verso il nulla? E che è il nulla, se non un ritorno, il Tuo ritorno? Che cos’è l’infinito se non un ritorno?”»29. Paradossale preghiera? La preghiera non è mai paradossale, perché la preghiera paradossale, cioè contraddittoria, insensata, irrazionale o irragionevole, non è preghiera ma blasfemìa. E, in effetti, la fede tutta filosofica, e anzi filosoficamente unilaterale, di Emo è una fede senza preghiera, una fede degna di quanti ambiscono ad essere lodati più dagli uomini che da Dio.
Ma un uomo di Chiesa come Forte, non meno possidente d’origine di quanto lo fosse Emo, è molto più blasfemo del filosofo veneto, quando scrive, ammirato, che questi «ci dice che tutto non è che un precipitare nel nulla. E sapete qual è, secondo lui, il vero vangelo del Cristianesimo? Egli paradossalmente afferma: il Cristianesimo ci ha annunciato questa unica, fondamentale verità: che Dio muore, che Dio è la rinuncia a Dio, che non c’è nessun Dio, e che l’avvenire di Dio sarà, come il suo passato, l’infinito negarsi di Dio. “Dio – cito testualmente – è la rinuncia a Dio. L’assoluto è la rinuncia all’assoluto”, perciò: “Il Dio negativo”»30. Lo so, è molto penoso, ma la Chiesa italiana, di cui Forte, attratto più dagli accademici che da Dio, è solo un esempio indiziario, è ormai sintonizzata su questa lunghezza d’onda: ormai purtroppo dimentica che «quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio» (1Cor 1, 27-28), e che «Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti», anche se sapienti e intelligenti dovessero prosperare in seno alla stessa Chiesa (1 Cor 17-25).
In realtà, la verità del cristianesimo non è affatto, come ama giocosamente e non tragicamente fraintendere il conte Emo, nella morte di Dio e di ogni assoluto, nella rinuncia divina a Dio stesso e all’assoluto da lui impersonato, o ancora nell’assenza di Dio oppure, infine, in un Dio puramente negativo traducibile in un Nulla cosmico ontologicamente inafferrabile, che sono tutte immaginarie creazioni metafisiche di cui, pur suggestive ma totalmente prive di fondamento dottrinario e teologico, vanno sempre matti editori ed accademici. La verità del cristianesimo non consiste nell’annuncio di un Nulla originario, in cui inizio e fine, Dio e uomo, verrebbero comprimendosi, e su cui «Emo non smette di interrogarsi»31. Le Sacre Scritture non dicono che in principio era il Nulla, dicono esattamente il contrario: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. … Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: … E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; … Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato». Così recita il Prologo del vangelo giovanneo32: è una vera lezione teologica, alla cui luce l’emiana interpretazione nichilista dell’essere e della vita appare completamente insostenibile e rispetto a cui, anzi, risulta oltremodo deformante e manipolatoria. Poi, i Cacciari, i Donà, gli amici del filosofo veneto sono naturalmente liberi di dire quel che vogliono e di distribuire patenti di imbecillità a chi non concordi con le loro valutazioni, ma il credente cristiano deve sapere che Dio è tutt’altro che un nulla impersonale, essendo non solo vita e vita in abbondanza, non solo concreta vita carnale e accecante fonte di luce, ma addirittura vita teneramente paterna (Dio-Padre), vita fedelmente e amorevolmente filiale, nel quadro di un vivificante rapporto d’amore che viene implicando solo la possibilità della vita, non certo la tragica ineluttabilità della morte.
