Europa, vangelo e democrazia

image1. Contrariamente a quanto sostengono molti politologi di area liberale, noi pensiamo che la democrazia, intesa nel senso proprio e più alto della parola, non possa ridursi ad un puro contenitore e quindi a democrazia formale e procedurale, ma debba essere riempita, sia pure in virtù di determinate regole e procedure, di contenuti valoriali di inequivocabile portata morale e sociale. Questo prevede del resto la nostra Costituzione che indica certo le forme e gli strumenti istituzionali della nostra repubblica democratica ma anche e soprattutto i fini economici, sociali ed etici, al cui perseguimento sono preposti gli stessi ordinamenti ed organi istituzionali. In Occidente, per quanto pienamente affermata nelle sue linee generali, la democrazia è oggi soggetta a taluni processi corrosivi che ne minacciano la stabilità e la funzionalità operativa.

image2Si pensi alla persistente difficoltà a governare la crescente complessità sociale (il riferimento specifico è principalmente all’Italia), a dar luogo a governi democratici sufficientemente stabili e capaci di decidere in conformità ai bisogni oggettivi e alle aspettative generali del popolo; oppure alla costante incapacità di creare momenti significativi di unificazione nazionale almeno su punti qualificanti di un’azione di governo realmente efficace.

Anche le decisioni politiche, continuamente demandate a tecnici superspecializzati, come la supremazia del potere economico e massmediatico su quello politico e la prevalenza di spinte accentuatamente individualistiche e al tempo stesso fumosamente assemblearistiche su una disinteressata e generosa ricerca del bene comune la quale dovrebbe essere alla base della democrazia troppo spesso incentrata, invece, su un semplice e strumentale consenso politico-elettorale, contribuiscono non poco a indebolire la tenuta del sistema democratico.

D’altra parte, pur avendosi a che fare con una democrazia apparentemente sostenuta da un ethos comune e quindi da valori come libertà, uguaglianza, giustizia, partecipazione, non violenza, la realtà è che sempre più discordanti e sempre più “relativisticamente” soggettivi e arbitrari appaiono i modi di intenderli e di perseguirli, donde l’uso assai frequente della democrazia in senso demagogico o scopertamente autoritario e repressivo, a prescindere dall’uso legittimo della forza che uno Stato democratico di diritto è ovviamente chiamato ad esercitare.

Stando cosí le cose, quale può essere il contributo dei credenti e di quelli cattolici italiani in particolare non già all’introduzione di regole e valori nuovi nell’odierno sistema democratico rispetto a quelli sanciti dalla Costituzione repubblicana ma al ripensamento e al rilancio politico del significato originario e universalistico di valori quali libertà, giustizia e solidarietà, che, svuotati del loro reale senso etico e comunitario, finiscono per essere funzionali alla graduale e ineluttabile conversione della stessa democrazia nella peggiore delle dittature? Intanto, i cattolici, anche alla luce della dottrina sociale della Chiesa, non possono non pensare che democrazie in cui i diritti sociali non figurino come precondizioni fattuali dei diritti civili e politici propri del liberalismo classico siano in realtà semplici simulacri di democrazia. E c’è da immaginare che, già cosí, avremo ottenuto di allontanare dal nostro blog un bel numero di cattolici, che nel vangelo tutto trovano tranne che, beati loro, la insistente raccomandazione a preoccuparsi concretamente e sinceramente degli altri senza indulgere a pratiche caritative di tipo puramente paternalistico o fondamentalmente ipocrite. Una democrazia che non abbia a cuore le esigenze economiche e i diritti sociali della gente, a cominciare da quella più povera e sofferente, è necessariamente una democrazia molto arretrata o regressiva, anche se dovesse essere la democrazia più emancipata dal punto di vista dei “diritti civili e politici”. Per noi cattolici questo dovrebbe essere un punto fermo e irrinunciabile della nostra visione e del nostro impegno politici.

