I cattolici e la delinquenza politico-istituzionale

giudiciTutto si può fare in democrazia tranne che sovvertire in modo repentino e sovversivo i princípi e le regole costituzionali su cui essa è fondata, specialmente se le intenzioni sovvertitrici siano esplicitamente funzionali alla difesa degli interessi personali di singoli individui o addirittura di colui o colei che presieda il governo di una Nazione. Adesso, per quanto riguarda l’Italia, la misura è colma. Anche a voler essere oltremodo generosi verso l’attuale Presidente del Consiglio, non è obiettivamente possibile disconoscere né il suo modo spiccatamente guascone di comunicare con il popolo, di contrapporsi agli avversari politici, di esercitare critiche verso altri poteri dello Stato, né la sua concezione plebiscitaria e strumentale del consenso democratico (anche quando in realtà venga registrandosi, come negli ultimi tempi, un’evidente flessione di tale consenso), né il suo sostanziale disprezzo verso i necessari contrappesi democratici che rivestono una funzione di controllo sui pesi e quindi sui poteri costituiti e in primo luogo sul potere legislativo ed esecutivo, né in definitiva una vera e propria idiosincrasia verso l’essenza stessa della democrazia i cui confini invalicabili sono segnati dal principio della divisione dei poteri e dal divieto di emanare leggi che siano manifestamente prive di requisiti costituzionali tra i quali per esempio il principio di uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Si dà il caso che l’attuale presidente del Consiglio, forte di un esercito di parlamentari servili ed interessati a gestire direttamente o indirettamente potere, sembri ormai irreversibilmente proteso verso l’emanazione di una serie di leggi ad personam e di provvedimenti legislativi che finiscano per neutralizzare quello che in questo frangente storico-politico è certamente l’avamposto più significativo della nostra democrazia ovvero la magistratura. Da una parte il cosiddetto “processo breve”, dall’altra l’invio di ispettori ministeriali alla Procura della Repubblica di Milano, dove dovrebbero celebrarsi tutti i processi contro Berlusconi, e la minaccia di un’ulteriore legge volta a congelare tali processi, costituiscono l’acme di una precisa volontà politica di attentare alla nostra Costituzione. E’ infatti molto difficile ravvisare un carattere di costituzionalità nella legge sul “processo breve”, e anzi sembra totalmente incomprensibile sia logicamente sia giuridicamente l’assunto di voler concedere a degli incensurati sessantacinquenni il privilegio di vedersi sottratti a possibile pena là dove un giudice non riesca a concludere entro un determinato periodo di tempo, senza demerito personale ma per l’oggettiva complessità dell’indagine, un procedimento a loro carico.

Tante sono le possibili obiezioni, tra cui le seguenti: perché questo privilegio spetterebbe a un sessantacinquenne e non ad un sessantaquattrenne, perché ad un sessantacinquenne che pur incensurato abbia commesso un grave reato contro la pubblica amministrazione o contro un minore ecc. non debba essere comminata alcuna pena, quale sarebbe il particolare merito morale di un individuo che non sia stato colpito da sanzioni giudiziarie sino a 65 anni dopo essere riuscito magari ad infrangere o ad aggirare la legge per tutta una vita attraverso potenti strumenti di corruzione, quale sarebbe peraltro il merito di un siffatto individuo rispetto ai meriti ben più alti e civilmente apprezzabili di una persona che giunga ai 65 anni con una qualche condanna “nobile” come può essere di certo definita quella di chi si sia battuto coraggiosamente contro prepotenti e malfattori di ogni genere senza talvolta riuscire a dimostrare completamente in giudizio la fondatezza delle sue accuse o l’innocenza dei suoi atti. In che modo mai, alla luce di queste obiezioni, potrebbe essere garantito il rispetto del principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge? Non sono solo gli effetti che il “processo breve” potrebbe produrre a dover impensierire il Capo dello Stato ma proprio la struttura non costituzionale di questa irragionevole legge.

I cattolici, d’altra parte, dovrebbero essere ben consapevoli, e non sempre lo sono o si sforzano di esserlo, delle vere finalità di certi provvedimenti governativi e parlamentari come quelli cui si sta facendo riferimento. Non basta infatti riconoscere che tale legge recepisce «l’urgenza dell’attuale presidente del Consiglio di risolvere i suoi guai con taluni magistrati di Milano» pur potendosi giustificare come risposta adeguata alla  «costanza (non priva di forzature procedurali, né, talvolta, perfino di venature d’astio) con la quale questi ultimi lo incalzano ormai da quasi vent’anni», (Danilo Paolini, Al di là delle partigianerie, i nodi non saranno sciolti. Ma non chiamatelo «processo breve», in “Avvenire” del 14 aprile 2011). Non basta: intanto perché dei cattolici corretti dovrebbero facilmente supporre che se pochi o molti giudici “incalzano Berlusconi da quasi vent’anni” ciò sia dovuto probabilmente al fatto che lo ritengano immerso, sulla base di precisi e oggettivi riscontri di indagine, in una rete di operazioni finanziarie cosí oscure e sospette e in una serie di atti corruttivi cosí gravi, da non potersi esimere dal perseguirlo penalmente. Quali atti di eroismo civile avrebbe mai compiuto questo ricchissimo e potente signore di Milano per destare il sospetto in noi altri cattolici che egli sia ingiustamente perseguitato dalla giustizia italiana? Ma poi è sufficiente esaurire la critica cattolica a questa legge ad personam col rilevare che essa «non servirà ad abbreviare i tempi dei processi» (ivi) o non è necessario sottolineare proprio il carattere fraudolento ed eversivo di questo provvedimento legislativo, la sua natura manifestamente arbitraria antiegualitaria e incostituzionale?

E’ solo una questione giuridica e politica cui i cattolici possono anche non dedicarsi con grande partecipazione spirituale oppure è la spia di una mentalità cosí rozza e delinquenziale di governo da doverli indurre ad una reazione molto preoccupata ed energica, ad una opposizione finalizzata ad arginare evangelicamente nella società italiana la corruzione e una già dilagante prassi affaristica basata su comportamenti di estesa o diffusa illegalità? Per i cattolici attentare alla Costituzione nel nome di interessi personali e di sia pure inconfessati obiettivi autoritari è un peccato contro Dio e contro gli uomini oppure è una di quelle questioni su cui si può evangelicamente rimanere indifferenti? Non è compito precipuo di un buon cattolico impedire che la propria comunità religiosa venga contaminata da uomini malvagi ed empi anche nel caso in cui quest’ultimi dovessero essere capaci di elargire a suo favore cospicue somme di denaro o notevoli facilitazioni fiscali? Non deve preoccuparsi il buon cattolico di contribuire alla costruzione di una società quanto più sana possibile a cominciare proprio dalle strutture politiche e giuridiche su cui si regge la sua complessiva articolazione? Perché di questo oggi si tratta: c’è una maggioranza parlamentare e di governo che ormai pensa di fare delle leggi a proprio uso e consumo, che tenta di indebolire sistematicamente altre autorevoli istituzioni dello Stato democratico che si mettano di traverso ai suoi piani eversivi, di rallentare o bloccare i legittimi processi in atto contro il loro leader.

Sí, di questo si tratta: c’è una vera e propria associazione per delinquere che fa capo a Berlusconi i cui membri sono pronti a sacrificare ogni principio e ogni valore alla difesa ad oltranza del loro leader perché sanno che senza questo leader essi non hanno più un futuro politico e non solo politico. E molti degli stessi sostenitori di questo personaggio, privi ormai di qualunque giustificazione etica e politica, restano fedeli solo perché psicologicamente e antropologicamente molto affini al premier. Dunque, per i sinceri democratici come per i cattolici onesti si pone inderogabilmente una domanda: si può impunemente attentare alla Costituzione, e beninteso ad una Costituzione che ancora oggi ci è invidiata in tutto il mondo, per mezzo di proposte verbalmente volte ad emanciparla ma intenzionalmente tese a vanificarne completamente lo spirito? E’ cristianamente accettabile che una nazione come l’Italia, centro della cristianità mondiale, continui ad essere governata da un presidente del Consiglio affetto da evidenti disturbi psicotici che dà in misura crescente segni inequivoci di un’arroganza istituzionale e di un’arroganza tout court  molto prossima all’arroganza di chi si appresti a voler mutare un sistema democratico in sistema dittatoriale? 

Non sussistono ormai tutti gli estremi perché questo personaggio e i suoi servili uomini e donne di partito vengano denunciati per attentato alla Costituzione, processati ed eventualmente condannati al pari di tutti coloro che attentano alle libere istituzioni dello Stato repubblicano e democratico? Non mi pare di essere eccessivo, di essere poco caritatevole, perché biblicamente i violenti, ovvero in questo specifico caso tutti coloro che nel nome del popolo antepongono spudoratamente i propri interessi privati agli interessi generali della comunità nazionale, vanno isolati almeno sino a quando si sia certi che non possano più nuocere alla civile convivenza. Cesare per essere rispettato dai cristiani deve essere sufficientemente onorevole e autorevole, capace di rispettare le leggi e le istituzioni dello Stato senza mai ergersi al di sopra di esse o contro esse, immune da tentazioni prevaricatrici di qualunque genere e sinceramente orientato a perseguire fini sociali di giustizia ed equità, nonché privo dell’inconscia o conscia pretesa di prendere il posto di Dio stesso. 

Peraltro, questa posizione si richiama né più né meno a quanto recita l’art. 68 della Costituzione: «Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza». Dunque, come si vede, il parlamentare che “sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza” – e attentare sistematicamente alla Costituzione e ai poteri o a qualche potere costituito dello Stato, come fanno Berlusconi e la sua invereconda maggioranza parlamentare e governativa, è certo un delitto per il quale è previsto l’arresto – può essere arrestato. Per cui non ci sarebbe nulla di scandaloso nel fatto che i partiti di opposizione e tutti i cattolici onesti chiedano formalmente al Capo dello Stato di sciogliere il Parlamento e in pari tempo presentino alla Corte Costituzionale un’istanza con la quale si chieda il perseguimento penale di tutti questi patentati nemici della democrazia e del buon vivere.