Qui Dio, in principio, non è il nulla, di cui è e resta signore fino a poterne estrarre persino la vita, non è negazione o autonegazione, ma luce, vita, amore, assoluto bene che, proprio perché assoluto, è ontologicamente e potentemente predisposto a prevalere sempre e comunque persino sulle tenebre, sulla morte, sul male, sulla menzogna e sull’odio che coloro che, ostinandosi a parlare e ad agire da creatori pur in qualità di semplici creature, tentano di propalare nell’unico mondo, quello mortalmente terreno, in cui vorrebbero essere celebrati come individui geniali, eroici e gloriosi. Peraltro, non si coglie la ratio di un continuo interrogarsi su qualcosa, il Nulla originario, su cui sia già stato emanato un decreto, cioè che per l’appunto, in origine era il Nulla in cui coesisterebbero sia pure conflittualmente l’inizio e la fine, Dio e l’uomo. Che Dio sia morto, non solo storicamente ma ontologicamente, non è qui il concetto con cui Nietzsche intende significare la perdita, il declino, la scomparsa di Dio morto e risorto, nella cultura occidentale, è molto di più: è la buona notizia del Vangelo stesso, si legge in un quaderno del 1967! Ma questo è, palesemente, un falso storico e teologico, dal momento che la crocifissione della verità è intimamente, indissolubilmente, soteriologicamente funzionale alla risurrezione della verità. Così si ritorna al vangelo vissuto e ascoltato, prendendo le dovute distanze da vangeli né vissuti, né ascoltati ma solo inventati.
La verità si lascia crocifiggere per dimostrare al mondo la sua illimitata potenza di vita, la sua capacità di schiacciare la morte, ultimo e più ostinato nemico di Dio-Cristo, e di risorgere trionfalmente da essa. Se la morte di Cristo è la verità penultima, seppur fondamentale, della fede in lui, la risurrezione di Cristo è la verità ultima, altrettanto fondamentale ma suprema garanzia giustificativa della fede, nel senso che, come spiega san Paolo, «se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1 Cor 15, 14). Quanto all’accusa mai ritrattata e rivolta dal “serenissimo” conte filosofo alla Chiesa cattolica di essersi sostituita a Cristo disattendendone la volontà e identificando la fede con la sua disciplina e la sua autorità, c’è qualcosa di vero su un piano storico-fenomenologico ma c’è soprattutto molto di falso e tendenzioso solo che si pensi al fatto che la Chiesa fu realmente, testualmente, filologicamente, istituita da Cristo e non da un suo fantasma.
Per Emo i veri cristiani avrebbero dovuto fare professione di anticattolicesimo. Ma è evidente come tutto ciò faccia di Emo un intellettuale decisamente ambiguo, soprattutto dal punto di vista etico e deontologico33. Altro che autenticità! E non è onesto tacere sul suo atteggiamento di fede manifestamente ereticale, né su altri aspetti che con la sua avversione anticattolica potrebbero avere direttamente a che fare: per esempio, sulla sua giovanile, ma forse non solo giovanile, esperienza fascista. Non è pensabile che chi partecipò scientemente, con le squadre fasciste, alla marcia su Roma e alla marcia su Padova, potesse aderire al fascismo solo nell’illusione che esso rappresentasse una ripresa e un rinnovamento della tradizione e della fede risorgimentali, tutte incentrate su un ideale di libertà individuale, popolare e nazionale, antitetico a qualunque forma di dominio politico o di autoritarismo religioso. Emo avrebbe aderito al fascismo, probabilmente, per altri motivi e sotto l’influsso di diverse suggestioni storico-culturali: a cominciare da quella derivante dall’ideologia marinettiana, a metà tra nazionalismo interventista e individualismo anarchico, tra patriottismo antisocialista e “azione distruttiva degli amanti della libertà”, e dalla connessa concezione anticonformistica degli intellettuali, il cui ruolo civile non avrebbe dovuto essere soggetto agli umori della folla e al volubile giudizio delle masse; senza dimenticare quella esercitata da un certo superomismo vitalistico e irrazionalistico di derivazione dannunziana e senza trascurare una qualche influenza del misticismo attualistico-attivistico gentiliano culminante nella concezione dello Stato etico come compimento del Risorgimento, dello Stato che ha il suo compito supremo nel garantire la vita e la libertà dell’individuo e in cui, reciprocamente, devono potersi realizzare la volontà e la libertà dell’individuo.