Una democrazia, pur fondata sul suffragio universale, è una democrazia non solo imperfetta (ciò che è normale perché storicamente non possono darsi democrazie perfette) ma profondamente ingiusta e autoritaria se lascia che le diseguaglianze crescano a dismisura, perché le diseguaglianze sociali ed economiche non possono non condizionare molto negativamente, e ben più negativamente di una insufficiente libertà di stampa e di informazione, l’esercizio stesso dei diritti a tutti i livelli.

Lo stesso diritto di voto non potrà essere esercitato in modo realmente libero ed efficace da parte di coloro che, versando in condizioni di accentuata indigenza e ben consapevoli di non poter contare veramente su partiti determinati ad adottare politiche sociali di largo respiro che muovano dall’esigenza programmatica di soddisfare i bisogni materiali dei ceti e dei soggetti meno abbienti o comunque maggiormente in difficoltà nell’ambito delle proprie attività produttive o lavorative, saranno inevitabilmente portati ad astenersi o a votare per forze politiche contrassegnate da un alto tasso di populismo individualistico e da una ricerca spregiudicata del potere.

E’ poi del tutto evidente che le élites chiamate in questo modo a gestire il potere rischino perlopiù di essere composte da personaggi inaffidabili, al più capaci di ben rappresentare interessi personali e corporativi ben circoscritti, o da veri e propri avventurieri che, sia pure in diversa misura, sono oggi largamente presenti in tutte le forze politiche italiane.

A tutto questo si aggiunga che la possibilità di prendere decisioni politiche utili e vincolanti per tutti è resa sempre più difficile dalla globalizzazione in atto, specie da quella finanziaria, a causa della quale le decisioni governative adottate tendono a riflettere sempre più spesso pressioni e interessi politico-finanziari internazionali manifestamente antitetici al perseguimento di più che legittimi interessi nazionali, dove però è appena il caso di segnalare che proprio l’impegno a contrastare e a correggere la improvvida e disastrosa rotta dell’attuale processo di globalizzazione costituisce forse il principale compito di una politica democratica capace di ritrovare la sua libertà decisionale e la sua efficacia operativa nel quadro di una concezione organica della società e della storia anche sotto il profilo ideale ed etico-valoriale.

In tal senso, i cattolici non possono più accettare forme di pragmatismo politico troppo spesso fine a se stesso o subordinato a logiche di potere completamente estranee alla logica di una piena sovranità nazionale. I cattolici non possono più tollerare che la comune patria europea si sovrapponga sistematicamente, con direttive economiche semplicemente vessatorie e prive di proficui “ritorni” produttivi ed occupazionali oltre che con prese di posizione molto discutibili o deprecabili sul piano giuridico ed educativo che collidono in modo stridente con le tradizioni storico-culturali e religiose dei vari popoli continentali, alle specifiche necessità delle diverse patrie nazionali. E, poiché essi apprendono ogni giorno dal vangelo che la carità si esercita non cooperando ad incrementare la ricchezza di chi è già ricco o di soggetti economici e sociali ampiamente facoltosi ma a distribuire la ricchezza disponibile, non importa se piccola o grande, secondo le necessità della o delle collettività, a cominciare dalle necessità dei meno abbienti o dei più poveri, non potranno più consentire ad ottusi burocrati e banchieri europei, che lavorano per conto di occulte ma potenti organizzazioni finanziarie, di dettare ai popoli e all’Italia agende politiche dissennate e destinate solo ad impoverire ulteriormente le economie nazionali e ad aggravare le già precarie condizioni di vita di larga parte delle stesse popolazioni continentali.

