Voltaire è ancora considerato dalla maggior parte degli studiosi del periodo illuministico come uno dei massimi promotori della modernizzazione e della laicizzazione del pensiero non solo francese ma europeo1, oltre che come grande critico della Chiesa cattolica e della religione in genere, intesa, vissuta e praticata nelle sue varie forme confessionali, tutte indistintamente intolleranti e reciprocamente conflittuali. Tuttavia, se certo non fu religioso nel senso confessionale del termine, Voltaire fu credente in un Dio della coscienza e della ragione, vale a dire nel Dio cui si potesse pervenire spontaneamente solo per via di coscienza morale e di intuizione razionale e non necessariamente sulla base di particolari verità rivelate dall’alto, per cui non fosse necessario dimostrare, con ragionamenti particolarmente laboriosi e complessi, l’esistenza di Dio, visto che quest’ultima era qualcosa di intuitivamente innegabile. Il Dio voltairiano era un Dio di ragione: per credere in esso non era necessario uno speciale atto di fede. La stessa immortalità dell’anima era un corollario dell’esistenza di Dio, perché se c’è Dio, che in quanto tale deve essere eterno e quindi immortale, anche l’anima da lui creata, pur soggetta alla morte a causa della sua stessa creaturalità, in qualche modo non potrà che partecipare della stessa immortalità divina in quanto, altrimenti, anche quel desiderio di felicità che è connaturato nella vita stessa degli individui, non potrebbe mai essere soddisfatto, mentre Dio non può fare le cose a caso.
E’ questo Dio, senza misteri, senza dogmi, senza enigmi impenetrabili di nessun genere, che il filosofo, come è stato definito, della raison souriante, della ragione sogghignante più che sorridente, è disposto ad accettare: l’unico Dio che non può essere oggetto né di superstizione, né di fanatismo, né di elaborato studio teologico. La fede in Dio cosí, e non era cosa di poco conto, riposava su un evidente fondamento di razionalità. In questo senso, Voltaire non fu né ateo, né materialista, come lo sarebbero stati ad esempio il barone d’Holbach o Hélvetius, e anzi, se è vero che fosse critico implacabile dei credenti di qualunque confessione religiosa (anche ebraica, islamica, ecc.), non era certo meno tenero verso l’ateismo militante del suo tempo, non solo perché ingiustificato sul piano teorico (egli riteneva, infatti, che la ragione disponesse di elementi sufficienti non per la negazione ma per l’affermazione e il riconoscimento di Dio), ma anche perché molto pericoloso, destabilizzante dal punto di vista etico e sociale2. Le masse, infatti, non erano dotate di capacità intellettuali, filosofiche, che potessero consentire loro un’autonoma acquisizione dell’esistenza di Dio, per cui, il sottoporle a un bombardamento sistematico di propaganda atea, non solo le avrebbe disorientate ma, alla lunga, le avrebbe persuase a vivere senza particolari remore di ordine morale e senza particolari riguardi per il senso della socialità, della comunità, dello Stato. Ecco come si spiega la sua celebre reazione politica a tanta diffusa pubblicistica atea: «Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo, ma la natura intera ci grida che egli esiste»3, a sottolineare appunto che, senza il freno inibitorio della religione naturale, le masse non avrebbero avuto motivo di controllare le proprie pulsioni egoistiche, di reprimere la propria aggressività nei confronti dell’ordine sociale, delle sue leggi e delle sue istituzioni, di rispettare l’autorità del sovrano o dello Stato. Voltaire non riteneva che l’ateismo fosse meno stupido e pericoloso della superstizione religiosa, com’egli stesso scrive in alcune lettere indirizzate a familiari e conoscenti e spedite tra il 1769 e il 1773, anche se non può costituire motivo di stupore il fatto che egli non ritenesse importante cogliere almeno le differenze dottrinarie intercorrenti tra le tre grandi religioni monoteistiche, e non esitasse a considerare la comunità cristiana una “setta”.
Ma, per quanto riguarda l’esistenza di Dio, l’enciclopedista francese non aveva dubbi circa il fatto che essa non fosse una questione di fede ma di ragione. In tal modo, egli, inavvertitamente, sarebbe venuto sottraendo all’avversione anticristiana e anticattolica del vasto fronte ateo della cultura laica europea una fondamentale motivazione, giacché, se era perfettamente razionale sostenere l’esistenza di Dio, diventava molto più difficile rivolgere alla cultura cristiano-cattolica l’accusa di essere sempre stata nei secoli fonte primaria di oscurantismo e di ignoranza. Era pur sempre possibile scagliarsi sui suoi dogmi, sul suo fastoso cerimoniale religioso, sulla sua mentalità spesso superstiziosa, ma sarebbe apparso ormai ingiustificabile un attacco frontale al suo impianto dottrinario, teologico e filosofico di base. Dio c’era secondo ragione, per cui almeno questo non avrebbe dovuto costituire semplicemente oggetto di fede privata ma una certezza universale che non avrebbe potuto non incidere direttamente sulla vita pubblica dei popoli e sui costumi di tutti i cittadini. Un nipotino degenere di Voltaire come Paolo Flores d’Arcais, dovrebbe prenderne nota.