Ma molto più importante è rilevare che uno dei principali motivi per i quali Emo si sarebbe allontanato dal fascismo consiste proprio nella delusione in lui suscitata dalla posizione, a suo giudizio, ben poco laica assunta dallo Stato fascista verso la Chiesa cattolica alla quale sarebbe stato consentito di continuare ad esercitare il suo autoritarismo religioso, fondato su una concezione della fede non semplicemente legata alla libera coscienza individuale ma grevemente subordinata ad una «verità già pronta, definitiva, codificata, stabilita», secondo quanto segnalato da Romano Gasparotti, in una sua nota bibliografica su Andrea Emo, priva degli estremi di stampa34. Tuttavia, che l’infatuazione fascista di Emo non possa essere limitata al solo periodo giovanile, sembra potersi ragionevolmente evincere dal fatto che nel 1953 non avrebbe esitato a presentarsi alle elezioni politiche nelle liste del Movimento Sociale Italiano35. Il che sembrerebbe altresì smentire il luogo comune di un Andrea Emo esistenzialmente dedito ad una vita rigorosamente solitaria e appartata. Ma, più in generale, Emo non avrebbe mai rinnegato abbastanza il fascismo, come si evince, teoresi a parte, dal fatto che non sarebbe riuscito a trovare neppure qualche piccola ma significativa differenza tra il fascismo e la democrazia, oltre che naturalmente tra fascismo e comunismo: non per sancire la superiorità morale della democrazia su sistemi totalitari di contrapposto segno ideologico, ma almeno per segnalare che, almeno teoricamente, in democrazia ognuno può esprimere liberamente il proprio pensiero, buono o cattivo che sia, mentre i regimi fascisti e comunisti, come l’esperienza storica sta a dimostrare, non lo consentono. L’attrazione verso l’idea della mortalità degli enti, del nulla come vera cifra dell’Assoluto, è strettamente connessa, con ogni probabilità, alla giovanile e mai rinnegata passione politica per quella camicia nera simbolicamente dissolvitrice di ogni valore e ideale precostituiti, che molto probabilmente avrebbe indossato con i camerati fascisti della marcia su Roma e con quelli della marcia su Padova. Ha scritto Marcello Veneziani: «Il primo fascismo era nato e cresciuto nelle trincee della Prima guerra mondiale nel culto dannunziano della bella morte, tra arditi, teschi, camicie nere, culto degli eroi caduti. Alla fine della sua vita, a Salò, ritornò la concezione della bella morte, legata alla visione guerresca e dannunziana»36, anche se, almeno in quest’ultimo caso, la morte sarebbe stata decisamente molto meno bella.
Tuttavia, è poco probabile che l’Emo, che da giovane era stato sensibile alla esaltante e nichilistica mitologia dannunziana del superuomo, non rimanesse ancora affascinato dal tema dell’individuo mai schiavo persino dei condizionamenti storico-politici-culturali più costrittivi: uomini e donne repubblichini o fascio-repubblicani avrebbero forse inteso testimoniare, nel suo personalissimo vissuto come in quello di altri relativamente pochi “nostalgici” di un’epoca in cui l’assoluto avrebbe potuto coincidere con l’attività creatrice dell’individuo, un antico modo di ragionare in cui riemergeva il «ritorno del vecchio e irrisolto tema individualistico e superomistico (il fascismo non è tanto dottrina sociale, in senso stretto, quanto esaltazione delle virtù dei “prescelti”) che, oscurato dalle necessità del regime mussoliniano, poteva ora invece recuperare spazio. La coscienza del neofascista, peraltro, non era mai volta alla sua personale autovalorizzazione bensì alla consapevolezza che alla base dell’agire politico vi era la necessità di un “sacrificio”, sia proprio che altrui»37, la necessità di un sacrificio che consacra, che rende sacri coloro che, avendo eternizzato in se stessi il valore di un’intera esistenza, sono pronti a sigillarlo in modo definitivo con la morte.