2. Rispetto a quando fu adottato l’euro in Europa e in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, oggi sono infinitamente più numerosi, anche in Italia, i critici della moneta unica europea. Eppure già nel 1999, anno della sua introduzione nel sistema monetario europeo, si poteva facilmente intuire, alla luce del Trattato di Maastricht (firmato il 7 novembre del 1992) in cui venivano fissate regole politiche e parametri economici necessari all’ingresso degli Stati aderenti nella UE, e anche senza essere grandi specialisti di cose economiche e finanziarie, che l’euro avrebbe potuto presto trasformarsi in una grossa fregatura dal momento che l’adozione della moneta unica sarebbe dovuta scaturire dal presupposto secondo cui gli Stati l’avrebbero ricevuta in prestito a tassi molto elevati dalle banche centrali, che sono però quasi tutte banche private (anche Bankitalia è una banca privata o di privati), e dalle banche d’affari o gruppi finanziari più potenti del mondo come, tanto per esemplificare ed intenderci, Goldman Sachs, Bank of America o JP Morgan. La stessa BCE è una banca privata, perché formata da banche private, sebbene, a differenza delle altre, sia l’unica che per legge possa stampare ed emettere moneta in Europa. Bastava leggere l’art. 105 A del capitolo 2 della “Politica monetaria” del Trattato suddetto per rendersi conto del contratto-capestro che i governi nazionali, ivi compreso quello italiano, si sarebbero affrettati irresponsabilmente a sottoscrivere. In sostanza, l’Unione Europea, la sua moneta unica con il suo corredo di sovrastrutture burocratiche e fiscali, all’atto della loro nascita si configuravano come una sorta di apologia del “privato”, di enormi interessi privati che avrebbero dovuto porsi in funzione degli interessi pubblici delle varie economie nazionali! Si potrebbe dire: un errore colossale! Ma poiché un errore del genere non avrebbe potuto commetterlo neppure il più sprovveduto studente universitario di economia al primo anno di corso, in realtà il progetto monetario ed economico europeo nella forma storica in cui si è venuto attuando non può affatto considerarsi un errore ma un obiettivo consapevolmente e lucidamente perseguito sin dall’inizio.

Può darsi, certo, che allora qualche sostenitore della moneta unica si sia illuso circa una possibile convergenza degli interessi privati con quelli pubblici degli Stati, ma anche in questo caso non sarebbe possibile scusare chi, anziché trovarsi a decidere delle sorti dell’umanità europea e più segnatamente italiana, si sarebbe dovuto limitare a svolgere un’attività pubblica molto meno influente di quella esercitata dai capi di Stato e di governo ai fini della tutela di legittimi interessi nazionali.

Persino una nota conservatrice come Margaret Thatcher nel suo ultimo discorso tenuto alla Camera dei comuni nel 1990 aveva accesamente ed onestamente sostenuto non solo che mai l’Inghilterra avrebbe dovuto abbandonare la sua moneta nazionale per l’euro ma che l’intera costruzione politica europea fondata su una Banca Centrale, su una moneta unica e su una sola politica monetaria rappresentava “la più grande follia dell’era moderna” perché manifestamente “antidemocratica” ovvero inevitabilmente finalizzata a togliere potere ai parlamenti di tutti gli Stati. Thatcher, non cattolica, pensava che l’euro sarebbe stato fatale per i paesi europei più poveri e avrebbe devastato le loro economie, mentre un economista cattolico come Romano Prodi, che notoriamente è un consulente molto ben remunerato di importanti Stati nazionali non solo europei, andava predicando e scrivendo che con l’euro avremmo lavorato un giorno in meno “guadagnando come se lavorassimo un giorno in più”. Tutti sanno oggi chi abbia avuto ragione e Prodi, che ancora oggi incredibilmente molti esponenti del partito democratico italiano vorrebbero come capo dello Stato, fu tra i fautori non innocenti di quell’eurocrazia fraudolenta volta scientemente ad espropriare nel tempo della loro ricchezza tutti i popoli aderenti alla UE, a cominciare dall’Italia.