Quanto all’uomo Berlusconi, per il quale noi dobbiamo pregare affinché si converta e rinunci sia alla sua spasmodica brama di ricchezza e di potere sia alle sue inclinazioni naturali più negative e perverse, egli per ora non può continuare a dire di essere “uno di noi”. Non può essere uno di noi, perché noi temiamo il giudizio di Dio, perché noi non ci riteniamo semidei, perché noi non desideriamo fomentare l’odio e lo spirito di discordia ed amiamo la giustizia indipendentemente dai nostri interessi personali, perché noi ci sforziamo ogni giorno di non fare continuamente sfoggio di incontrollata superbia e di insopportabile arroganza. Può essere uno di noi solo perché come ognuno di noi è un essere mortale che dovrà lasciare le cose di questo mondo e rendere conto a Dio del suo operato.

I cattolici secondo Raniero La Valle

Con la sua consueta chiarezza, Raniero La Valle ha lamentato come la politica, a fronte di un presenzialismo forse doveroso ma spesso discutibile o ambiguo della Chiesa gerarchica nelle vicende politiche del nostro paese, resti generalmente estranea agli interessi dei laici cattolici e come quindi essi appaiano colpevolmente silenti nella Chiesa come nella stessa vita pubblica italiana (Chiesa, che fare?, in I laici cattolici lontani dalla politica. I cattolici politici lontani dalla realtà, in “Koinonia”, 250, 13 marzo 2011). L’eminente intellettuale cattolico sostiene che il popolo cristiano abbia cominciato a deresponsabilizzarsi sotto l’aspetto politico a partire dal venir meno della Democrazia Cristiana nel cui ambito per decenni erano venute coesistendo, pur fronteggiandosi talvolta anche aspramente, diverse sensibilità e opzioni politiche piuttosto variegate o eterogenee. Da allora i cattolici non fanno più politica, semplicemente la subiscono, trasformandosi da soggetti in oggetti dell’agire politico. Ciò naturalmente non significa che oggi i cattolici siano scomparsi dalla scena politica, perché si può facilmente constatare come persone di dichiarata fede cattolica siano presenti in tutti i partiti politici e operino in parlamento. Il fatto è però che della presunta ispirazione cristiana della loro vita e della loro attività politica poco o niente si manifesta nella vita pubblica e «e in nessun modo il movente cristiano, nella laicità dell’agire politico, appare produttivo di specifiche proposte e percepibili risultati» (ivi).

Latita nel loro modo di pensare, di essere e di agire, la fede nella sua accezione più rigorosamente evangelica; la fede qui non è più una forma mentis che ti ponga insanabilmente in conflitto con certe bassezze oggettive del mondo e ti obblighi a rinunciare persino a certe tue legittime aspirazioni ove il perseguimento di queste contrasti con un sentire cristiano non annacquato, ma è solo un distintivo, un titolo o una qualifica richiesti da una diffusa concezione perbenistica ed opportunistica della vita e della stessa vita sociale, che induce a razionalizzare persino i fatti più perversi ed infami e a giustificare nei modi più spericolati quella che in vero altro non è se non la rimozione da sé di ogni più elementare senso di moralità e di reale e responsabile partecipazione alla vita etica di un’intera nazione. La fede allora, stando cosí le cose, si trasforma o si capovolge in mero uso strumentale della fede stessa, in un clericalismo, molto spesso presente nella vita politica, il quale appare volto sostanzialmente a soddisfare tutti i desiderata della Chiesa istituzionale.

E si capisce allora che la fede non venga più usata per servire Cristo e la sua Chiesa considerata nella sua interezza e in tutta la profondità delle sue vere esigenze ecclesiali ma come paravento di malcelate e vicendevoli pratiche di baratto tese a garantire alle parti contraenti cospicui vantaggi di natura molto più politica ed economica che non realmente spirituale. D’altra parte, molti clericali sono anche tra i non cristiani: si pensi agli “atei devoti”, ai dirigenti pagani della Lega Nord e allo stesso Berlusconi «nonostante l’harem mantenuto a Milano» (ivi). Ma, osserva amareggiato La Valle, «la cosa più grave è che nella situazione attuale, nonostante gli appelli per l’ingresso di una nuova generazione di cattolici nella politica, non si dà alcuna possibilità che si ripristini una tale presenza cristiana, fino a che non siano rimosse le cause che la impediscono» (ivi).

Quali sono queste cause? E’ il caso di riportare integralmente il pensiero di La Valle: «1) La prima causa è il sistema di bipolarismo selvaggio che è stato introdotto in Italia, che trasforma il confronto politico in una lotta ad oltranza tra amico e nemico. Questo stile di lotta non si addice ai laici cristiani. Pensate a uomini come Sturzo, Moro, De Gasperi, Dossetti, La Pira, gettati nella fornace dell’attuale massacro televisivo che si ripete ogni sera; 2) La seconda causa che preclude un’efficace presenza dei cattolici è legata alla prima. Il sistema è fatto solo per chi sia o pretenda di essere maggioranza. Chi non ha una “vocazione maggioritaria”, come viene chiamata, ma ha uno spirito di profezia o una proposta politica che oggi è di minoranza ma che può diventare di maggioranza domani, è in via di principio escluso dal sistema. Il sistema bipolare e maggioritario esclude le minoranze o ne pretende l’assimilazione all’una o all’altra parte contendente. Ora è a tutti noto che i cristiani sono una minoranza. Lo erano anche ai tempi della Democrazia Cristiana, ma allora il sistema politico permetteva che essi, al di là della loro forza numerica, esercitassero un’egemonia o almeno un’influenza culturale e politica su molte altre componenti della società italiana, e perciò potevano governare. Oggi l’assimilazione dei cattolici nell’uno o nell’altro blocco non può avvenire che attraverso patti compromissori e subalterni, come furono il Patto Gentiloni nel 1913 e le alleanze clerico-moderate e clerico-fasciste dei primi decenni del Novecento, contro cui combatté con la tattica dell’“intransigenza” Luigi Sturzo, dando cosí un’identità politica all’elettorato popolare cattolico e dando inizio alla stagione del cattolicesimo politico democratico, oggi interrotta.

Perciò solo con il ritorno alla proporzionale ci può essere un ritorno dei cattolici alla politica, da realizzarsi attraverso l’autonomia di partiti laici in cui sia possibile elaborare e promuovere contenuti evangelici nelle scelte politiche, in dialogo con le proposte di altre culture e nel libero confronto con gli altri partiti» (ivi).

Ma la presenza cristiana nella vita politica e sociale nazionali, scrive l’intellettuale cattolico con grande franchezza evangelica, viene impedita principalmente dalla stessa Chiesa istituzionale nonostante la ricorrente e paternalistica esortazione, da essa rivolta al mondo cattolico, a voler ricostituire un saldo nucleo di nuovi e giovani politici di sincera ispirazione cristiana che provvedano a rimettere ordine nelle vicende sempre più caotiche e deplorevoli della scena politica italiana e a conferire un senso autenticamente cristiano all’agire politico del presente e delle future generazioni. Infatti, spiega La Valle, la verità è che quello che un tempo era stato il compito dei politici cattolici oggi «se lo è attribuito la stessa Chiesa, che tratta direttamente con lo Stato per ottenere ciò che giudica utile al bene comune e “non negoziabile” sul piano dei princípi. Ora, dove si esercita un potere diretto della Chiesa gerarchica, una “potestas indirecta”, come si diceva una volta, esercitata attraverso gli stessi poteri politici statali, non può esserci spazio per la mediazione di istanze laicali (come le ACLI, le Caritas, Pax Christi e simili), né può esserci spazio per una azione politica autonoma dei laici cristiani. E infatti se dei laici cristiani si dichiarano cattolici adulti, e dunque non soggetti in politica alle direttive ecclesiastiche, vengono considerati disobbedienti e abbandonati al loro destino. Per preservarsi l’autonomia Sturzo decise che il Partito Popolare di tutto doveva occuparsi tranne che della “questione romana”, perché di quella si occupava direttamente la Chiesa che rivendicava “i diritti imprescrittibili della Santa Sede”, e non avrebbe potuto un partito laico fatto da cattolici avere in materia alcuna autonomia politica. Tuttavia questa rinunzia non bastò a salvarlo quando la Chiesa di allora tra lui e il fascismo, scelse la conciliazione col fascismo. Una situazione analoga potrebbe aversi oggi quando la Chiesa dei vescovi e della Segreteria di Stato fa delle scelte di priorità e di “principi non negoziabili” che a suo parere dovrebbero essere obbliganti per tutti, cattolici e no. Per la stessa loro necessaria parzialità, si tratta tuttavia di scelte opinabili» (ivi). 

Di esemplificazione in esemplificazione, il ragionamento dell’intellettuale cattolico, pur tra concetti che andrebbero talvolta meglio definiti e precisati, prosegue significativamente cosí: «La Chiesa può ritenere ad esempio prioritario opporsi a una legislazione sulle coppie di fatto, ma altrettanto legittimamente laici cristiani possono ritenere prioritario opporsi a una legislazione che criminalizza gli stranieri. La Chiesa difende il Concordato, che non è oggi in pericolo, i laici cristiani prima ancora potrebbero preoccuparsi della Costituzione, che è in pericolo, e da cui del resto anche il Concordato dipende. La Chiesa lotta per l’incremento delle scuole cattoliche, i laici potrebbero sentire piuttosto l’urgenza di lottare per salvare quanto resta della scuola di tutti e perché non sia spenta la scuola di Stato. La Chiesa al di sopra di ogni altro interesse politico sostiene oggi i cosiddetti “movimenti pro-vita”, che difendono soprattutto la vita non nata; i laici cristiani hanno oggi l’assillo di salvare l’uomo vivente, stracciato dalla politica e immiserito dal mercato, e di promuovere la qualità della vita, a cominciare dal lavoro; i vescovi americani contrari alla riforma sanitaria che medicalizza l’aborto, preferiscono un’America senza Obama, i laici cristiani hanno molte ragioni per volere un’America governata da Obama.