Una tale concessione, ovviamente, non avrebbe potuto che favorire il cattolicesimo rispetto a ebraismo, islamismo e altri movimenti religiosi, per il semplice fatto che esso, in quanto anima fondatrice e ispiratrice della civiltà europea e occidentale, avrebbe potuto pur sempre disporre di buone ragioni per continuare a rivendicare in modo legittimo un suo ruolo, piuttosto predominante rispetto ad altre forze politiche e culturali, di artefice o costruttore dell’ethos universale del mondo. Voltaire non si rendeva conto che, per quanto in una lettera del 1767 inviata al monarca illuminato Federico II di Prussia definisse la religione cattolica, non senza esagerare, come «la religione più ridicola, più assurda e più assetata di sangue mai venuta a infettare il mondo», di fatto la sua tesi della natura razionale della realtà divina corrispondesse al fondamentale assunto teologico della dottrina cristiana del radicamento della fede evangelica nel Logos divino, cioè nella stessa assoluta razionalità di Dio, che era poi ciò che non avrebbe potuto che conferire al cattolicesimo un primato di capitale importanza: quello di aver saputo unificare intorno alla sua specifica idea di Dio, alla sua inconfondibile identità religiosa, popoli, tradizioni e costumi diversi, di aver saputo esercitare una vera e propria funzione egemonica sull’intero orbe terrestre.
Atei radicali e dichiarati come Augias, Odifreddi, lo stesso Paolo Flores d’Arcais (fondatore e direttore di una rivista che porta il nome di un romanzo di Voltaire), e altri che oggi, in regime democratico, vorrebbero confinare il sentire religioso cattolico nel privato, dovrebbero tenerla nel debito conto questa egemonia cattolica lungamente e pacificamente esercitata sulla coscienza di milioni di uomini e donne all’interno di contesti socio-politici e culturali non certo meno tumultuosi e conflittuali dell’odierno contesto democratico, ben ricordando che, almeno implicitamente, anche un autorevole maestro della moderna razionalità laica, quale appunto Voltaire, non nutrisse alcun dubbio circa il fondamento razionale della divinità che, pertanto, non avrebbe potuto essere esclusa d’autorità, in quanto matrice dei convincimenti anche cattolici, dal novero delle questioni che, rivestendo pubblico interesse, pubblicamente devono essere dibattute e risolte.
Ma, soprattutto, costoro dovrebbero sapere che, per Voltaire, lo Stato doveva avere una religione ufficiale, per quanto aconfessionale, e le altre dovevano essere solo tollerate, là dove egli era persuaso che il cristianesimo originario, ovvero il cristianesimo non ancora dogmatico, ritualistico, miracolistico, clericale e fideistico, fosse espressione esemplare della legge di natura e potesse essere assunta anche dallo Stato come fonte ispiratrice delle sue leggi. Quindi, per chi vorrebbe bandire oggi il cattolicesimo dalla società democratica, troverebbe in Voltaire, campione riconosciuto della ragione, uno strenuo oppositore. D’altra parte, come spesso accade ai grandi maîtres à penser di tutte le epoche, anche a Voltaire accadde di incorrere in taluni giudizi che di razionale non hanno nulla e contrastano in modo stridente con quei princìpi di fraternità ed eguaglianza che la rivoluzione francese avrebbe rivendicato ideologicamente ad uso e consumo della borghesia rivoluzionaria ma che, guarda caso, nella storia della cultura e della civiltà umane erano stati introdotti nel loro puro significato spirituale proprio da quel cristianesimo storico-istituzionale, da cui, secondo lui, era venuto generandosi tanto pernicioso oscurantismo superstizioso.
Nell’accennare agli infortuni voltairiani, non alludo certo alla sua feroce critica della pederastia e dell’omosessualità4, anche se tale critica oggi, nella logica dominante del volgare conformismo ideologico imposto dal pensiero unico, sarebbe come inficiata da elementi di anomalia etico-razionale. Alludo invece a giudizi molto discutibili, e anzi senz’altro censurabili, come quello per cui gli africani sarebbero stati intellettualmente inferiori e, per questo motivo, meritassero di essere stati ridotti in schiavitù, dando pertanto prova di inequivocabile razzismo, schiavismo e, per converso, di sfrontato eurocentrismo5. Ma, a dissacrare un mostro sacro del laicismo moderno quale Voltaire, è stata soprattutto una coraggiosa studiosa e storica francese, Marion Sigaut6, che non solo su François-Marie Arouet ma sull’intero movimento dei philosophes, sulla stessa rivoluzione francese, ha espresso giudizi taglienti, ancorché ben documentati, che non avrebbero mancato di essere tacciati di revisionismo. Sigaut contesta la storiografia ufficiale, vale a dire la tesi per cui «i Lumi furono un movimento redentore del popolo, … la Rivoluzione Francese fu un’insurrezione popolare, … Voltaire difendeva la libertà di espressione, … i re erano tiranni e … la religione cattolica fu barbarica. La realtà è tutto il contrario. I Lumi furono un movimento élitario e pieno di disprezzo nei confronti del popolo, la Rivoluzione una serie di colpi di Stato sanguinari e barbari, Voltaire un mostro, i nostri re dei protettori e la religione cattolica il pilastro dei più bei valori della nostra civiltà. Criticare Voltaire significa riscoprire la libertà di pensiero»7. Sia pure con toni troppo accesi e risentiti, Sigaut non è lontana dal vero anche quando osserva in particolare su Voltaire: «Voltaire frequentava soprattutto nobili e privilegiati e sdegnava la denuncia radicale delle ineguaglianze sociali da parte di Rousseau. Non si trattò solo di uno scontro intellettuale. Voltaire arrivò a denunciare Rousseau. Lo voleva in galera. E non esitò a toccare con brutalità anche la sfera della vita privata del suo rivale. Fu un confronto diseguale, che vide Rousseau emarginato e calunniato»8.