Ma quasi che l’impegno di rispettare i vincoli imposti dal suddetto Trattato non fossero abbastanza duri, vent’anni dopo i governanti italiani hanno pensato bene di sottoscrivere un contratto ancora più assurdo e dannoso, il famigerato patto finanziario noto come Fiscal Compact (Patto di bilancio europeo o Trattato su stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria) che prevede tra l’altro per gli Stati firmatari l’obbligo di perseguire il pareggio di bilancio, l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del Pil di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni a un ritmo pari a un ventesimo dell’eccedenza in ciascuna annualità, l’obbligo sempre per i paesi che hanno un debito strutturale superiore al 60% del PIL di non farlo lievitare per oltre lo 0,5 dello stesso PIL, l’obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre al di sotto del 3% del PIL qualunque sia la fase congiunturale.

E’ significativo che proprio a proposito di questa infausta regoletta del 3%, il suo inventore, l’allora giovane economista Guy Abeille, oggi sessantaduenne e a cui all’inizio degli anni ’80 il governo francese di Mitterrand aveva dato il compito di elaborare un modello matematico che consentisse di ridurre l’elevato deficit della Francia, abbia recentemente e candidamente rivelato che tale paletto nacque “senza alcuna base scientifica”: “Prendemmo in considerazione i 100 miliardi del deficit pubblico” francese “di allora. Corrispondevano al 2,6% del PIL. Ci siamo detti: un 1% di deficit sarebbe troppo difficile e irraggiungibile. Il 2% metterebbe il governo sotto troppa pressione. Siamo cosí arrivati al 3%. Nasceva dalle circostanze, senza un’analisi teorica”, pertanto, il fatidico paletto del 3% che da “francese” sarebbe diventato poco dopo, nel 1991, “europeo” entrando a far parte dei famosi parametri del Trattato di Maastricht (come risulta da un preciso resoconto di Vito Lops in “Il Sole 24Ore” del 29 gennaio 2014).

Si può significativamente aggiungere quel che di recente il giornale francese “Le Parisien” ha riferito delle dichiarazioni dell’economista francese: “Abbiamo stabilito la cifra del 3% in meno di un’ora. E’ nata su un tavolo, senza alcuna riflessione teorica, Mitterrand aveva bisogno di una regola facile da opporre ai ministri che si presentavano nel suo ufficio a chiedere denaro […]. Avevamo bisogno di qualcosa di semplice. Tre per cento? E’ un buon numero, un numero storico che fa pensare alla trinità” (ivi).

Ecco: generalmente le regole, le percentuali, le tabelle, le imposizioni fiscali, elaborate dai centri di potere europei, nascono tutte nello stesso modo, ovvero in totale assenza di criteri “scientifici” e di riflessioni teoriche adeguate, e quasi per gioco a giudicare dalle espressioni scherzose usate dagli “esperti”. Come dire: vengono concepite a naso, in modo del tutto fortuito o occasionale, senza ovviamente tenere in considerazione tutte le possibili variabili che possono intervenire sia nella complessiva dinamica economica internazionale sia nei diversi processi economici nazionali, ma al tempo stesso finalizzando comunque calcoli e misurazioni “matematico-economiche” al maggior incremento possibile del profitto dei più potenti gruppi privati finanziari e, di riflesso, degli stessi Stati che da essi, per motivi accidentali o per precisa scelta, risultano maggiormente sostenuti e favoriti.

Cosí, gli stessi interessi passivi che maturano sui debiti sovrani vengono quantificati non già secondo criteri di ragionevolezza e di buon senso pratico ma secondo calcoli insensati e arbitrari che risultano perfettamente funzionali agli obiettivi di massimizzazione indiscriminato del profitto di quelle stesse oligarchie che, con rigorosa mentalità usuraia, mirano ad espropriare quanto più possibile popoli e individui, legalmente anche se illecitamente, della loro ricchezza.

Ora, come si può essere cosí stolti da continuare ad accettare che del destino materiale e morale dei popoli europei si venga decidendo secondo norme giuridiche, monetarie e fiscali completamente arbitrarie e ritenute immodificabili? Stupisce il fatto che non siano ancora pochi coloro che, in Italia come altrove, ritengano ormai irrevocabili tanto questa Europa quanto la sua politica economica e monetaria, per quanto possano necessitare, si dice, di qualche aggiustamento. Aggiustamento? Qui c’è da rifondare ex novo l’una e l’altra, se si vuole evitare il traumatico disfacimento di entrambe e la catastrofe dei singoli popoli. Altrimenti, sarebbe molto meglio uscirne per tempo. Anche perché di storicamente “irrevocabile” o definitivo, ad eccezione dell’obbligo tassativo di rispettare la persona e la sua dignità, non c’è e non può esserci nulla.