L’altra ragione per cui i laici cristiani sono oggi lontani dalla politica, è per il disorientamento che pervade molti di loro di fronte a quello che percepiscono come un appoggio della Chiesa al premier Berlusconi. Essi sono turbati nel vedere che la Chiesa ancora sostiene e fornisce credenziali a un Presidente del Consiglio che, al di là delle sue pratiche di vita e di governo, sta corrodendo alla radice l’anima del Paese. Egli si pone infatti come modello, si pone come esempio di vita; con mezzi potentissimi prende il posto di ogni altro Maestro, e perciò della stessa Chiesa; e in questa veste egli si pone come il più grande diseducatore di massa che questo paese abbia mai avuto. Eppure la Chiesa tace su di lui, e anzi ogni critica gli viene risparmiata, con l’argomento che essa sarebbe viziata da moralismo politico; e se gli scappa una bestemmia, si dice che essa deve essere contestualizzata, cioè non presa sul serio; purtroppo però il contesto è quello dell’idolatria, idolatria del potere, da non lasciare a nessun costo, idolatria del denaro, con cui comprare tutto, cose, istituzioni e persone; idolatria del piacere, rivendicato come legittimo sia in pubblico che in privato.

Ma perché la Chiesa gli mantiene il suo appoggio? Questa scelta pesa sull’animo di molti cittadini, e rischia di compromettere altri beni non politici molto più importanti, a cominciare dalla predicabilità stessa del Vangelo, che da una Chiesa in perdita di credibilità potrebbe trovare maggiore difficoltà di ascolto. Si deve pensare pertanto che le ragioni della Chiesa siano molto serie, e motivate dal bene comune; ci sono alcuni però, tra gli osservatori esterni, che arrivano ad accusare la Chiesa di simonia, perché dal mantenimento della situazione attuale essa trarrebbe vantaggi anche economici. È un’accusa bruciante, che la Chiesa potrebbe pensare di non dover neanche raccogliere. Credo invece che essa non la debba ignorare, né limitarsi a respingerla come falsa, ma dovrebbe argomentare le sue ragioni e avere l’umiltà di dare una prova della sua buona fede, per non far dubitare di sé.

E la via c’è, ed è suggerita dal Concilio quando al n. 76 della Costituzione pastorale “Gaudium et Spes” dice che “la Chiesa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni”. Il consiglio che si potrebbe dare alla conferenza dei vescovi italiani è che, finché si mantenga l’appoggio al presente governo, per evitare che ciò possa essere interpretato anche minimamente come legato ad interessi materiali, essa rinunzi provvisoriamente e unilateralmente all’esenzione dall’ICI e ai finanziamenti alle scuole cattoliche, e ciò anche per sottrarre al governo la materia con la quale esso volesse tentare anche con la Chiesa una delle sue opere di corruzione» (ivi, i grassetti sono miei).

Solo quando il terreno sarà sgomberato da tutti questi equivoci e la Chiesa istituzionale tornerà a parlare il linguaggio non diplomatico ma chiaro e tagliente di quella vivente Verità, che da duemila anni sta rendendo liberi tutti coloro che se ne facciano seguaci e interpreti rigorosi e attendibili, fedeli e non distratti da alcuna preoccupazione mondana, i cattolici potranno sentirsi veramente incoraggiati a vivere la politica come una seconda “beruf”, come una seconda vocazione accanto a quella battesimale della loro volontà di rinascita in Cristo Signore.

Valori non negoziabili e diritti indisponibili

Per papa Benedetto XVI si danno “princípi non negoziabili”, in particolare la difesa della vita biopsichica in tutte le sue fasi (dalla vita embrionale sino alla morte naturale), la difesa della struttura naturale eterosessuale della famiglia con connesso rigetto di forme alternative di famiglia, il diritto dei genitori di educare i propri figli secondo i propri convincimenti morali e nelle forme educative più rispondenti alla loro idea di persona. Questi princípi, disse il papa qualche anno fa, «non sono verità di fede anche se ricevono ulteriore luce e conferma dalla fede. Essi sono iscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa» (Discorso ai parlamentari del Partito Popolare europeo ricevuti in udienza il 30 marzo 2006).

L’espressione “principî non negoziabili” venne ripresa poi con maggior forza in un successivo documento del Magistero dello stesso pontefice, ovvero nell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis (incentrata sull’Eucarestia): «Il culto gradito a Dio, infatti, non è mai atto meramente privato, senza conseguenze sulle nostre relazioni sociali: esso richiede la pubblica testimonianza della propria fede. Ciò vale ovviamente per tutti i battezzati, ma si impone con particolare urgenza nei confronti di coloro che, per la posizione sociale o politica che occupano, devono prendere decisioni a proposito di valori fondamentali, come il rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli e la promozione del bene comune in tutte le sue forme. Tali valori non sono negoziabili (SC 83)». Tra i laici non credenti molti (o pochi, non saprei dire esattamente) possono storcere il naso, senza che il loro dissenso peraltro debba essere ritenuto necessariamente fondato e giustificato, ma non si capirebbe per quale motivo almeno i laici credenti e cattolici non debbano condividere pienamente le parole del pontefice.

Infatti, è senz’altro possibile che, come tutti i grandi princípi dell’esistenza umana, anche questi princípi ammettano o prevedano determinate eccezioni (perché evangelicamente non c’è dubbio che una creatura originata da uno stupro acclarato o un bambino affidato alle cure di persone omosessuali che in quanto privo di genitori e di altri familiari in esse trovi provvisoriamente o permanentemente gli unici punti di riferimento, oppure coniugi che benché cattolici vengano esercitando il loro diritto di educare i figli in modo cosí oppressivo e violento da renderlo illegittimo, pongono alla coscienza cristiana domande molto serie alle quali non sempre si può rispondere univocamente nel segno del rispetto formale dei princípi fissati dalla Chiesa). Anche qui può valere il riferimento evangelico al rapporto tra la legge e il sabato: di sabato non si lavora e non si guarisce, ma naturalmente se il tuo asino è in pericolo vai a soccorrerlo e se una persona è ferita a maggior ragione le presti soccorso e fai in modo che guarisca.

Ma queste o simili “eccezioni” nulla tolgono all’universalità dei princípi ben fissati dal papa, secondo i quali appunto il credente in Cristo non può certo mettere in discussione, senza incoerenza da parte sua, né il principio del sacro valore della vita e della sua inviolabilità dal momento del concepimento sino alla sua fine naturale, né quello della struttura monogamica ed eterosessuale della famiglia, né quello per cui i genitori abbiano il diritto di educare i propri figli liberamente ed autonomamente in conformità ai propri valori e alla propria fede. E’ pur vero che ognuno resta pur sempre libero di fare quello che vuole (nel senso che Gesù propone e non impone pur avvertendo sui vantaggi e sugli svantaggi oggettivi delle nostre scelte), ma per un cattolico onesto e timorato di Dio dovrebbe essere chiara la differenza tra la libertà come strumento di scelte arbitrarie e deprecabili e la libertà come strumento di adesione impegnativa e sofferta ma quanto più possibile rigorosa e fedele ai dettami evangelici.    

Il problema può nascere tuttavia, e non ci si può stupire che anche nella Chiesa si confrontino periodicamente posizioni divergenti e contrastanti sia pure sulla base della comune fede in Cristo e nel suo Vangelo, quando si afferma che quei valori, (“dignità della persona umana”, “indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale”, “libertà religiosa e libertà educativa e scolastica”, “famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna”), sarebbero l’unico fondamento su cui “si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori”, quali il lavoro, la casa, la libertà d’impresa, l’accoglienza verso gli immigrati, l’ecologia, la lotta all’illegalità, e via dicendo, come ha recentemente affermato il cardinale Bagnasco nella sua relazione introduttiva all’ultimo Consiglio permanente della CEI (settembre 2010), perché evidentemente occorre rendersi conto che il discorso sulla vita non può essere separato da quello sulla giustizia in tutte le sue forme, che il problema della famiglia non può essere affrontato a prescindere da quello della solidarietà sociale e dalle forme politico-legislative in cui essa venga manifestandosi, che la difesa dell’embrione non vale più della vita di un bambino o di un adolescente o di un vecchio cui non vengano garantite condizioni minime di dignità, che l’accoglienza verso gli immigrati non è proponibile indipendentemente da una saggia e responsabile valutazione delle oggettive possibilità di accoglimento in questa o quella nazione.

Il problema, questo problema, può essere invece evitato o risolto se, evitando di stabilire delle priorità gerarchiche, si comprende come tutti questi valori, che hanno sempre e comunque a che fare con l’amore e la vita concreta di persone concrete, abbiano evangelicamente pari dignità e come tutto ciò che concorre a difendere la dignità della persona, in tutti gli ambiti e le fasi della sua vita, rientri in un unico, articolato ma indivisibile complesso valoriale non negoziabile. Anche perché, a ben vedere, Gesù incentra in modo esplicito il suo messaggio di salvezza sulla testimonianza della e delle verità divine, sul perdono reiterato, sull’amore come misericordia e come carità, sulla volontà di condivisione, sullo spirito di giustizia e di pacificazione, sulla necessità della preghiera e sulla disponibilità ad offrire incondizionatamente la propria vita a Dio e per i fratelli. Il che, naturalmente, non significa insinuare il dubbio che su aborto e divorzio, su matrimonio e famiglia, Gesù abbia espresso idee diverse da quelle oggi sostenute dalla Chiesa e dai suoi figli più degni, ma significa semplicemente ricordarsi che valori non negoziabili e prioritari, per i seguaci di Gesù furono nel passato e sono nel presente, in pari grado, tutti quei valori che abbiano a che fare con l’esistenza umana considerata nella sua interezza e nella globalità dei suoi aspetti, dei suoi momenti e dei suoi significati.