Si tratta di assonanze troppo decise con tipici passaggi della riflessione filosofica emiana, perché possa ritenersi conveniente rinunciare ad indagare lungo il pur tortuoso versante degli intimi, forse impercettibili ma esplicativi nessi intercorrenti tra il rarefatto Andrea Emo e la ben più corposa ideologia fascista della creativa violenza individuale. E le radici della critica emiana alla democrazia risiedono ben più in questo ordine sostanziale di considerazioni che non in alcune non incontrovertibili osservazioni tecnico-linguistiche di natura filologica, nelle quali si sarebbe talvolta rifugiata l’analisi emiana per non rendere troppo manifesta l’origine ideologica della sua avversione antidemocratica. Per Emo, infatti, come spiega Giovanni Sessa, «la democrazia ha carattere epi-demico. Il termine va letto nel suo significato etimologico: la democrazia – assieme ai suoi apparati, ai suoi rappresentanti e alle sue mastodontiche istituzioni – si dispone sopra il popolo”», divenendo di conseguenza «la forma più totalizzante di super–stitio contemporanea»38. Che è una tipica argomentazione, in parte certo condivisibile, di una filosofia di origine neoidealistica e liberale che con il fascismo non avrebbe ancora smesso per lungo tempo di fare i conti, anche se la concezione emiana dell’individuo dovette apparire disarmante per astrattezza e genericità almeno ad un vecchio allievo di Gentile come Ugo Spirito che, talvolta frequentato da Emo e pur ferocemente critico verso il sistema democratico postfascista39, non avrebbe avuto verosimilmente alcuna indulgenza per l’individualismo moralmente e politicamente intimistico e ribellistico ad un tempo, e per altri aspetti non marginali anche insulso e irrealistico, proposto dal filosofo veneto. Tuttavia, l’approccio interpretativo di Emo e Spirito al problema della democrazia, per quanto in quest’ultimo molto più elaborato e articolato sotto il profilo etico-politico, sembra avere un punto particolarmente critico nel fatto che, in democrazia e solo in democrazia, quali che possano essere le anomalie, gli equivoci e i nodi istituzionali ad essa inerenti, il popolo resta tuttavia libero di votare periodicamente, di scegliere i suoi rappresentanti, di farsi rappresentare e di farsi governare40. Non sarà abbastanza, ma è il massimo di libertà e di potere che ad oggi si è riusciti ad ottenere e a garantire per la vita associata di individui e cittadini.
Quella che si è venuta qui brevemente proponendo potrebbe intendersi come una possibile ipotesi di ricerca che, se avessi forza e tempo da dedicare ancora a studi oltremodo impegnativi, non esiterei a tentare di sviluppare io stesso. Ma, intanto, una pietra nello stagno è stata gettata e, per renderlo più evidente, vorrei concludere con un’osservazione forse velleitaria ma che, nelle mie intenzioni, vorrebbe essere dissacrante: per Emo, la fede, che poteva essere solo di natura filosofica e anzi solo di una certa natura filosofica, era «coscienza del proprio nulla», ma, se ciò è vero, perché Emo pretendeva o sperava che questo pensiero fosse qualcosa di immortale ed eterno? Non era anch’esso destinato al nulla? E, se tutto è destinato al nulla, non si riaprono forse altri possibili giochi? In particolare, se tutto è nulla, perché il nulla è non l’essere? Il destino dell’individuo, per il credente cristiano, non è il nulla ma l’essere, la vita felice oppure la vita greve per l’eternità, in nessun caso qualcosa per cui egli né patirebbe, né gioirebbe. La risurrezione, contrariamente a quanto immaginava Emo, sarà risurrezione di vita oppure di morte. Certo, si potrà risorgere anche per poter morire in modo definitivo. Parola di Dio41.
Francesco di Maria
NOTE
1. A. Emo, Quaderni di metafisica 1927-1981, Milano, Bompiani, 2006.
2. Confesso apertamente, al pari di Alfonso Berardinelli anche se con referenze culturali incomparabilmente inferiori alle sue, la mia profonda antipatia per Massimo Cacciari, per l’uomo e per l’accademico-filosofo Massimo Cacciari. Anch’io, infatti, pur ritenendo la metafisica una dimensione essenziale e centrale del pensiero filosofico, sono sempre stato molto sospettoso circa gli usi, spesso disinvolti e rocamboleschi, che i filosofi di professione sono soliti farne, al punto di pensare che costoro non si preoccupino né di rischiare di trasformare i loro alatissimi e temerari slanci metafisici «in una illusoria immaginazione o in una truffa verbale, dato che si» sottraggono «all’uso di concetti empirici», né di rendere conto di interrogativi più che legittimi e realistici: «Che genere di conoscenza è quella proposta dal discorso metafisico? Su quale esperienza si fonda? Esiste, è possibile una conoscenza metafisica in forma filosofica? O invece la sola via di accesso alla metafisica è una via puramente contemplativa, più precisamente una gnosi supermentale e sovrasensibile?»: A. Berardinelli, Contro Cacciari e quella superiorità data dal gergo filosofico più astruso, in “Il Foglio” del 4 maggio 2024.