A fronte di tutto questo, il sordo e spesso asservito Parlamento italiano, ma non per esempio quello francese, ha altresí ritenuto di dover inserire a tempo di carica nella Costituzione (art. 81) il vincolo del pareggio di bilancio. Si può essere più imbecilli, più irresponsabili, più vili ed autolesionisti di cosí? E non è abbastanza, se si pensa che in questo nostro sfortunato paese esiste una intellighentja maggioritaria, ben sostenuta dai massmedia, assolutamente convinta che la pesante crisi attuale non sia dovuta all’euro, al fiscal compact, all’austerity, o alle stesse procedure d’infrazione spesso e volentieri adottate contro l’Italia, ma semplicemente allo spreco, all’evasione fiscale, all’eccesso di burocrazia, alla corruzione politica ed amministrativa.

Quelli qui enumerati sono indubbiamente gravi difetti strutturali che, sebbene realisticamente mai del tutto eliminabili negli Stati contemporanei, riducono in misura sensibile le risorse finanziarie dello Stato. Ma, anche concedendo senza ammettere che in tutti gli ambiti della governance europea non vi sia lo stesso spreco, lo stesso eccesso di burocrazia e la stessa corruzione amministrativa, tutto questo semmai dovrebbe essere un motivo in più per smettere di far confluire gran parte della nostra sana e visibile economia e quindi anche la maggior parte delle nostre tasse nei voraci forzieri bancari del Leviatano europeo. Come si può pensare che potrebbero essere risolti tutti i problemi “interni” rimanendo in tutto e per tutto organici ad un’Europa cosí avida e sempre prepotentemente protesa a dare direttive e ad esprimere giudizi unilaterali di merito non solo sul piano economico-finanziario ma spesso anche e persino su quello giuridico-culturale ed etico-religioso, senza minimamente preoccuparsi di portare rispetto alla storia dei popoli che ne fanno parte e farsi carico delle loro reali e primarie necessità di vita?

La verità è che quest’Europa burocratica ed eurocratica, con i suoi demenziali meccanismi di funzionamento, è strutturalmente organizzata non già per aiutare le nazioni aderenti a progredire ma per anteporre e contrapporre sistematicamente alle loro più vitali esigenze sue proprie e specifiche esigenze finanziarie. Proprio per questo, essa non può che compromettere molto gravemente il futuro di italiani, spagnoli, portoghesi, greci e probabilmente francesi, rendendo sempre più scadente la qualità della vita, già oggi abbastanza scarsa, delle loro future generazioni. Quest’Europa, e non altro, giacchè spreco, evasione fiscale, eccesso di burocrazia e corruzione in Italia c’erano anche prima che entrasse a far parte della UE, ha ridotto in pochi anni il nostro paese, da sesta o settima economia mondiale che era, quasi a paese del “terzo mondo”, distruggendo la sua economia industriale, la sua agricoltura, tutti i suoi principali settori produttivi, compreso lo stesso turismo, e sacrificando in pari tempo tutti i nostri legittimi interessi nazionali al mercato finanziario globale che detta le regole e le condizioni della nostra vita pur avendo poco o niente a che fare con il mercato economico reale nazionale ed internazionale.