Perciò, se accade che la Chiesa insista su temi pure delicatissimi quali il nascere e il morire in sede di bioetica, il fondamento eterosessuale e non anche omosessuale della famiglia, la fecondazione naturale piuttosto che quella artificiale, la libertà educativa e scolastica e soprattutto religiosa più che la libertà politica, molto di più che non su temi ugualmente importanti quali la giustizia sociale, una lotta non omissiva o elusiva per la legalità e per il superamento di antiche e sempre nuove discriminazioni sociali, l’impegno concreto e fattuale per una economia e una società meno privatistiche e meno dominate da profitto e spirito di competizione e più egualitarie e aperte alla cooperazione e ad istanze civili di tipo comunitario più che contrattuale, se accade questo vuol dire che nella spiritualità della Chiesa ci sono punti deboli che necessitano di essere potenziati e pratiche o costumi ecclesiali che vanno cambiati in modo più o meno radicale perché siano capaci di veicolare integralmente e non parzialmente il vangelo di Cristo.

Purtroppo, a volte sembra difficile non convenire su alcuni rilievi critici provenienti dal mondo laico non credente: «Siamo davanti ad una religione deteologizzata, che cerca una compensazione in una nuova enfasi sulla “spiritualità”. Ma questa si presenta con una fenomenologia molto fragile, che va dall’elaborazione tutta soggettiva di motivi religiosi tradizionali sino a terapie di benessere psichico. I contenuti di “verità” religiosa teologicamente forti e qualificanti – i concetti di rivelazione, salvezza, redenzione, peccato originale (per tacere di altri dogmi più complessi)-, che nella loro formulazione dogmatica hanno condizionato intimamente lo sviluppo spirituale e intellettuale dell’Occidente cristiano, sono rimossi dal discorso pubblico. Per i credenti rimangono uno sfondo e un supporto “narrativo” e illustrativo, non già fondante della pratica rituale….Ma viene il dubbio che ciò che soprattutto preme oggi agli uomini di Chiesa nel loro discorso pubblico sia esclusivamente la difesa di quelli che essi chiamano “i valori” tout court, coincidenti con la tematica della “vita”, della “famiglia naturale” e i problemi bioetici, quali sono intesi dalla dottrina ufficiale della Chiesa. Non altro. La crescita delle ineguaglianze sociali e della povertà, la fine della solidarietà in una società diventata brutale e cinica (nel momento in cui proclama enfaticamente le proprie “radici cristiane”), sollevano sempre meno scandalo e soprattutto non creano impegno militante paragonabile alla mobilitazione per i “valori non negoziabili”» (G. E. Rusconi, Le amnesie dei cattolici in politica, in “La Stampa” del 28 dicembre 2010).

A volte si ha la sgradevole sensazione che la Chiesa tenda a culturalizzare troppo la sua fede anziché annunciarla e presentarla nella sua originaria, prorompente e provocatoria nudità spirituale: ciò avviene quando non di rado, anziché proclamare profeticamente il perdono e la giustizia di Dio, invocare evangelicamente il rispetto dei deboli e dei bisognosi, protestare biblicamente contro ogni genere di sopruso umano e di offesa a Dio, sollecitare frequentemente la coscienza a percepire in modo più solerte il significato e la portata del mondo che verrà, essa sembra più interessata a discutere di modernità e postmodernità, di ragione e fede, di teologia e scienza, di approccio “scientifico” o ermeneutico alle sacre scritture, di tecniche della comunicazione, anche ma non solo nel chiuso delle sue accademie e delle sue università, e più intenta a riempire i suoi discorsi o i suoi proclami religiosi di ordinati e precisi (nei casi migliori che in verità non sono molti) ma quasi sempre noiosissimi ed esangui costrutti concettuali ed esegetici.

La Chiesa, che deve peraltro sopportare il peso dei suoi scandali e di una sua palese e non trascurabile immoralità, generalmente non sembra rendersi conto che il suo popolo, pur ancora affollando talvolta le sue piazze e i suoi edifici religiosi e cultuali, appare sempre meno coinvolto dalle sue omelie e dalle sue prediche non prive di buone intenzioni ma caratterizzate da genericità ed astrattezza crescenti anche quando i temi affrontati siano essenziali o centrali nella vita dei fedeli, dal suo modo di comunicare e testimoniare il vangelo perché sempre meno capace di turbare le menti e scuotere le coscienze di credenti e non credenti e di veicolare in esse quel santo ed entusiastico desiderio di radicale cambiamento interiore che nei primi secoli di cristianesimo fungeva da vero e proprio motore della speranza escatologica cristiana circa l’avvento di un perfetto regno divino di giustizia e di pace.

Beninteso, non mi sembrano né sobrie né veritiere le accuse di quanti imputano alla Chiesa di non includere tra i suoi valori primari la solidarietà, l’accoglienza, la lotta alla corruzione, la giustizia sociale, perché moltissime sono le pagine della storia della Chiesa sulle quali sono e resteranno indelebilmente scolpiti gli atti di dedizione e di amore di tantissimi martiri cristiani e cattolici, ivi inclusi moltissimi rappresentanti del clero e del complessivo ordinamento religioso cattolico, che con il sacrificio spesso estremo della propria vita hanno reso in tutti i secoli omaggio a quei valori. Né mi paiono del tutto obiettive e incontrovertibili tutte quelle indagini storiche volte a dimostrare che i rapporti della Chiesa con lo Stato italiano e quindi con il potere, a partire dall’unità d’Italia, siano sempre stati di ambiguità e/o di collusione, e che il ruolo della Chiesa, per quanto riguarda in particolare la storia del novecento, sia stato quello di fungere da «“sponda” essenziale per i regimi autoritari e per le dittature», che è poi ciò che spiegherebbe anche il sostegno ecclesiastico oggi spontaneamente offerto ad un governo immorale e corrotto come quello berlusconiano (W. Peruzzi, I portatori d’acqua del Vaticano, in www.cattolicesimoreale.it, 2 gennaio 2011).

Che i rapporti tra Chiesa e Stato italiano o potere politico siano sempre stati difficili, complessi, a volte di contiguità o di complicità, a volte di aperta e dichiarata conflittualità, è vero e non credo si possa negare. Che invece siano stati sempre e sistematicamente improntati al do ut des e finalizzati al perseguimento di vantaggi pratici reciproci, mi pare molto più dubbio e discutibile specialmente se ad essere coinvolte dalla polemica o dal giudizio sono non solo le alte gerarchie ecclesiastiche ma la Chiesa tout court, ovvero tutti coloro, preti e laici credenti cattolici dissenzienti e spesso critici verso di esse, i quali secondo qualcuno, per dimostrare la propria onestà, dovrebbero «invitare il “gregge” a rivoltarsi contro le “guide cieche”…mettere a soqquadro le parrocchie, predicare o volantinare contro il Papa alle sante messe. Perché», è la domanda un po’ curiosa, «non lo fanno? Perché i cattolici “buoni”, i “famigliacristiana”, i “paxchristi”, i “mosaicidipace” manifestano contro tanti fenomeni negativi ma mai contro la Chiesa stessa, della quale fanno parte, magari come ministri del culto? Perché arrivano anche ad attaccare Berlusconi, ma mai la gerarchia e il papa che lo sostengono? Perché non vanno al di là della critica indiretta, una specie di mugugno che non disturba granché il manovratore?…. E’ forte il sospetto che si tratti di un osceno gioco delle parti, che i cattolici “buoni” manifestino a favore delle giuste cause proprio per suscitare reazioni di consenso verso la religione cattolica da parte dei non credenti creduloni, cioè per dare una copertura a sinistra al cattolicesimo e di riflesso, piaccia o no, al Vaticano. In ogni caso, quali che siano le intenzioni, il ruolo dei cattolici “buoni” è stato e seguita ad essere quello di portatori d’acqua, messi ai margini fino a quando l’opportunità di mutare casacca non consiglia alla Chiesa di esibirli e usarli come apripista per il “nuovo corso”…» (ivi).

Dinanzi a tanta confusione argomentativa e a tanta preconcetta ostilità non è il caso di replicare, ma è chiaro che chi, a prescindere dal fatto che le categorie di cattolici qui indicati non sono necessariamente migliori o peggiori di altre categorie di cattolici, afferma perentoriamente che dunque «il nemico da combattere non è solo la Chiesa ma proprio i cattolici come tali, anche quelli “buoni”, ottusi e servili papisti, vittime ma anche veicolo di una fra le più nefaste e mortifere ideologie della storia» (ivi), non sembra capace di comprendere che i buoni cattolici, posto che ve ne siano e certamente ve ne sono dovunque, non possono né potranno mai sparare a zero contro la Chiesa in blocco e contro gli stessi rappresentanti ufficiali della fede cattolica, non perché mancherebbe loro il coraggio di farlo ma semplicemente perché la Chiesa è la loro casa, la loro stessa famiglia, in cui si discute o si litiga animatamente ma mai sino al punto di voler distruggere o annientare una parte dei suoi membri. E i “buoni cattolici” potranno interloquire rispettosamente con il papa ma non potranno mai pensare né di aggredirlo né tanto meno di disarcionarlo, non perché egli sia il loro capo inamovibile ma semplicemente perché essi prendono ordini solo da quel Cristo che invita ognuno di noi a fare la propria parte responsabilmente e quindi mai sino al punto di personalizzare troppo l’eventuale dissenso o di esporsi al rischio di favorire addirittura la disgregazione della sua Chiesa. E’ chiaro? La Chiesa è nostra, è di ognuno di noi, ma è innanzitutto e principalmente di Cristo Signore. Dovrebbero ricordarsene, più di quanto non accada, un po’ tutti.

Resta tuttavia vero che non sempre l’atteggiamento della Chiesa istituzionale, ma direi anche non istituzionale, sembra porsi al riparo da possibili equivoci e da obiezioni francamente condivisibili. Sono molti infatti i cattolici, dagli alti prelati al più umile fedele della più sperduta parrocchia del mondo occidentale, che vorrebbero la loro Chiesa sempre egemonica e che, quando ciò non accade, la considerano perseguitata. Ora, che la Chiesa debba esercitare egemonia nel mondo, non è certo scritto nel vangelo; che essa sia perseguitata ancora oggi in alcune parti del mondo è purtroppo oggettivamente vero, ma è totalmente falso che essa sia perseguitata anche in Occidente, almeno nel senso proprio del termine.