3. Meriterebbe di essere molto seriamente meditato l’articolo di Bruno Berni, “Il genio non è un lumicino”. Hans Christian Andersen e Søren Kierkegaard, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 2013, n. 3-4 pp. 979-986.
4. La teoresi di Michelstaedter è una teoresi complessa ma sincera anche se non sempre ineccepibile, quella di Emo è più complicata e pretenziosa che complessa, benché non di rado formalmente aderente a quella del primo, perché più strumentale e funzionale ad una insoddisfazione relativa ad una repressa avidità di potere piuttosto che ad una rivolta, come nel caso del filosofo goriziano, contro uno strapotere corporativo-accademico esercitato ai danni di talentuosi individui non disposti a conformarsi ad etiche formalistiche e anonime di pensiero, ricerca e comportamento. Non cito nessuno perché, a parte le intense considerazioni etiche riservate a Michelstaedter da L. Sanò, Leggere «La persuasione e la retorica» di Michelstaedter, Como, Ibis, 2011, non ho trovato scritti relativi ad una siffatta, ipotetica ma probabile, differenziazione tra Michelstaedter e Emo.
5. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, prefazione di M. Cacciari, Venezia, Marsilio, 1989.
6. Cfr. A. Coltelluccio, La presenza dell’assenza. Nichilismo e negatività del Divino in Andrea Emo, in Rivista di filosofia “Dialegesthai”, 30 dicembre 2011. Per le ambiguità, gli equivoci, le forzature spesso ricorrenti in autori di studi sul nulla, si può vedere, solo a titolo esemplificativo, un articolo di G. Perillo, Dio è “il Nulla, né questo né quello”. La via di Eckart, in AA.VV., L’ambivalenza del Nulla. Tra negazione dell’umano e apertura al divino, documento comprensivo di tutti gli interventi relativi alla tavola rotonda tenutasi all’Università Pontificia Salesiana di Roma il 26 febbraio 2009, pp. 5-14; ma esemplificativi al riguardo, anche se per vie argomentative diverse e distinte, sono anche altri scritti tra cui quelli di F. Della Pergola, Il Dio del Nulla, in PDF, 1 luglio 2016, e M. Gentile, Un nonnulla sul Nulla, 2020.
7. Questo tanto più è vero quanto più si rinunci a forzare in modo artificioso la portata dell’immaginazione oracolare e divinatoria di Emo, che, purtroppo o fortunatamente, non è «un angelo prigioniero nel tempo», ma un semplicissimo uomo totalmente libero di pensare e di volere solo attraverso il tempo: G. Sessa, La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Milano, Bietti, 2014; e relativa recensione di Luca Siniscalco, La vita di Andrea Emo, angelo prigioniero nel tempo, nel blog “Barbadillo”, 18 marzo 2014.
8. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., pp. 41-42. Una attenta e acuta studiosa di Emo, ovvero Laura Sanò, ha spiegato chiaramente che, per usare le parole di un suo recensore, il punto di approdo della ricerca emiana è che «tutto l’esistente è in realtà nulla», per cui non l’Essere ma il Nulla assurge ad Assoluto. Ma proprio questo punto di approdo, a parer mio, non è per nulla persuasivo: perché sí, ciò che esiste, viene negandosi nel suo contrario e dunque finisce, finisce per non essere più. Tuttavia, l’esistente, per quanto precaria e breve sia la sua durata, e nei limiti della sua durata esistenziale e quindi della sua esistenza, è, ed essendo pone un problema di essere, non di non essere, non di nulla. L’esistente finisce, ma finché non finisce esiste e dunque è, perché non potrebbe esistere non essendo e non potrebbe essere non esistendo. Donde, poi, possibili conseguenze teoretiche molto diverse da quelle emiane. Ci si riferisce qui al libro di L. Sanò, Il Daimon solitario. Il pensiero di Andrea Emo, con prefazione di U. Curi, Napoli, La Città del Sole, 2001, mentre la recensione di questo libro, alla quale qui si allude, è quella di M. Quaranta, in “Notiziario bibliografico, periodico della Giunta regionale del Veneto”, dicembre 2004, n. 47, pp. 19-20.