Da quest’Europa a guadagnarci o almeno a non potersene ancora troppo lamentare è la Germania, che non a caso a suo tempo la propose e la impose nella sua forma attuale come conditio sine qua non del suo ingresso in essa. Tuttavia, non è oggi ragionevole recriminare contro la nazione guidata dalla cancelliera Angela Merkel: la Germania ha saputo fare i suoi interessi, mentre altri paesi, tra cui in primis l’Italia, non solo non hanno saputo e a tutt’oggi non sanno fare i propri interessi ma sembrano essere anche dominati da una specie di dipendenza psicologica dalla Germania e dai poteri finanziari indubbiamente molto forti che stanno in questo momento storico alle sue spalle ma che hanno ramificazioni in tutte le parti del mondo e che sono pronti a trasferirsi e a piantare le tende dovunque, in un prossimo futuro, dovessero venire a crearsi le condizioni più favorevoli di un loro amplificarsi e perpetuarsi. Non bisogna dunque recriminare pur essendo necessario svincolarsi il più presto possibile da un’Europa che sembra fare sempre più tutt’uno con la Germania.

Oggi, il principale problema politico dei vari Stati nazionali europei è come sia possibile far ripartire l’economia e il lavoro, i consumi delle famiglie e gli investimenti; problema che richiede risposte responsabili, rapide ed efficaci. Il che significa che il primo passo da fare consiste in una radicale inversione di marcia rispetto alle attuali politiche monetarie e fiscali dell’UE e della BCE. Occorre rivedere, possibilmente di comune accordo, i Trattati su cui entrambe si fondano e allentare notevolmente i parametri forcaioli previsti dal Fiscal Compact.

In ogni caso l’Italia, in virtù di un ritrovato rispetto per i suoi ordinamenti democratici, non potrà più accettare la situazione attuale: se le necessità del suo popolo lo richiederanno, dovrà violare i parametri europei sforandoli per quel tanto che sarà per l’appunto necessario alla sua economia. In passato a sforare il tetto del 3% sono state la Germania e la Francia senza che nessuno abbia battuto ciglio: perché ora l’Italia non potrebbe fare la stessa cosa? L’Italia potrà forse essere multata ma non cacciata, essendo uno dei paesi fondatori della Comunità Europea e una delle più forti economie mondiali nonostante la crisi. Senza l’Italia crollerebbe il progetto di integrazione europea e ogni sua possibilità di sviluppo.

Su questo terreno, come anche su quello giuridico-culturale ed etico-educativo, i cattolici devono essere pronti a lottare: o per una sostanziale e complessiva rifondazione dell’Europa, o per un ritorno quanto più incruento possibile ad un’autonoma politica nazionale e alla nostra lira. Devono essere pronti a lottare anche insieme ad altri, ben sapendo però che le idealità e i fini del loro impegno politico, a differenza di quelli di altre forze politiche “laiche”, dovranno essere sempre concepiti alla luce e in funzione del vangelo di Cristo. Non c’è momento storico in cui quest’ultimo, se pensato e vissuto rettamente, non produca prima o poi novità sorprendentemente feconde e fruttuose nella e per la vita degli uomini. Ogni volta che il vangelo viene adottato come reale e non fittizio criterio orientativo dell’impegno personale o comunitario nel mondo, accade inevitabilmente qualcosa di bello e di buono, di umanamente rilevante, con importanti ricadute anche sul sociale e sull’economico, sia pure attraverso momenti di grande sofferenza individuale e/o collettiva. Questo la fede in Cristo ci induce a credere e a sperare non solo per quanto riguarda le nostre speranze metastoriche ma per ciò che riguarda le nostre stesse speranze storiche, pur sapendo bene che i poveri, come gli oppressi e i malati e ogni categoria di sofferenti, saranno sempre con noi.

Ragion per cui, dopo le tante e prolungate disavventure politiche del mondo cattolico, sarebbe ben auspicabile che una nuova generazione spirituale di cattolici, non più disposti a lasciarsi strattonare da una parte e dall’altra a vantaggio di interessi decisi da poteri o potentati per niente in linea con valori evangelici di giustizia e di solidarietà, di libertà morale e condivisione, si mettessero in piena autonomia alla guida di un movimento di profondo rinnovamento delle coscienze e degli stessi assetti di potere di un mondo gravemente malato. Nel nome e per conto di nostro Signore Gesù Cristo.

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