Il laicismo voltairiano era antidentitario e aperto al multiculturalismo a condizione che esso fosse compatibile con i princìpi liberali di uno Stato di diritto. Pur accettando l’idea che in Francia la convivenza civile potesse fondarsi su una coesistenza di cattolici, ebrei, islamici, e di altre culture come la persiana, la caldea, la cinese, non ammetteva che idee e credenze religiose di tipo confessionale potessero interferire nell’autonomia legislativa dello Stato francese rigorosamente aconfessionale, ma in modo particolare avversava con odio violento l’identità maggioritaria cattolica in quanto ritenuta nemica principale e irriducibile dell’emancipazione intellettuale della società francese e della stessa umanità da forme ancestrali di autoritarismo e dogmatismo religiosi. Tale profonda avversione aveva una precisa ragion d’essere nel fatto che il cattolicesimo aveva profondamente condizionato la vita politica, civile e culturale europea e francese per poco meno di due millenni e questo non poteva non farne presagire anche l’intrinseca forza di penetrazione nella coscienza dei popoli. Peraltro, il cattolicesimo era portatore storico di un modello ben preciso di laicità, quello della separazione tra il potere di Cesare e quello di Dio, modello che solo fino ad un certo punto riconosceva la legittimità dello Stato e, più esattamente, nei limiti in cui il potere statuale non collidesse manifestamente con la volontà e il potere del Dio evangelico e cristiano. E questa virtuale superiorità di Dio e dei suoi ordini rispetto alle leggi e alle disposizioni normative dello Stato francese non poteva che suscitare viva apprensione e un atteggiamento ferocemente critico verso i cattolici.
Non bisogna dimenticare che il suo “Trattato sulla tolleranza” del 17639, pur costituendo una riflessione generale sulla tolleranza civile e religiosa, era diretto alla corte cattolica e all’opinione pubblica francese, in occasione del processo di revisione e di cancellazione della condanna a morte comminata a Jean Calas, un commerciante ugonotto che era stato condannato a morte con l’accusa di aver ucciso il figlio, in realtà suicidatosi, per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. Questo spiega perché nel Trattato si riteneva di elevare l’ideale di tolleranza dalla tradizionale dimensione cristianocentrica, che ancora aveva nelle opere di Pierre Bayle e John Locke, ad una dimensione universale, nel senso che la tolleranza dovesse essere esercitata nei confronti di tutti gli uomini indistintamente. Qui, a dire il vero, Voltaire dimostrava una certa impreparazione teologica, benché egli, nel perorare la sua causa filosofica e giuridica, si richiamasse proprio agli insegnamenti di Gesù, dal momento che la tolleranza cristiana, almeno sulla base dei testi neotestamentari e della tradizione ecclesiale su cui si trova fondata, non ha certo un significato ristretto ma assolutamente universalistico, come almeno in parte lui stesso riconosceva. Ma il suo obiettivo polemico era la Chiesa e, per questo, non esitava a forzare i termini della sua presa di posizione.
La verità è che, per motivi forse radicati nella parte più intima e profonda del suo inconscio, l’atteggiamento mentale, ancor prima che filosofico, di Voltaire verso i cattolici, era troppo condizionato da fattori emotivi che avrebbero sempre reso ben poco sereno il suo rapporto con il mondo cattolico, tanto da farne un prototipo di intolleranza civile e religiosa. Questo odio così viscerale, incontrollato, irragionevole, riemerge continuamente nei suoi testi e nelle sue lettere e viene espresso significativamente nella celebre affermazione esortativa: Écrasez l’Infâme, schiacciate l’Infame! Infatti, scrive Voltaire nel Trattato sulla tolleranza del 1762, ormai ritiratosi nel castello di Ferney: «Finisco le mie lettere dicendo Écr. l’Inf. [=Écrasez l’Infâme, schiacciate l’infame] così come Catone diceva sempre Delenda Carthago! [= Cartagine va distrutta]», dove l’ “infame” era la superstizione religiosa della Chiesa cattolica. E, se possibile, ancora più patetica appariva la sua ossessione anticattolica nel Sermon des cinquante (XXIV, 1762): «Possa questo grande Dio che mi ascolta, questo Dio che non è nato da una vergine né è morto sul patibolo, né lo si può mangiare in un pezzo di pane, né può avere ispirato questi libri pieni di contraddizioni, di sciocchezze e di orrori – possa questo Dio, creatore di tutti i mondi, avere pietà di questa setta di cristiani che lo bestemmia»10. L’autore di queste convulse contestazioni teologiche sarà stato anche un campione di tolleranza, sarà stato il papa della moderna laicità, ma su certi temi come quello fondamentale degli attributi sovrannaturali e sacramentali cristianamente costitutivi della identità divina, la sua tolleranza e il suo spirito laico appaiono molto più incerti e vacillanti di quel che ci si potrebbe aspettare.
Peraltro, non possono sfuggire taluni elementi di incoerenza tanto nel pensiero quanto nella vita di Voltaire. Per esempio, nel “Dizionario filosofico”, egli, nel sostenere che «la religione è stata istituita per mantenere gli uomini nell’ordine … attraverso la virtù»11, individuava nella morale il momento più alto di unione e comunione tra gli uomini, e quindi nella ragione e nella coscienza, piuttosto che nella Rivelazione, le guide più sicure dell’umanità, ma curiosamente, se è vero quel che riferisce Ettore Gotti Tedeschi, egli avrebbe voluto «che i suoi familiari – moglie, avvocato, servitù – fossero educati al cristianesimo, credessero in Dio e si comportassero secondo i comandamenti. E lo voleva perché era ben consapevole che quello era l’unico modo sperimentato per non essere tradito, ingannato e derubato. Per continuare a garantire questa buona reputazione è a volte necessario rinnovare gli strumenti»12. Tuttavia, non si può trascurare che la Chiesa cattolica francese, di ispirazione prevalentemente gesuitica, della metà del XVIII secolo, e ben prima della rivoluzione francese, era stata religione di Stato e i suoi intrighi di corte non potevano passare inosservati ad uno spirito così acuto come Voltaire13. Tanto più irritante doveva risultare quella situazione per il fatto che, per lungo tempo, a cavallo tra XVII e XVIII secolo, la Chiesa aveva riconosciuto di buon grado il potere assoluto dello Stato monarchico francese, sottomettendosi ad esso in cambio dei numerosi privilegi che ne avrebbe ricevuto.