9. D. D’arpizio, Intervista a L. Sanò e Andrea Emo, il profeta dell’angoscia, in “La Difesa del popolo”, settimanale della Diocesi di Padova, 11 gennaio 2009, p. 25. Altra cosa è invece l’esperienza spirituale del nulla e della morte, il cui significato cristiamamente è nel viverla concretamente come esperienza di fede e di amore esemplari, non certo nel concepirla e nel praticarla come atto autosoppressivo o, comunque, come desiderio dissacratorio di natura autosoppressiva. Si può utilmente vedere: A. Paoli, La pazienza del nulla, Milano, Chiarelettere, 2015.
10. L. Viglialoro, Andrea Emo e i “Quaderni di metafisica”. Intervista a M. Donà, in “Il Giornale di filosofia”, 8 luglio 2007.
11. Ireneo di Lione, Adversus Haereses, IV, 33.
12. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1989, cit., citazione del 1960.
13. Ivi, anno 1960
14. Ivi, anno 1933.
15. Ivi, anno 1957.
16. Ivi, anno 1961.
17. A. Emo, La voce incomparabile del silenzio. Dai taccuini, Roma, Gallucci, 2013. Il quaderno risale al 1929.
18. A. Clemente e S. Ghelli, Amor proprio. Attualità politica di una passione moderna, in Rivista di filosofia “Lo Sguardo”, 2018, n. 27, fasc. 2, pp. 118-119.
19. Rousseau juge de Jean-Jacques. Dialogues, vol. II, Incoprom SA Genève, 1782, pp. 898-899.
20. A. Emo, La voce incomparabile del silenzio. Dai taccuini, cit., ivi.
21. Ivi.
22. A. Emo, La voce incomparabile del silenzio. Dai taccuini, cit., ivi, quaderno 344, anno 1961.
23. Ivi, Quaderno 372, anno 1975.
24. Ivi, Quaderno 18, 1933.
25. M. Donà, In principio. «Philosophia sive theologia»: meditazioni teologiche e trinitarie, Sesto San Giovanni (Milano), Mimesis, 2017, p. 199; si veda anche la relativa recensione di G. Sessa, In Principio. Filosofia e teologia secondo Massimo Donà, Centro Studi La Runa, 10 agosto 2017.
26. A. Emo, La voce incomparabile del silenzio. Dai taccuini, cit., Quaderno 250, Anno 1962.
27. A. Emo, La voce incomparabile del silenzio. Dai taccuini, cit., Quaderno 280, anno 1965.
28. A. Simone, L’apoteosi del nulla, in sito on line “Le briciole di Minerva”, 19 dicembre 2017.
29. B. Forte, La sfida di Dio, Conferenza tenuta presso l’Università dell’Insubria di Varese, in data 15 gennaio 2003, p. 3.
30. Ivi, p. 4.
31. M. Burini, Alberto e i suoi fratelli, in “Il Foglio” del 5 novembre 2009.
32. Gv 1, 1-18. Emo conosceva bene questo testo, ma l’avrebbe liberamente interpretato secondo i suoi consueti, soggettivistici canoni filosofici: R. Gasparotti, Introduzione a Andrea Emo. Quaderni di metafisica 1927-1981, Milano, Bompiani, 2006.