Noi, in Occidente, siamo figli di quella modernità che ci ha garantito libertà e democrazia e qui appaiono quanto mai opportune e pertinenti le seguenti considerazioni: «ciò che accade in democrazia è che chiunque abbia il diritto di criticare chiunque, chiesa e autorità ecclesiastiche comprese. Le critiche, quindi, anche pubbliche ed anche aspre, che la chiesa subisce fanno parte della condizione di libertà di cui la chiesa, come ogni altra persona o aggregazione sociale, gode per nostra fortuna nella nostra società. Con ciò non ignoro affatto che esse possano essere, e in molti casi lo siano, ingiuste, altre volte malevole, altre volte ancora intenzionate a danneggiare la chiesa in difesa delle proprie posizioni o dei propri interessi. Ciò che alla chiesa, in questa situazione, si impone è prendere parte serenamente al pubblico dibattito, avanzando le proprie ragioni e dando testimonianza al vangelo. Privi della beatitudine dei perseguitati», che sono altrove ma almeno per il momento non in Occidente, «dovremmo cercare quella di coloro “che hanno fame e sete della giustizia” e quella dei miti, che “avranno in eredità la terra”. La fedeltà al vangelo non riguarda solo il contenuto della proposta di Gesù, ma anche lo stile con cui essa viene oggi riproposta. Il vangelo, infatti, non è puramente un insieme di enunciati dei valori umani, né soprattutto un codice di norme di comportamento, ma la “buona notizia” che Dio ama il mondo, anzi che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16)» (S. Dianich, Il Vangelo nella società occidentale scristianizzata. Chiesa, che fare?, in “Il Regno”, 2010, n. 20). 

Il compito primario della Chiesa non è quello di vincere nel mondo e contro il mondo a tutti i costi ma di convincere il mondo, nei limiti in cui ciò è reso possibile dalla volontà e dalla grazia di Dio, attraverso una umile, energica e coerente testimonianza della sua fede in Cristo Salvatore e Giudice. A noi il dovere di lottare contro il male e a favore del bene, l’esito della lotta invece è molto di più nelle mani di Dio che nelle nostre fragili mani, anche perché persino le valutazioni degli uomini più integri e virtuosi potrebbero non coincidere perfettamente con i disegni di Dio stesso. Inoltre, «desiderando di meritare anche la beatitudine evangelica dei “puri di cuore”, la chiesa dovrebbe sempre essere disposta a riconoscere i propri torti. Abbiamo in mano il vangelo non per farne lo strumento di giudizio contro qualcuno, ma prima di tutto per provocare noi stessi e metterci insieme con  l’“avversario” sotto il giudizio di Dio per evitare, come Gesù ci ammonisce, che alla fine il giudice ci dia torto (Mt 5,25; Lc 12,58)» (ivi).

Perciò, e di conseguenza, la prima preoccupazione della Chiesa non deve essere quella di ottenere o conservare potere nel mondo, con tutto quell’insieme di privilegi, di riconoscimenti politici, di sgravi fiscali, di favori legislativi, di attenzioni mediatiche che ne sono parte integrante, né quella di incrociare la spada con il mondo secolare sul terreno della cultura e della speculazione filosofica e teologica, come se il diavolo si nascondesse solo nel “mondano”, nel “secolo”, nel “profano” e non anche nel “sacro” e negli austeri palazzi della fede o meglio della religione cattolica. La sua prima preoccupazione dev’essere un’altra: accettare la contaminazione del mondo per immunizzarsi da ogni mortale contaminazione del mondo stesso, ascoltare le ragioni degli altri ascoltando realmente e attentamente quel che dicono e non fingendo di ascoltarli o ascoltandoli distrattamente e frettolosamente, rendere davvero ragione della propria fede al mondo non tanto con le parole quanto con la vita e con una fedele e coraggiosa traduzione della Parola di Dio in ineccepibili atti di fede e in irreprensibili stili comportamentali, anche quando l’ineccepibilità della fede e l’irreprensibilità della condotta comportino sconfitte anziché vittorie e pesanti umiliazioni anziché trionfali riconoscimenti. Al tempo stesso, il suo confronto col mondo dovrà avvenire molto più sul piano spirituale [la preghiera, la testimonianza contro ogni idolo storico-mondano, l’impegno per una comunità ecclesiale più povera in tutto (che non significa indecorosa)] e per una società più giusta e più libera sia al di là di certi inveterati pregiudizi ecclesiastici sia anche al di là di certe pretese edonistiche e nichilistiche, benché spesso ammantate da una densa coltre di apparente eticità, di molti ambienti del mondo contemporaneo.

Alla Chiesa primariamente deve interessare il contatto concreto e quotidiano con i fedeli: che i preti celebrino messa e subito dopo vadano a trovare i moribondi o i malati e si dedichino quotidianamente alla tutela dei deboli e degli oppressi, incoraggiando gli onesti e ammonendo i disonesti, sempre richiamandosi correttamente con riferimenti specifici e non generici al vangelo sí da evitare di mettere la parola di Cristo al servizio della propria parola piuttosto che mettere la propria parola al servizio della parola di Cristo; che i vescovi ricevano tutti e proprio tutti e non solo le autorità istituzionali e i rappresentanti delle varie associazioni civili o parrocchiali e dedichino la maggior parte del loro tempo a colloqui privati con singoli fedeli piuttosto che ai pubblici discorsi per non doversi rimproverare di avere promosso e incoraggiato iniziative e progetti importanti solo per un maggior impatto mediale ma non anche per intrinseca qualità e oggettivo valore spirituale; che i fedeli amino e servano la Chiesa cosí com’è ma anche per migliorarla e per contribuire a renderla sufficientemente sapida in un mondo sempre più insipido perché indubbiamente ecclesia semper reformanda est, dedicandosi certo al servizio liturgico e ai vari servizi previsti dalle attività pastorali della parrocchia e della diocesi ma non dimenticando che essi sono chiamati ad esercitare il loro spirito di verità e di carità in modo non abitudinario o rutinario ma sempre nuovo e originale in una umanità che travalica i confini della parrocchia o della diocesi.  

In questo senso, pure, la Chiesa non deve essere timida o troppo diplomatica verso i grandi potentati economici e finanziari, verso politiche economiche apparentemente ineluttabili ma in realtà provocate in tutto il mondo da interessi umani tanto meschini quanto miopi e sostanzialmente inique, verso logiche ciniche o selvagge di mercato che esigendo la soppressione di diritti fondamentali faticosamente acquisiti dai lavoratori dopo secoli di lotta dura e sanguinosa pretenderebbero, nel nome di una produttività molto equivoca se non oscura, di riportare la storia all’anno zero. Questo non è possibile, non deve essere possibile né per la società democratica né per la Chiesa la quale avrebbe il dovere di dire chiaro e forte, indipendentemente da quello che può conseguirne, non solo che un’economia senza etica è un’economia malsana, non solo che il modello capitalistico di sviluppo deve essere corretto con l’immissione in esso di una forte dose di etica o di nuova etica, non solo che occorre applicare maggiormente il principio cristiano ma prettamente volontaristico di solidarietà umana, ma che ad essere cambiato radicalmente dev’essere un modo di produzione fondato esclusivamente sul profitto illimitato e sulla più spietata concorrenza monetaria commerciale e finanziaria, ma che occorre elaborare politicamente e normare giuridicamente strategie di produzione e di lavoro in cui o per cui la dignità del lavoratore o dell’operaio sia ritenuta identica a quella dell’imprenditore o del datore di lavoro, chiunque esso sia; che i diritti dei lavoratori non solo non contino meno dei loro doveri ma costituiscano anche un elemento costitutivo imprescindibile di ogni rapporto di lavoro o produttivo, un elemento inamovibile (tranne che in caso di manifesta violazione da parte dei lavoratori stessi di regole fissate e accettate contrattualmente) di qualsivoglia politica o programmazione economica, di qualsivoglia strategia di sviluppo o di incentivazione della produttività nazionale ed internazionale; e infine, e a coronamento di tutto ciò, che, cosí come esistono “princípi e valori non negoziabili”, allo stesso modo esistono “diritti indisponibili” che come tali non possono essere violati per nessuna ragione al mondo, pena naturalmente lo scivolamento nella categoria dei furfanti e dei ladri.

Chi ragiona dicendo: “bisogna fare come i cinesi perché altrimenti per noi è finita, siamo condannati al sottosviluppo”, oppure: “bisogna rivedere radicalmente le regole della rappresentanza sindacale e i diritti dei lavoratori, perché altrimenti saremo costretti a delocalizzare e ad investire fuori della nostra nazione”, non solo è un ipocrita, perché strumentalizza a proprio uso e consumo una difficoltà pure reale, ma è anche e soprattutto un vile e perfido sfruttatore che vorrebbe arricchire se stesso sempre e solo a scapito di altri, senza che le sue promesse di maggior produttività industriale e nazionale a certe condizioni (che sono in realtà condizioni di sfruttamento e di indebita appropriazione) possano essere corroborate nel momento stesso in cui vengono formulate da un benché minimo riscontro empirico-fattuale sia pure di tipo semplicemente probabilistico. La Chiesa non può rendersi complice di tali soprusi, non può avallare con il suo silenzio o con un suo sperimentato ma inefficace stile paternalistico tali misfatti. Soprattutto essa, prima e più che invitare chi non ha a non invidiare chi ha e ha molto, dovrebbe ammonire severamente i ricchi a cambiare modo di vita, a pensare meno al guadagno personale e più ai bisogni primari altrui, dovrebbe togliere, a chi nuota nel denaro e nel denaro necessariamente disonesto anche se talvolta dato in beneficenza in modo interessato, ogni tutela spirituale con l’avvertenza che (tanto per usare un’immagine tradizionale ma sempre efficace) la ricchezza materiale cui si è tanto attaccati quaggiù è poi la stessa che ci impedirà per sempre di vivere e godere lassù.