Ecco perché, in presenza di un virtuale cambiamento di rotta dei rapporti tra Stato francese e Chiesa cattolica, Voltaire, nel suo pamphlet “Delenda Cathago” del 1768, non esita a rivendicare il primato del primo sulla seconda: «Non vi è che un potere, quello del sovrano: la Chiesa consiglia, esorta, dirige; il governo comanda. No, non c’è davvero se non un potere. La corte di Roma ha creduto che fosse il suo; ma quale governo non scuote oggi il giogo di questa assurda tirannide? Perché dunque sussiste ancora il nome, quando la cosa stessa è distrutta? Perché lasciare sotto la cenere un fuoco che può riaccendersi? Non vi sono abbastanza sciagure sulla terra, senza che ancora ci debbano contrapporre la disciplina del sacerdozio e l’autorità sovrana?»14. Quello che sembrò contestare Voltaire era la contrapposizione tra due differenti ordini valoriali, la quale implicava evidentemente la possibilità di scegliere a quale delle due autorità (statuale o ecclesiastica) sottoporsi. A questa libera scelta, in effetti, Voltaire faceva risalire il sangue delle guerre e l’irrazionalità dei conflitti, perché l’ordine che proponeva la Chiesa di Roma, ormai allontanatasi dai principi del cristianesimo delle origini, era un ordine dogmatico di ragioni cui l’umanità si era venuta sottoponendosi senza interpellare preliminarmente il tribunale della ragione operante in ogni individuo.
Com’è stato ben rilevato, i «due profili germinali della laicità si uniscono nella complessa teoria della tolleranza di Voltaire. La separazione tra potere spirituale e potere politico è connaturato al concetto di tolleranza, lo caratterizza in vista della costruzione di uno Stato di diritto, in cui il monopolio della coercizione è appannaggio totale del despota illuminato. Quest’ultimo può sì servirsi del cemento religioso per rinsaldare il tessuto sociale, e nei fatti se ne serve, ma resta ferma la consapevolezza di una diversità di fini tra i due ordini (politico e spirituale) che non sarà più rimessa in discussione. La crisi dell’Ancien régime non costituiva lo scenario storico adatto per ipotizzare una separazione totale tra Stato e Chiesa, la quale doveva piuttosto declinarsi in una forma di subordinazione del secondo potere al primo. Meglio detto, sebbene ideologicamente i tempi fossero maturi per un completo affrancamento del potere politico rispetto a quello religioso, ragioni strategiche, ovvero i conflitti interni che dilaniavano la Francia, suggerirono cautela nel privarsi della fonte di legittimità forte costituita dalla religione»15.
In questo senso, le preoccupazioni etiche e politiche del filosofo francese possono apparire più comprensibili di quanto non siano se invece vengano isolate dallo specifico contesto storico francese e giudicate solo da un punto di vista esclusivamente teologico. Ciò induce a sforzarsi di comprendere meglio l’idea voltairiana di tolleranza religiosa, alla luce della quale viene riconosciuta libertà religiosa a tutte le fedi senza che tale riconoscimento legittimi implicitamente prevaricazioni di qualsiasi genere rispetto al fine supremo del bene comune e della pace sociale. D’altra parte, lo Stato ha bisogno delle credenze religiose per tenere a freno masse popolari che, se non inibite religiosamente, darebbero sfogo a tutte le loro pulsioni distruttive. Lo Stato riconosce, quindi, la divinità ma non in senso confessionale, sebbene la divinità voltairiana, per aspetti non secondari della sua teodicea, sia, al di là degli usi ideologici che se ne possano fare, moralmente e civilmente non meno esigente del Dio rivelato.
Il problema è, però, che ogni religione prescrive ai suoi aderenti di agire nella vita associata secondo i princìpi e i valori specifici del proprio credo religioso, per cui lo Stato, pur avendo facoltà di vietare interferenze specificamente religiose nelle questioni politiche di sua esclusiva competenza, non potrebbe, a rigor di logica, delegittimare la volontà credente di tradurre anche nella prassi sociale o comunitaria gli obblighi contenuti in ogni fede religiosa, là dove tali obblighi talvolta potrebbero collidere con i programmi e gli obiettivi statuali. Se tale delegittimazione ha luogo, lo Stato è, ipso facto, autoritario e intollerante; se non ha mai luogo, lo Stato risulta preda del caos e sostanzialmente ingovernabile. Questo è il dilemma, il nodo irrisolto nel pensiero filosofico-politico di Voltaire, e questo continua ad essere, almeno sul piano teorico, il nodo irrisolto, o la questione antinomica, priva di una adeguata mediazione etico-istituzionale, degli attuali Stati democratici occidentali.