33. In un articolo-intervista di G. Linguaglossa del 6 gennaio 2018 a Massimo Donà, intitolato Massimo Donà sul pensiero del filosofo Andrea Emo (1901-1983), in “L’ombra delle parole”, rivista letteraria internazionale, si riconosce che è «vero che in Emo, almeno in questi quaderni del 1953, non troviamo una compiuta filosofia del Sacro né una teologia in nuce». Altra cosa è l’ambiguità di cui ha scritto M. Donà, Andrea Emo o dell’ambiguità, in “La Repubblica” del 16 dicembre 2003: «sarebbe improprio limitarsi a definire “nichilista”. Quello che emerge dalla sua ponderosa opera di scrittura non è infatti uno dei tanti pensieri negativi di cui è pur costellata la produzione novecentesca. Nulla a che fare, cioè, con una magari raffinata fenomenologia del mondo senza Dèi, nulla a che vedere con gli ormai stanchi ritornelli ancora insistentemente rivolti alla mancanza di fondamento. No, quella di Andrea è piuttosto la voce difficile, dissonante, di un filosofo che ha saputo fare della negatività il verbo paradossale di un Assoluto perfettamente “in-decidibile”. Araldo di un “inesprimibile” che non limita o zittisce, ma, al contrario, cresce e vive nella foga di una irrefrenabile manìa conoscitiva, il filosofo s’è fatto apostolo dell’ambiguità. Mai sottraendosi dunque alla possibilità dell’equivoco, sin dalla decisione di non rinunciare, pur non volendo pubblicare nulla, a riempire centinaia di quaderni con una scrittura spesso veloce e immediata ma sempre leggibile, quasi priva di correzioni o ripensamenti».
34. Di una «liaison dangereuse» del fascismo «con il cattolicesimo», che avrebbe definitivamente allontanato Emo dalla sua fede fascista, ha scritto, tra altri, D. Abbiati, Le Emo-zioni forti contro la politica dei “superstiziosi”, in “Il Giornale” del 30 ottobre 2014».
35. Per questo, è da reputare inesatta l’affermazione di Gasparotto, secondo il quale Emo «in gioventù … aveva aderito al fascismo, ma se n’era subito ritratto denunciandone le aporie e le ipocrisie», citato nella nota redazionale intitolata Andrea Emo, la forza del pensiero nascosto, in “Il Gazzettino” dell’8 novembre 2014.
36. M. Veneziani, L’ultimo fascismo cercò la bella morte, in “Panorama”, maggio 2021, n. 21.
37. C. Vercelli, A cercare la bella morte?, Appunti sull’ideologia del fascismo repubblicano, in Rivista “Patria indipendente” dell’11 aprile 2010, pp. 69-70.
38. G. Sessa, La meraviglia del nulla, cit., p. 231. A dire il vero, il prefisso epi significa sia sopra, sia in o nel (nel popolo), per cui il senso di accentuata oppressione conferito da Emo alla parola epidemia appare univoco e forzato.
39. U. Spirito, Critica della democrazia, Firenze, Sansoni, 1963.
40. Mi permetto di rinviare al capitolo su Ugo Spirito e la critica della democrazia di un mio volumetto di 35 anni or sono: F. di Maria, L’inattuale democrazia. Espressioni di filosofia italiana del novecento, Cosenza, Due Emme, 1990, pp. 81-96.
41. Gerhard Lohfink, Alla fine il nulla? Sulla risurrezione e sulla vita eterna, Brescia, Queriniana, 2020. Giustamente l’autore sottolinea conclusivamente che «il pensiero dell’aldilà e dell’eternità non deve distoglierci dalla vita terrena e dagli impegni che discendono dalla sequela di Cristo, primo fra tutti l’amore del prossimo e la gratitudine verso il Padre che ci ha donato la vita e l’intera creazione», M. Schoepflin, in “La Civiltà Cattolica”, settembre 2020, quad. 4083-4084, pp. 330-331. E’ stato scritto: «Scoperto da Cristina Campo e imposto sul mercato culturale da Massimo Cacciari, il pensatore lagunare Emo, ha coniato la più appropriata e calzante definizione del delirio teologico che conclude la parabola del mondo ultramoderno: “Dio consiste nel suo annichilirsi” (Cfr. Il dio negativo, Marsilio, Venezia, 1989, pag. VII)» e poi: «Cacciari, che si attribuisce il merito di aver scoperto e commentato la filosofia di Emo, sostiene che “lo sforzo teologico di Emo consiste nell’intuire nella Croce stessa la Resurrezione”», P. Vassallo, Andrea Emo e Massimo Cacciari, seminatori del delirio teologico a destra, in “Ricognizioni. Idee per vivere senza menzogna”, 5 febbraio 2013. E’ ancora utile precisare che Dio consiste nella sua onnipotenza ontologica ed esistenziale che gli consente di non annichilirsi nonostante tutti i tentativi angelici ed