Nostro Signore si è mai preoccupato di blandire i ricchi, di offrire loro una qualche giustificazione di natura morale e spirituale, di lasciarli vivere tranquilli nella loro inestinguibile sete di ricchezza? Mi pare proprio di no, dispiacendosi molto invece e pronunciando parole molto amare quando il giovane ricco, pur cosí compíto e ossequioso secondo i princípi formali della sua religiosità, non riesce a separarsi dai suoi molti beni materiali neppure per seguire da vicino il Signore, bene supremo di tutti i beni della terra e della vita, e compiacendosi invece quando un altro ricco, felice di essere stato riconosciuto e chiamato da lui, dichiara di volersi disfare di buona parte del suo cospicuo patrimonio. E allora perché oggi la Chiesa dovrebbe essere titubante e reticente di fronte a diffuse e inique forme di arricchimento e di sfruttamento (sí sfruttamento, checché ne pensino i teorici liberisti, anche in questo momento storico cosí fluido e caotico), di fronte a fenomeni di separazione crescente e di conflittualità latente sempre più evidente tra mondo civile e del lavoro e società politica e in parte istituzionale? Perché non dovrebbe chiamare le cose con il loro nome, ricordando anche a se stessa che il modello di vita delle prime comunità cristiane prevedeva la comunione dei beni?

Tutto ciò è anacronistico? Ma l’amore evangelico per il nemico e per i nostri persecutori è forse meno utopistico e meno anacronistico? Eppure diciamo di crederci, lo consideriamo possibile e doveroso. Dunque perché dovremmo considerare impossibile e puramente facoltativo il tentativo di riorganizzare le nostre forme di vita e di convivenza (a cominciare dalle parrocchie) in senso più egualitario cominciando a prediligere vincoli di natura morale e spirituale rispetto a vincoli di natura prevalentemente contrattuali? C’è un punto su cui forse conviene ascoltare con attenzione l’eretico francescano dei nostri tempi e questo punto è quello in cui egli osserva che «Gesù era buono, sì, ma anche passionale. Era tenero, sì, ma anche sovversivo. Era poeta, sì, ma anche profeta. (…). Annunciò una rivoluzione, chiamò a una rivoluzione. Non certamente prendendo le armi, né appiccando il fuoco, né sterminando i romani e i potenti oppressori. Ma, certamente, Gesù annunciò un’autentica “rivoluzione dei valori” e la promosse. Era convinto che, al pari degli antichi profeti, doveva dar fuoco alla società, all’economia, alla religione del suo tempo, e così fece. Ruppe con la famiglia e le sue strutture patriarcali, intraprese una vita itinerante con uomini e donne insieme, cosa insolita e scandalosa; fece sì che la donna non si limitasse ad ascoltare, ma fosse anche soggetto, soggetto profetico, cosa ugualmente scandalosa che la Chiesa ha dimenticato molto presto e che giace dimenticata nel fondo dei primi secoli. Sovvertì tutte le convenzioni sociali, trasgredì le sacre leggi della religione, denunciò tutti i poteri sociali, si scontrò con tutti i poteri religiosi. Portò il fuoco. E, come è facile comprendere, quel suo fuoco provocò un altro fuoco distruttore che presto lo divorò: il potere del denaro, dell’impero e della religione bruciarono Gesù. Ma la brace di Gesù non si è spenta.

E oggi? Resta ancora accesa in noi la brace di Gesù? Dove arde la sua fiamma nella nostra società? Dov’è che fa luce la sua torcia nella nostra Chiesa? L’impressione è che la maggior parte di noi viva soddisfatta e comoda con ciò che ha, in una società conformista, docile e sottomessa agli ordini del sistema economico vigente nel mondo. Inaspettatamente, la crisi economica ha fatto crollare tutto il sistema, ma, invece di inventarne un altro, continuiamo a impegnarci a salvare lo stesso modello, facendo pagare i piatti rotti a quelli di sempre. Le banche e gli speculatori ci hanno venduto senza pietà e, quando sono caduti in rovina, ci hanno obbligato a comprarli. Siamo corsi a soccorrere quanti ci avevano gettato a fondo e continuiamo così, e, più di chiunque altro, le società cosiddette cristiane stanno sostenendo il vecchio modello. Dove sono la resistenza e l’immaginazione? Dov’è il fuoco sovversivo di Gesù, la vampata che ha voluto suscitare nella società, nel pianeta, nella Chiesa? Difficilmente posso immaginare Gesù in questa società come un cittadino docile, un servo sottomesso. Sicuro che tornerebbe a rischiare con passione a favore di un’altra realtà. Sicuro che anche oggi, se tornasse, appiccherebbe il fuoco. Sicuro che provocherebbe conflitti nella nostra società, non diciamo nella nostra Chiesa, e che alcuni lo etichetterebbero come idealista illuso, altri come provocatore insolente, altri ancora come pericoloso eretico. E sicuro che la paura del fuoco di Gesù tornerebbe a provocare anche oggi un incendio distruttore, che finirebbe presto o tardi per bruciarlo. Il fuoco di Gesù non vuole distruggere e consumare nessuno, ma trasformare tutti con la sua luce e il suo calore. Il fuoco della buona notizia vuole illuminare l’oscurità, curare l’infermo. Dio è buona notizia per tutti e ci vuole tutti come commensali nel banchetto delle sue nozze. Senza esclusi. Senza sconfitti. Vuole che tutti siano commensali, cominciando dagli ultimi» (José Arregui è stato espulso recentemente dall’ordine francescano per eresia ed è il dotto autore dell’articolo da cui qui si è citato, Gesù di Nazareth per il XXI secolo, in “Adista” del 20 novembre 2010, n. 89).

Un cattolico, come qualunque uomo che professi una determinata fede o un determinato orientamento morale, non deve essere necessariamente dotato di una specifica vocazione politica o di una particolare sensibilità per le cose della politica. Anzi, è bene che ne sia sufficientemente distaccato per non correre il rischio di ridurre la sua fede a semplice interesse ed impegno per le cose di questo mondo. Tuttavia, un cattolico non può essere indifferente alle tante e diversificate realtà umane della società e ai modi in cui anche politicamente ci si orienti ad affrontare tali realtà e a risolverne le problematiche. In particolare, egli non può chiudere gli occhi sulle iniquità e sulle strutture di peccato che agiscono negativamente nella società contemporanea né può far proprio un punto di vista politico in senso lato dal quale ci si prefigga di difendere genericamente e astrattamente gli interessi generali e non invece gli interessi generali muovendo dagli interessi specifici di ceti meno abbienti, di categorie professionali e di soggetti sociali meno protetti o non abbastanza protetti, perché un siffatto punto di vista costituisce una vera e propria distorsione della prassi politica come tale che, per sua intima essenza, dovrebbe preoccuparsi di fare gli interessi nazionali (come spesso si dice), di perseguire il bene comune, di corrispondere alle aspettative popolari, cominciando per l’appunto ad offrire le maggiori tutele giuridico-legislative e finanziarie non ai gruppi della grande industria e dell’alta finanza, non a professioni e ad attività dirigenziali o manageriali già largamente remunerate, non alle grandi rendite parassitarie o a furbissimi e influenti evasori fiscali, ma ai giovani meritevoli ancora disoccupati o occupati in modo precario, ai lavoratori seri e responsabili cui nulla può essere rimproverato sul posto di lavoro (fabbrica, ufficio o scuola che sia), ai professionisti più capaci e qualificati in ogni ambito della vita civile e produttiva, e poi naturalmente ai malati non abbienti e meno abbienti, ai pensionati più poveri, a tutti coloro che abbiano oggettivamente bisogno di assistenza medica gratuita e continua e di essere sostenuti economicamente. Questo quadro non è certo comprensivo di tutti i possibili riferimenti umani e sociali da fare e di tutte le possibili o necessarie misure legislative e finanziarie da assumere ai fini di un’attività politica realmente e non ipocritamente interessata agli esseri umani e ai cittadini, ma è sicuramente in un quadro come questo che vanno individuate le coordinate etiche e spirituali di un’azione politica seriamente ed efficacemente volta a lavorare per una società più giusta e più libera.

Il cattolico non può non saperlo, la Chiesa non può non saperlo. L’uno e l’altra non possono interloquire con il potere su un piano meramente dialogico e diplomatico ma devono portarsi innanzitutto sul piano dell’analisi demistificante delle dinamiche dello sviluppo economico e sociale, della critica spregiudicata e inflessibile di tutte quelle anomalie e di tutti quegli abusi inerenti lo stesso potere politico e che non possono non condannare la società, la nazione, lo Stato a paralisi o a blocchi reiterati e sempre più gravi e irreversibili. L’uno e l’altra, in particolare, devono smontare criticamente un concetto cui moltissimi politici di destra e di sinistra sono sempre più affezionati: che, per favorire sviluppo e occupazione, per accrescere produttività e ricchezza nazionali, la politica debba pensare al domani e non all’oggi. I risultati di questa impostazione sono sotto gli occhi di intere generazioni di cittadini: si lavora sempre in prospettiva, sempre per il domani, ma l’oggi, anche per il verificarsi di crisi “inattese” o “imprevedibili” (si dice sempre cosí, come se la politica non fosse anche l’arte di controllare e dominare le forze e gli eventi irrazionali continuamente risorgenti dalle viscere della storia), non arriva mai.

Questa posizione è sbagliata e ancora una volta ipocrita e fuorviante, perché, se anche nei momenti di crisi c’è tanta gente che naviga nel lusso o nella ricchezza, vorrà dire che una politica saggia e responsabile inviterà essa e non altri a farsi carico in misura adeguata delle particolari necessità del Paese o della nazione. Al contrario, una politica accorta ed equanime penserà certo al domani ma cominciando a pensare concretamente all’oggi e sacrificando nell’immediato chi può ancora sostenere il peso di determinati sacrifici e non chi non può o non può più sostenerlo. Come? Con l’assunzione di misure legislative una volta tanto più favorevoli al mondo del lavoro in genere, dal quale peraltro dipende anche il consumo di una nazione, e molto meno favorevoli o decisamente restrittive nei confronti del mondo della grande industria e del capitale (mondo che non si preoccupa mai abbastanza dei produttori materiali della ricchezza sociale usandoli quasi esclusivamente per perseguire un profitto indefinito e illimitato). Sono idee irrealistiche o semplicemente idee antidolatriche ovvero contrarie all’ossessiva idolatria del libero mercato? I cattolici devono sapere che sono idee giuste e necessarie al vero sviluppo e al vero progresso di un’umanità che soffre e che pensa e che è ancora faticosamente in cammino non già verso una felicità effimera e transeunte ma verso una felicità senza fine.