Voltaire pensava di poter superare, almeno teoricamente, questa difficoltà con la sua proposta di una religione puramente naturale, quindi non positiva, il cui perno fosse costituito da un Dio trascendente e personale, come quello evangelico e cristiano, ma non rivelato, da onorarsi con culti razionali che non avrebbero mai potuto entrare in contrasto con le leggi dello Stato. Ma questa idea di un Dio senza rivelazione non solo non poteva essere quello della grande maggioranza cattolica dei cittadini francesi, ma era obiettivamente assai pretenziosa e impossibile da sostenersi in sede teologica, per il semplice motivo che Dio può essere personale solo attraverso la persona di Cristo, là dove è proprio e solo il Cristo che viene rivelando e annunciando di essere il Figlio unigenito di Dio, di essere il Figlio unigenito del Dio-Logos e del Dio-amore. L’essere ontologico di Dio, il suo essere un Dio costitutivamente e ontologicamente misericordioso e giusto, oltre che profondamente intriso di spirito di verità, il suo essere trascendente e onnipotente ma visceralmente vicino alle creature, il suo essere signore della vita e della morte e assoluto Signore di un regno che, pur attraversando il tempo, appartiene all’eternità, può essere conosciuto, amato, servito, adorato, implorato, solo perché Cristo lo ha rivelato: nessun intelletto umano avrebbe potuto accedere autonomamente ad una siffatta identità divina.
In vero, non era la rivelazione in se stessa ad aver generato errori, pregiudizi, false credenze, superstizione, fanatismo, intolleranza, ma coloro che, facendosene interpreti e depositari molto al di là della fase storica della testimonianza apostolica, non erano riusciti a garantire che, nonostante ogni sforzo, essa potesse conservarsi esclusivamente nei suoi significati originari, nella sua più pura forma spirituale e religiosa. Lo Stato poteva intervenire in modo repressivo sugli eccessi, sulle prevaricazioni, sulle pretese irragionevoli, che, nel nome della religione cattolica, venissero in modo arbitrario avanzate e giustificate, ma in ogni caso lo Stato non avrebbe mai potuto ergersi, pur legittimato evangelicamente ad usare la forza per reprimere i crimini, per assicurare l’ordine sociale e la libertà dei cittadini, al di sopra della legge divina: in tal caso, i cristiani avrebbero dovuto opporsi, a ragion veduta, preferibilmente per via non violenta, a qualsiasi forma di statolatria o di blasfemia antireligiosa.
Una religione senza rivelazione poteva essere, al più, una rivelazione civile, ma non certo una religione salvifica. Voltaire lo sapeva bene, cosí come sapeva bene che il potere della Chiesa cattolica si fondava proprio sulla Rivelazione, ed è per questo motivo che egli proponeva una religiosità in tutto simile a quella espressa dal vangelo, ma decapitata appunto della Rivelazione. Alla voce “teista” del suo Dizionario filosofico, parla di questa figura di credente nello stesso modo in cui si potrebbe parlare di un credente cattolico: «Il teista è un uomo fermamente persuaso dell’esistenza di un Essere supremo tanto benigno quanto potente, il quale ha formato tutti gli esseri estesi, vegetanti, o dotati di sentimento, o di sentimento e ragione; e perpetua la loro specie, e punisce senza crudeltà i delitti e ricompensa con bontà le azioni virtuose. Il teista non sa in qual modo Iddio punisce, né come egli premia, né come perdona; perché egli non è tanto temerario da lusingarsi di conoscere in qual modo può agire Iddio: egli sa che Dio agisce, e che è giusto». E contro i filosofi che negavano l’inferno, ammoniva: «Predicate pure voi, se vi pare, che l’inferno non esiste e che l’anima è mortale. Per parte mia, io mi sgolerò a gridargli nelle orecchie che se mi derubano saranno condannati per sempre; imiterò quel curato di campagna che, essendo stato vergognosamente derubato dal suo gregge, disse loro dal pulpito: ‘Davvero non so che cosa gli è venuto in mente a Gesù Cristo, di morire per delle canaglie come voi’».
Ma, a ben analizzare le parole usate, i riferimenti escatologici alla propria condizione personale di ricco possidente, il cristianesimo qui viene interpretato dal philosophe in chiave sottilmente individualistica e utilitaristica e a protezione di un’etica sociale che vale più per gli interessi terreni che non per gli interessi celesti. Anche quando l’anziano Voltaire lotterà strenuamente contro l’ateismo non poco diffuso nella Francia libertina o edonista del ‘700, e difenderà l’idea dell’immortalità dell’anima, le motivazioni di fondo di tale lotta saranno, da una parte, nel suo timore che gli eccessi delle masse ignoranti potessero rimanere senza freni, dall’altra, nella sua crescente paura della morte d’onde la sua speranza personale di poter sopravvivere alla sua fine terrena. C’è anche chi ha osservato, forse non a torto: «Che in Voltaire il rapporto col cattolicesimo fosse guidato da motivazioni tattiche più che da granitiche posizioni di principio, lo dimostra anche la cronologia del suo furore antiromano: questo aumentò, dopo anni di entente cordiale con la Roma amica della Francia, di pari passo con il degenerare dei rapporti fra la corte francese e la curia vaticana, soprattutto tra il 1758 e il 1769. Nondimeno, nello stesso periodo, Voltaire fece erigere nella sua tenuta di Ferney una grande chiesa, con tanto di reliquia di san Francesco impetrata a Clemente XIII»16.