umani di ridurlo a niente; e che nella Croce non si intuisce la Risurrezione in quanto la Risurrezione, straordinaria e inconcepibile invenzione di Dio, non può essere intuita in quella Croce, che intenzionalmente avrebbe dovuto e dovrebbe decretare la morte irreversibile di Dio. In tal senso, non è possibile concordare con la critica emiana del cattolicesimo sintetizzata con chiarezza dal commento di M. Quaranta, in una sua recensione al libro di L. Sanò, Il monoteismo democratico. Religione, politica e filosofia, nei Quaderni del 1953, Milano, Mondadori, 2003, in “Notiziario bibliografico, periodico della Giunta regionale del Veneto”, dicembre 2004, n. 47, pp. 19-20, sebbene Emo si illudesse di poter riconoscere alla fede protestante una valenza religiosa e teologica più veritiera ed efficace di quella riconoscibile alla fede cattolica e si ingannasse clamorosamente nell’attribuire al protestantesimo religioso una concezione meno autoritaria e più democratica dello Stato, dal momento che, pur giustamente sottolineando la legittimità biblico-evangelica e la esclusività del potere del principe, del sovrano o dello Stato, ovvero del potere politico e governativo, nell’ordine delle realtà temporali, senza tuttavia focalizzare con sufficiente chiarezza la natura del rapporto comunque essenziale tra potere politico e potere religioso, proprio i protestanti luterani sarebbero stati i maggiori responsabili di una concezione autoritaria, verticistica, intollerante dello Stato, fino a favorire forme di vera e propria statolatria e, in particolare, l’incontrollata espansione di quello Stato hitleriano e nazista che tanta barbarie e tanti lutti avrebbe prodotto in Europa nel corso del XX secolo. Né si può tacere sul fatto che, anche nell’Italia fascista, «le Chiese protestanti» sarebbero state «viste come potenziale e pericoloso instrumentum regni del regime». E’ strano ma forse anche significativo che, da questo punto di vista, Andrea Emo non si sia mai interrogato sulla reale natura della sua entusiastica ma sommaria e unilaterale adesione al protestantesimo, nonostante gli apporti etico-teologici pur importanti e significativi che ne sarebbero derivati, non solo in senso positivo, per la cultura religiosa e per la stessa storia del cristianesimo cattolico del Terzo Millennio [Per un’analisi del rapporto tra protestantesimo e statolatria nel quadro della storia politica contemporanea, sempre validissimo resta lo studio di Paolo Zanini, Il «pericolo protestante». Chiesa e cattolici italiani di fronte alla questione della libertà religiosa (1922-1955), Milano, Le Monnier, 2019, anche se personalmente non trovo del tutto giustificate le preoccupazioni di questo illustre storico circa il fatto che proprio il non del tutto marginale fenomeno di discriminazione politico-sociale antiprotestante verificatosi soprattutto nella parte conclusiva del regime fascista, avrebbe poi influito negativamente, dopo il ’48, sulla piena applicazione del principio costituzionale della laicità dello Stato e della piena agibilità pubblica delle confessioni di minoranza]. Al contrario di quel che, in perfetta buona fede, teme Zanini, oggi la democrazia italiana è piuttosto, e spesso pericolosamente, ostaggio non solo “delle confessioni di minoranza”, ma di qualunque ambigua minoranza giuridicamente riconosciuta dallo Stato italiano. Una studiosa cattolica ha reinterpretato la figura spesso storiograficamente sottovalutata di Lutero, sia per demolire alcuni logori luoghi comuni attorno ad essa ancora gravitanti, sia per cogliervi l’origine di tutti quei nazionalismi etnici e religiosi e di quel frammentato soggettivismo teologico che avrebbero concorso significativamente, e in parte non trascurabile ancora concorrono, a quel clima di diffusa e violenta contrapposizione ideologica e politica, oltre che specificamente religiosa, che è, a tutt’oggi, non solo alla base di un fallimentare progetto di unificazione europea ma tra le principali cause di permanente riproduzione di un’etica iconoclastica del sospetto completamente antitetica a qualunque serio progetto di costruzione universalistica di forme di civiltà non fondate sulla volontà di potenza a favore di pochi ma sulla volontà di servizio a favore di molti: A. Pellicciari, Martin Lutero, Siena, Cantagalli, 2012).