La Chiesa vuole che dei cattolici seri e preparati si impegnino in politica. Ecco: è sperabile che chi di essi accoglierà l’invito muova da un ordine di riflessioni non molto lontano da quello che, sia pure molto imperfettamente e incompiutamente, si è cercato qui di delineare.

Scuola, università e fede

C’è chi dice che la scuola è troppo antiquata, troppo tradizionale, troppo burocratica e repressiva, troppo poco aperta all’informatica e alla multimedialità e a tecnologie se possibile ancora più sofisticate, e chi invece la trova, anche quando sia aperta “ai nuovi scenari della scienza e della tecnologia, alle nuove logiche della produzione e del mercato del lavoro” (come recita lo “schema di piano programmatico del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca” del 2008), ancora troppo in ritardo rispetto agli standard di conoscenza e di competenza specifica raggiunti a livello europeo e più in generale a modelli educativi e ad obiettivi formativi soddisfacenti anche sotto il profilo etico-civile. Ragion per cui la politica continua a preoccuparsi, almeno formalmente, di trovare adeguate contromisure, anche alla luce delle attuali contingenze economiche e finanziarie, attraverso “un profondo e sereno ripensamento dell’impianto complessivo del nostro sistema scolastico” (idem) e della stessa organizzazione universitaria. Ma, a dire il vero, chi come lo scrivente ha insegnato per circa trentacinque anni nella secondaria superiore e ha avuto modo di conoscere abbastanza il mondo accademico non è affatto convinto che il risanamento del complessivo sistema italiano dell’istruzione e della ricerca abbia a che fare innanzitutto e soprattutto con una razionalizzazione ed “ ‘essenzializzazione’ ”, per riprendere il linguaggio ministeriale, “dell’intero quadro normativo, ordinamentale, organizzativo e operativo”, anche sotto l’incalzare della su accennata e per alcuni non ineluttabile crisi economica e finanziaria.

Che nella scuola come nell’università ci siano molti e costosi fronzoli da eliminare nell’ambito della didattica e della ricerca mi è sembrato in passato e continua a sembrarmi evidente e questo, peraltro, significa anche che molte spese inutili o non necessarie potrebbero essere facilmente abbattute a tutto beneficio dell’economia nazionale e della società italiana. Che in esse si debba puntare ad una valorizzazione effettiva del merito, per quanto riguarda sia i docenti che i discenti, mi sembra e non da oggi del tutto pacifico, anche se ad oggi il dato emergente è che, sia tra i professori della secondaria sia tra quelli universitari, non ci sia una convergenza unanime, univoca e oggettiva né sul concetto di merito, in relazione all’esigenza di riconoscere ai discenti e ai docenti il giusto valore delle proprie capacità e del proprio impegno, né sulle concrete modalità attraverso cui sia possibile quantificare e qualificare il merito stesso dei singoli soggetti sul piano di un’adeguata incentivazione agli studi (come nel caso degli studenti) e su quello professionale ed economico-retributivo (come nel caso dei docenti).

Il vero problema è di natura morale e politica o meglio etico-politica, perché se un paese cui si riesca ad assicurare per ipotesi un grande sviluppo economico e finanziario è profondamente corrotto resta pur sempre un paese incivile in cui le iniquità sono destinate a moltiplicarsi a dismisura. Il riconoscimento del merito – questione eminentemente etica – in una società democratica di massa, salvo facendo il principio che a tutti debba essere garantito il soddisfacimento di necessità primarie o vitali, è diventato la questione centrale del sapere (che non smette certo di avere una destinazione e finalità democratiche se si fa in modo che professionalmente e in assenza di discriminazioni di qualsivoglia natura i principali artefici di esso siano innanzitutto quelli che le cose siano più capaci di conoscerle, di diffonderle e praticarle socialmente, e in tal senso i più meritevoli), dell’attività produttiva e dello stesso progresso civile delle nazioni. Perché è fuor di dubbio che, nell’individuazione del merito e delle capacità individuali in genere, un margine soggettivo di discrezionalità sarà pur sempre ineliminabile, e tuttavia, dinanzi al proliferare di abusi e prevaricazioni di ogni genere che finiscono immancabilmente per generare effetti nefasti in ambiti particolarmente delicati della società come l’istruzione secondaria e scientifica, la sanità o la pubblica amministrazione, non è possibile non preoccuparsi di trovare finalmente delle misure legislative ed etico-giuridiche in virtù delle quali sia possibile contrastare efficacemente e irreversibilmente il sistematico convertirsi della discrezionalità in palese e ingiustificabile arbitrarietà.

Se nella secondaria superiore non c’è più la figura del professore ma al più la sua caricatura, se le università in molti casi (e con riferimento particolare a talune facoltà) non sono più (almeno da 20 o 30 anni a questa parte) centri di elaborazione e trasmissione del sapere ma vere e proprie cloache a cielo aperto, se negli ospedali è sempre più opportuno che i malati entrino muniti di un qualche aggeggio scaramantico per esorcizzare il pericolo di una morte prematura, non è forse in una selezione molto spesso arbitraria del personale docente per la secondaria e l’università e del personale medico che bisognerà cercare la causa? Certo, forse anche nella mancanza di adeguati trattamenti economici ma come negare che l’impreparazione studentesca o l’approssimazione professionale insieme ad una totale carenza di senso civico siano il più delle volte promosse e valorizzate piuttosto che scoraggiate e respinte e fatte rovinosamente confluire in quel variegato mondo di decisioni arbitrarie e di soprusi, nella didattica come nella docimologia, nella produzione scientifica come nei giudizi accademici che su questa vengono espressi con relative mortificanti conseguenze circa l’assegnazione di cattedre e responsabilità in seno alle varie facoltà universitarie, o ancora nella medicina o nella paramedicina come in tutta una serie di altri servizi socialmente indispensabili? Beninteso, non è tutto marcio ma il marcio sembra prendere di anno in anno il sopravvento su ciò che è sano e in una tale misura da rendere ormai inevitabile e improrogabile il ricorso a provvedimenti draconiani (ammesso che ci si possa intendere, in questo caso, sulle reali implicazioni di tale termine). 

Il dramma è che teoricamente sono davvero pochi, specialmente nelle fasce sociali più “colte”, quelli che non condividono l’analisi e il giudizio qui formulati. Questo contribuisce ad occultare molto meglio e a rendere quindi più difficilmente estirpabile il male. Nella stragrande maggioranza dei casi, in cui va incluso lo stesso mondo cattolico nella sua generalità,  si concorda, anche se poi, appena possibile, ognuno non esita a fare il furbo e a brigare per ottenere quanti più vantaggi possibile. E allora? E allora corre o resta l’obbligo morale e politico di ridurre il più possibile la malapianta, pur sempre sapendo che non sussistono rimedi infallibili e definitivi. Il credente cattolico, però, sa bene che nulla sfugge all’occhio di Dio e che ognuno prima o poi dovrà rendergli conto dei suoi pensieri, delle sue intenzioni e delle sue azioni. Egli non può farsi illusioni circa il fatto che con preghiere completamente slegate dalla sua condotta di vita potrà evitare alla fine il severo giudizio di Dio: sarebbe opportuno che la Chiesa fosse meno comprensiva e benevola verso certa diffusissima ipocrisia cattolica fondata sulla deprecabile abitudine a vivere la fede in una sorta di sdoppiamento interiore: in privato mi nutro di preghiera, di eucaristia, di buone intenzioni e di ragionamenti evangelici, mentre in pubblico faccio come fanno tutti e cerco di arraffare, non solo in senso economico, quanto più possibile indipendentemente dal fatto che io sia più o meno meritevole di altri, più o meno capace di assolvere ruoli o mansioni cui ambisco e che riesco ad ottenere in un modo o nell’altro.

Ecco perché la scuola e l’università dovrebbero poter ritrovare o ripristinare la loro antica e più nobile funzione che non è semplicemente quella di favorire un accesso al sapere e alle professioni del maggior numero possibile di persone ma quella di proporre e diffondere un piano di conoscenze realmente qualificate mettendolo a disposizione non di tutti indiscriminatamente ma di quanti, pur con capacità differenziate, abbiano effettivamente i mezzi intellettuali e le predisposizioni attitudinali a ricoprire ruoli o posti di più o meno elevata responsabilità. Scuola e università in questo senso dovrebbero essere rifondate ab imis fundamentis, perché non c’è dubbio che, a giudicare dagli esiti degli esami di stato degli ultimi decenni, dai concorsi universitari e dai concorsi banditi ed effettuati dalle e nelle pubbliche amministrazioni, dai primariati assegnati nei pubblici ospedali e via dicendo, la situazione che emerge è semplicemente catastrofica.