Ma che il rapporto tra il philosophe e la Chiesa cattolica sia stato decisamente ambiguo e ben poco disinteressato, è ciò che si evince, in effetti, da una attendibile ricostruzione storico-interpretativa17: è pacifico che Voltaire abbia cercato «protezione presso il Papa, che Benedetto XIV gli avesse risposto favorevolmente, che il Papa avesse spedito “la benedizione apostolica al diletto figlio Voltaire” e che Voltaire avesse con trasporto “baciato umilissimamente i sacri piedi” del Papa. Fino al 1758, anno della morte di Benedetto XIV, Voltaire si sentì rassicurato dalla presenza del Papa come garante dell’equilibrio in Europa, e come persona colta che non avrebbe mostrato eccessiva ostilità verso una classe di intellettuali, i philosophes, dei quali Voltaire si sentiva il leader naturale – o, come amava definirsi, “il patriarca”»18. Le cose sarebbero cambiate in peggio con papa Clementre XIII. E, tuttavia, «Voltaire si definì sempre cattolico, in un tempo in cui scegliere una religione non aveva tanto a che fare con l’asserzione della propria identità individuale ma, molto più concretamente, col pagare le tasse, col poter comprare terre, con l’avere diritti civili» e così via19. Si sostiene persino che Voltaire sia morto cattolico, sia morto, per usare le sue testuali parole, nella «santa religione cattolica»20.
Ma, quale che sia il vero spessore spirituale e dottrinario del suo cattolicesimo, la famosa e toccante “preghiera a Dio”, contenuta significativamente proprio nel “Trattato sulla tolleranza” e non priva di accenti pascaliani, potrebbe essere tranquillamente condivisa dal cattolico più ortodosso come dal più rigoroso esponente di un cattolicesimo laico, cioè fedele alla Chiesa ma in totale autonomia di coscienza: «Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi: se è lecito che delle deboli creature, perse nell’immensità e impercettibili al resto dell’universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato, a te, i cui decreti sono e immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura. Fa’ sì che questi errori non generino la nostra sventura. Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l’un l’altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa’ che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa’ sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati “uomini” non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione. Fa’ in modo che coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole; che coloro che coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera; che sia uguale adorarti in un gergo nato da una lingua morta o in uno più nuovo. Fa’ che coloro il cui abito è tinto in rosso o in violetto, che dominano su una piccola parte di un piccolo mucchio di fango di questo mondo, e che posseggono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano “grandezza” e “ricchezza”, e che gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non c’è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi. Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Abbiano in orrore la tirannia esercitata sulle anime, come odiano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell’attività pacifica! Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace, ed impieghiamo il breve istante della nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse, dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato questo istante».
Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Che sono fratelli solo in quanto si riconoscano, in Cristo, figli dello stesso Dio, di un Dio-Padre, di un Dio che, solo alla luce della Rivelazione, può essere anche un Padre. Ma di questo dogma centrale del cristianesimo, Voltaire avrebbe dato un’interpretazione ateistica talmente funambolica e tendenziosamente artificiosa da non poter essere minimamente presa in seria considerazione. Per lui, «dense tenebre» avrebbero sempre avvolto «le origini del cristianesimo», cosí egli scrive nella sua “Storia dell’affermazione del cristianesimo”, indebolendo molto, di conseguenza, la sincerità del suo auspicio di ritrovarsi umanamente uniti al di là di tutte le forme di intolleranza e di tutti i fanatismi dogmatici, che è ciò che viene in fondo riflettendosi in quella che è stata giustamente definita come la «sintesi definitiva del suo pensiero in materia di religione»21, ovvero per l’appunto nella “Storia dell’affermazione del cristianesimo”22, composta nel 1776 sotto pseudonimo, come in fondo aveva spesso fatto Voltaire con molti suoi scritti, cioè due anni prima della morte. Voltaire sapeva benissimo che, per i cristiani, non per cristiani fanatici ma per cristiani semplicemente fedeli a Dio, la natura umana e divina del Cristo, non meno della realtà trinitaria di Dio, era un dogma non negoziabile né sul piano teologico, né su quello storico e critico-filosofico, era fondamento, sostanza e scopo della loro speranza di salvezza, e il fatto che egli, per tutta la vita, avesse contrapposto polemicamente un’immagine umanissima di Gesù alle pratiche spesso peccaminose e immonde dei suoi eredi storici, rientrava indubitabilmente in una strategia politico-filosofica di neutralizzazione della forza anche politica sprigionantesi dalla Parola evangelica di Dio.
Voltaire avrebbe voluto ottenere una secolarizzazione della religione cristiana già in ambito specificamente filosofico. Quello che, in fondo, non avrebbe mai inteso accettare il patriarca del “partito filosofico”, era che il cristianesimo potesse costituire una possibile fonte, tra altre fonti possibili, della moderna laicità. Aveva implicitamente concesso qualcosa di significativo in tal senso, come si è visto, per puri motivi tattici non necessariamente disgiunti da momenti di apertura emozionale alla prospettiva cristiana, ma il suo obiettivo finale sarebbe rimasto pur sempre lo snervamento del cattolicesimo come forza anche politicamente attiva e influente della storia degli uomini. Non le origini del cristianesimo ma le pretese di Voltaire e dei philosophes di normalizzare lo spirito perennemente rivoluzionario e redentivo ad un tempo dell’annuncio evangelico, sarebbero state avvolte dalle tenebre dell’ignoranza e della sicumera.
Francesco di Maria
NOTE
1 O. Chadwick, Società e pensiero laico. Le radici della secolarizzazione nella mentalità europea dell’Ottocento, Torino, SEI, 1990, che contiene un capitolo dedicato al modo in cui sarebbe stato recepito Voltaire nell’ottocento; G. Carobene, Tolleranza e libertà religiosa nel pensiero di Voltaire, Torino, Giappichelli, 2000; R. Fubini, La libertà e il senso del limite, in Rivista di filosofia “Lo Sguardo”, fascicolo su “Liberalismo e democrazia”, ottobre 2011, n. 7, pp. 29-44.
2 Cfr. R. Campi, Voltaire. Lo scandalo dell’intelligenza, Napoli, Liguori, 2007.
3 Voltaire, Epistola 104, L’Epistola all’autore del Libro dei tre impostori, 1769. La paternità, e persino l’esistenza, di questo libro contro cui si scaglia Voltaire, restano molto incerte. La prima parte della frase sarebbe stata ribadita, nel 1774, su un foglio di carta rilegato che precede il frontespizio di un libro ateo di Hélvetius intitolato Il vero senso del sistema della natura e conservato nella biblioteca di Voltaire con il codice BV 2-42.
4 Ne tratta alla voce “amore cosiddetto socratico” del suo Dizionario filosofico, Torino, Einaudi, 2006.
5 Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, Torino, Einaudi, 2015 (opera pubblicata per la prima volta tra il 1753 e il 1756. D’altra parte, come ha osservato Vittorio Messori, «Mi è sempre sembrato significativo che Voltaire abbia investito buona parte dei suoi lauti redditi come intellettuale di corte proprio in una società di navigazione negriera, che assicurava cioè il trasporto degli schiavi africani verso l’America», Qualche ragione per credere, Milano, Ares 2008, p. 101). Tutto questo è confermato da Jean Ehrard, Lumières et esclavage. L’esclavage colonial et l’opinion publique en France XVIIIe siècle, André Versaille Éditeur, 2008, p. 28, anche se Domenico Losurdo ricorda, senza peraltro intaccare la fondatezza dei giudizi prima riportati, che a possedere azioni in una compagnia schiavista non sarebbe stato Voltaire ma Locke, Dalla teoria della dittatura del proletariato al gulag?, in Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, Bari-Roma, Laterza, 2003, p. XL.
6 Marion Sigaut è autrice di Voltaire. Une imposture au service des puissants, Paris, KontreKulture, 2014, poi tradotto in italiano col titolo Voltaire. Tra propaganda e menzogna, Colazzo (NO) Edizioni XY.IT, 2018.
7 G. Reguzzoni, Intervista a Marion Sigaut. La preoccupazione di Voltaire era distruggere il cristianesimo, in “Il Timone” del 22 gennaio 2016.
8 Ivi. Già un altro insigne storico, cattedratico di storia moderna alla Sorbona di Parigi, come Pierre Chaunu, aveva dato una interpretazione molto simile a quella di Sigaut, tranne che su Voltaire di cui si definisce “caloroso” estimatore: «L’Ancien régime è in certa misura responsabile degli errori della Rivoluzione. I miei princìpi? Quello che mi interessa nella storia è il progresso dello spirito umano, e in questo senso io sono un uomo dei lumi. I miei referenti per quel periodo sono Chateaubriand, Madame de Staël, Benjamin Constant, cioè la grande tradizione liberale, nella quale mi situo. Ho un rapporto che definirei “caloroso” con Voltaire ed i filosofi dell’Illuminismo; e a dire il vero più con quelli inglesi e tedeschi perché sono cristiani. Ed io sono un giudeo-cristiano, inserito nella grande tradizione protestante. E a partire da questi princìpi che mi accorgo che l’umanità avanza per evoluzione e non per rivoluzioni. La libertà non è caduta dal cielo con la Rivoluzione, si è costruita nel nostro Paese attraverso i contadini del Medio Evo, coi Comuni, con il Parlamento, con tutta la costituzione giuridica: ebbene, occorre il coraggio di dirlo, lo Stato di diritto nel quale viviamo attualmente non è figlio della Rivoluzione, è figlio della storia, di San Luigi come di Luigi XVI, ed è anche figlio dei rivoluzionari, come del consolato e dell’impero. Come vede, cerco solo di rimettere le cose al loro posto ….. La persecuzione religiosa non fu solo persecuzione contro i religiosi ma una rivolta contro il cristianesimo con il preciso intento di decristianizzare la nazione. La maggioranza dei preti è stata assassinata od espulsa, tutte le chiese sono state chiuse per un anno e mezzo ed il loro patrimonio requisito ed incamerato, 250 mila vandeani sono stati massacrati perché volevano andare alla messa e restare fedeli a Roma. Le scuole, gli ospedali, tutte le opere sociali della Chiesa vennero soppresse e non furono rimpiazzate che sulla carta. In Vandea tutte le famiglie, tutte le persone presso le quali si trovasse una cappella, un crocifisso o altro furono fucilate, le loro case incendiate. Certo i cattolici francesi hanno avuto a riguardo della modernità e dell’illuminismo un atteggiamento negativo davvero eccessivo, ma è comprensibile: perseguitare un popolo non favorisce la comprensione e la tolleranza. Quello che non capisco è perché i cattolici francesi di oggi non siano al fianco dei cattolici perseguitati nella storia e soprattutto sotto la Rivoluzione francese. Il perdono non implica l’oblio e nemmeno la collaborazione con i criminali. Non capisco proprio perché e in nome di cosa si neghi la realtà: in Francia ci sono stati centinaia e migliaia di morti, vittime delle loro convinzioni religiose. Hanno lottato, si sono organizzati, ma sono stati massacrati nella maniera più indegna. Quello contro cui io protesto è questo tradimento dei princìpi di libertà e tolleranza, princìpi positivi che erano all’origine della Rivoluzione francese ma che hanno avuto un risultato catastrofico», Intervista di Stefano M. Paci a Pierre Chaunu, La Rivoluzione francese ha provocato più morti della Prima Guerra Mondiale, in settimanale di informazione e formazione “Il Cattolico”, 12 ottobre 2009. Il 2009 è anche l’anno della morte di Chaunu. Tra le sue opere particolarmente critiche sull’epoca dei lumi e della rivoluzione francese, vanno ricordate: La civiltà dell’Europa dei lumi (Bologna, Il Mulino, 1987), Le grand déclassement. À propos d’une commemoration (Paris, Ed. Robert Laffont, 1989), il suo prezioso contributo ad un’opera collettanea quale Le livre noir de la Révolution Française (Paris, Cerf, 2008), curato dal padre domenicano Renaud Escande. Di un suo allievo, Reynald Secher, è anche Il genocidio vandeano (Milano, Effedieffe, 1991), che grande scalpore avrebbe suscitato soprattutto in Francia. Ancora più “scandaloso” sarebbe parso il libro successivo di questo storico, Juifs et Vendéens. D’un génocide à l’autre. La manipulation de la mémoire (Paris, Orban, 1991), in cui si sostiene che la “soluzione finale” adottata da Hitler trovò proprio nel genocidio rivoluzionario vandeano il suo significativo antecedente storico. Quanto al rapporto con Rousseau, Voltaire, in effetti, non fu molto benevolo verso il filosofo ginevrino, anche se questi era notoriamente affetto da manìa di persecuzione.
9 Qui tenuto presente nella sua edizione curata da Einaudi: Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Torino, Einaudi, 2022.
10 Da questo punto di vista, il contributo di Voltaire alla laicità europea è sicuramente sopravvalutato da chi, senza probabilmente inquadrare con esattezza storico-filologica la polemica di Voltaire contro la Chiesa settecentesca, ha scritto che «la Francia è il paese di Voltaire. Io direi che l’Europa è il paese di Voltaire. I suoi saggi, i suoi racconti, il suo teatro, i suoi articoli sull’Encyclopédie, erano rivolti contro l’Infame. Non specificò mai chi fosse l’Infame, in gran parte dei casi erano i gesuiti dell’epoca che guidavano il pensiero reazionario. Questo fu Voltaire. Insieme a Diderot furono i due campioni di libertà che contribuirono alla nascita delle Costituzioni e delle Repubbliche del futuro», E. Scalfari, Il pugno di Francesco e la lezione di Voltaire, in “La Repubblica” del 18 gennaio 2015.
11 Voltaire, Dictionnaire Phylosophique, 1764; Dizionario filosofico. Tutte le voci del Dizionario filosofico e delle Domande sull’Enciclopedia, a cura di D. Felice e R. Campi, Milano, Bompiani, 2013.
12 E. Gotti Tedeschi, Le preoccupazioni di Voltaire, in “L’Osservatore Romano” del 6 ottobre 2010.
13 Non è per caso che i gesuiti vengano espulsi dalla Francia nel 1764, così come erano stati espulsi dal Portogallo nel 1759 e sarebbero stati espulsi dalla Spagna nel 1767. E’ dunque probabile che i giudizi particolarmente acrimoniosi di Voltaire fossero indirizzati soprattutto a quella Chiesa e a quel cattolicesimo che egli aveva potuto conoscere molto bene sin da quando, da adolescente, si era venuto formando nel famoso Liceo Louis-le-Grand di Parigi, diretto da gesuiti.
14 Voltaire, Delenda Carthago!, ora in Voltaire, Scritti politici, a cura di R. Fubini, Utet, Torino, 1964, pp. 806-807.
15 G. Blando, Profili germinali della laicità. Un excursus storico, in Rivista di scienze giuridiche “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, Milano, 25 marzo 2019, pp. 15-16.
16 A. Galli, Voltaire, allievo dei gesuiti ma cattolico per vanità, in “Avvenire” del 5 luglio 2013.
17 Da questo punto di vista, non appare soddisfacente il pur documentato volume di M. L. Lanzillo, Tolleranza, Bologna, Il Mulino, 2002.
18 A. Gurrado, Voltaire cattolico, in “Il Foglio” del 14 luglio 2013. Non so, peraltro, fino a che punto possa considerarsi fondata e ragionevole l’ipotesi per cui «Voltaire, che fu il conclamato “patriarca” dei Lumi» avrebbe tentato «in due modi di cambiare dall’interno un Cattolicesimo protervo e intollerante: dapprima corrispondendo da pari a pari con alti prelati; poi, messa da parte ogni speranza di riformare la Chiesa in senso razionale, producendosi in una messe di scritti propagandistici nei quali fingeva di essere un sacerdote o un predicatore, e ai quali dava significativamente il titolo di sermoni, omelie, catechismi, canonizzazioni o profezie. L’Illuminismo immaginava dunque se stesso come completamente interno a un orizzonte cristiano e questa categoria del mimetismo, applicata a una corrente di pensiero culminata nella Francia cattolica del medio Settecento e giunta alla massima popolarità grazie all’impegno profuso da un fin troppo arguto allievo dei gesuiti quale era Voltaire, può in qualche modo aiutare a spiegare lo strano papismo degli illuministi», A. Gurrado, Voltaire papista, in “Il Foglio” del 25 febbraio 2013.
19 Ivi.
20 E’ ciò di cui sembrerebbe essersi accorto il cattedratico spagnolo di filosofia Carlos Valverde nel consultare il volume XII dell’antica rivista francese Correspondance littéraire, philosophique ed critique (1753-1793), fascicolo di aprile 1778, pp. 87-88.
21 R. Campi, Introduzione a Voltaire, Storia dell’affermazione del cristianesimo, Roma, Aracne, 2020, p. 9.
22 Opera pubblicata in italiano a cura di Francesco Capriglione, Bastogi, Foggia, 1987.