Un pensatore marxista italiano come Antonio Banfi, che lo scrivente non ha allontanato dal suo cuore di riconvertito cattolico, aveva un’acuta percezione della valenza politica dell’istruzione e della formazione scolastiche e universitarie e sosteneva che il problema della scuola sia il problema centrale e più delicato della politica, della stessa democrazia italiana. Per lui non esisteva un problema tecnico del finanziamento della scuola ma piuttosto un problema politico del finanziamento politico della scuola. Osservava tuttavia che, se il finanziamento è condizione necessaria di sussistenza di una scuola degna di questo nome, esso non è ancora condizione sufficiente per garantire la funzionalità etico-culturale e la specifica funzionalità sociale della scuola stessa: non solo perché la bontà di una politica scolastica non può misurarsi o definirsi semplicemente in relazione alle sue capacità di finanziamento, ma anche perché qui le responsabilità in gioco non sono esclusivamente di natura politica. In altri termini, per Banfi non c’era solo una responsabilità della politica verso la scuola ma, in misura non meno rilevante, c’era anche la responsabilità morale e civile della scuola verso la politica intesa, in senso generale, come dimensione essenziale del vivere associato. Nessuna politica infatti, per quanto lungimirante e progressista, può mai garantire che la scuola sappia perseguire con assoluto rigore ed immutabile coerenza un grado apprezzabile di conoscenza critica ed elevate finalità civili e democratiche. La scuola come l’università dovevano pur mostrarsi capaci di fare tesoro delle ipotetiche concrete attenzioni ad esse riservate dalle autorità governative e di utilizzare nel modo più razionale possibile tutte le risorse finanziarie eventualmente elargite a loro favore e le stesse positive sollecitazioni culturali ad esse eventualmente provenienti dal mondo politico. Che la scuola e l’università dovessero essere responsabili verso la politica significava in ultima analisi che esse fossero responsabili del modo in cui autonomamente venivano organizzando e trasmettendo il sapere in relazione ad istanze profonde e oggettive e ad aspettative legittime del Paese, della Nazione. Questa duplice responsabilità Banfi intendeva sottolineare quando affermava: “Bisogna che la scuola senta il Paese, che il Paese senta la scuola” (Scuola e Società, in “Opere”, Bologna, 1987, p. 21).

Si può forse affermare che questa posizione banfiana sia anacronistica o che non sia ancora profondamente attuale? Possono gli stessi cattolici, pure troppo interessati ad ottenere finanziamenti per le loro scuole piene zeppe di insegnanti troppo spesso assunti per amicizia o per interesse e non certo per merito e capacità, negarne la persistente fecondità? Penso che una riforma della scuola e dell’università sia necessaria, anche se sarebbe ingenuo pensare che persino la più perfetta delle riforme possa risolverne per sempre i problemi, dal momento che non c’è legge o riforma che possa neutralizzare totalmente la disonestà umana. Però dev’essere chiaro un punto: che cosí come sono, non solo per responsabilità della politica ma anche per loro precisa responsabilità, la scuola e l’università italiane non sono utili a niente e a nessuno: non agli studenti impegnati perché troppo al di sotto delle loro esigenze conoscitive, né a quelli disimpegnati perché troppo complici del loro disimpegno; non ai docenti dell’una e dell’altra perché istituzioni troppo spesso fondate su un favoritismo gratuito e inaccettabile quando non anche su pratiche prettamente clientelari e servili; non alla stessa politica perché dall’una e dall’altra essa non potrà ricevere quelle sollecitazioni e quelle critiche davvero mirate e profonde di cui la prassi politica non può fare a meno, né infine alla società civile che necessita di competenze certe e non fittizie e di attività professionali non mediocri ma quanto più possibile eccellenti ed altamente produttive.

Qui ci sono cose che decisamente non vanno e determinano un notevole aggravio per l’erario dello Stato, cose francamente superflue e inessenziali, destituite di ogni vera valenza critico-culturale e di finalità realmente formative, inventate solo per accontentare i teorici ad oltranza della “modernizzazione” della scuola (si vedano, ad esempio, i famosi “progetti” della secondaria superiore tra i quali ben pochi sono quelli da salvare) o per moltiplicare artatamente posti e cattedre universitarie. Qui c’è un mondo universitario abnorme con le sue troppe università, con una massa mastodontica quanto incomprensibile di insegnamenti disciplinari, con un numero eccessivo di docenti di fascia alta che non proprio sporadicamente mostrano di non essere affatto all’altezza dei loro titoli e dei loro compiti (specialmente in facoltà come quelle di lettere e filosofia, di lingue straniere, di scienze giuridiche e sociali e in parte economiche, di scienze della comunicazione), e poi ancora con troppo pochi docenti, per lo più “ricercatori”, realmente al servizio della formazione dei giovani studenti, con stipendi talvolta troppo alti e sprechi di denaro per pseudo attività culturali e “scientifiche”, dove non  può essere infine sottaciuta la presenza di una meritocrazia accademica molto burocratica e preconcetta volta fondamentalmente a riprodurre, nel migliore dei casi, linguaggi, schemi mentali, metodologie, strumenti ermeneutici e stili di ricerca certo ampiamente collaudati o sperimentati ma non per questo perfetti e insuperabili e non suscettibili di miglioramenti anche radicali e significativi.

Tutto questo dovrebbe sparire, mentre altre cose al momento inesistenti, come una maggiore centralità dell’insegnante (e non solo dello studente secondo un concetto velleitario molto caro a certa sinistra politica e sindacale) nella secondaria, o la possibilità per i giovani ricercatori universitari meritevoli di fare carriera molto più agevolmente e rapidamente di quanto oggi non sia consentito, nonché anche offerte accademiche non risibili ma sostanziali a soggetti extraccademici che abbiano acquisito meriti culturali o scientifici oggettivi o comunque tali da non poter e dover essere disconosciuti, dovrebbero poter emergere rapidamente.

Ma anche la Chiesa, nel frattempo, non può stare a guardare e non può accontentarsi del fatto che la laicità dell’istituzione scolastica ed universitaria non sia troppo carica di acrimonia verso l’istituzione ecclesiastica. Essa deve sentire il dovere di difendere il merito, la competenza, la professionalità, lo spirito etico, se necessario anche contro se stessa e i suoi interessi, contro i suoi apparati di potere e i suoi rappresentanti curiali. E i cattolici devono pensare e operare in assoluto spirito di verità perché il bene non può mai essere perseguito al di fuori dello spirito di verità, benché siano troppi coloro che con questa espressione si sciacquano la bocca, e perché solo la verità evangelica, ancor più della laica verità di cui parlava Gramsci, è sempre effettivamente “rivoluzionaria” e benefica.

Il relativismo democratico, la fede e la Chiesa

Una democrazia non è truffaldina, non è fraudolenta, solo se essa favorisce o si sforza di favorire condizioni generali di vita in virtù delle quali la libertà reale di ciascuna persona sia la condizione necessaria del bene comune per tutti, anche se, come ha spiegato il filosofo Marc Augé, in «un mondo sovraccarico di significati simbolici», ovvero di universi simbolicamente già formati che impongono ai singoli individui «un insieme di relazioni possibili o persino obbligate», appare «evidente che l’idea di libertà individuale non ha senso», in quanto ogni identità individuale può costruirsi solo all’interno di un senso sociale che altro non è se non l’insieme delle relazioni nelle quali e per mezzo delle quali viene costruendosi per l’appunto ogni identità (Democrazia e spirito scientifico. Come si costruisce la democrazia, in “La Repubblica” del 19 settembre 2009). Si può dunque essere individualmente liberi solo all’interno di «relazioni obbligate e comunità subite» (ivi) ove beninteso queste non abbiano nulla a che fare con un totalitarismo sia pure strisciante che condannerebbe l’uomo singolo non solo ad un isolamento politico (che è naturale si verifichi in una democrazia quando certe istanze ed aspettative individuali risultino minoritarie) ma ad una «estraneazione» della sua vita nel suo insieme. In un sistema totalitario in effetti non ci si contenta solo di isolare l’individuo dalle pubbliche relazioni ma si punta a distruggere la vita privata dell’individuo in modo tale che quest’ultimo viva disperatamente la sua presenza nella società come una sorta di «non appartenenza al mondo», di espulsione dal mondo sociale di cui invece dovrebbe essere e sentirsi parte.

Per questa ragione, il processo che conduce alla comunità e quindi alla realizzazione del bene comune, che è la sostanza stessa della democrazia, è sempre parziale e mai compiuto o definitivo perché sempre volto ad impedire orizzonti chiusi di senso e forme più o meno stabili e diffuse di estraneazione umana. Il che significa che la democrazia «è sempre da costruire…la sua frontiera è un orizzonte. In democrazia, il rispetto della costituzione esistente e la conservazione dell’ordine stabilito sono soltanto degli imperativi pratici relativi e provvisori, poiché la costituzione cambierà e le norme pure» (ivi).

E Augè esemplifica significativamente in questi termini: «Pensiamo, per prendere un esempio semplice, vicino e spettacolare, a tutto quanto era vietato o impensabile nei paesi dell’Europa Occidentale appena sessant’anni fa, tanto nell’ambito dei costumi (statuto della donna, divorzio, omosessualità), quanto nella sfera strettamente politica (voto alle donne, maggiore età). Lo spirito democratico, come lo spirito scientifico, non si soddisfa di ciò che è acquisito e sa che la verità è sempre da conquistare, che l’esistenza politica precede sempre la sua essenza. L’idea di progresso, in questa prospettiva, non procede né dall’orgoglio, né dall’ingenuità, ma dalla semplice constatazione dell’insufficienza del presente e delle frontiere che sono ancora da varcare per partire alla ricerca di soluzioni certo ma anche di nuovi problemi da risolvere. Quelli che invocano il progresso non parlano a nome di un sapere preesistente; hanno semplicemente la convinzione, modesta e tenace, che la libertà reale di ciascun individuo umano sia la condizione necessaria del bene comune per tutti. Si ispirano così allo spirito scientifico. Non c’è niente di più modesto dello spirito scientifico: esso non parte mai da una totalità compiuta come quella che sta alla base delle ideologie, ma esplora le frontiere dell’ignoto con l’ambizione di spostarle» (ivi).

A quali riflessioni ed eventualmente a quali obiezioni può essere indotto un cattolico da una cosí chiara lezione di filosofia etico-politica? Qui il discorso non è semplice perché i cattolici hanno una stessa fede ma non necessariamente la stessa formazione spirituale ed intellettuale. Chi, per esempio, abbia una qualche familiarità con la storia della scienza e della cultura scientifica, o chi ha imparato che un certo relativismo epistemologico può senz’altro concorrere alla costruzione di una razionalità aperta e feconda di risultati che proprio in quanto tale non abdichi o non volti le spalle agli orizzonti di senso della fede religiosa, non si scandalizzerà nel sentir parlare di democrazia come pratica politica e di governo fondata su una concezione relativistica della verità e più esattamente sulla volontà di una maggioranza e quindi su un criterio puramente quantitativo. Certo, la democrazia senza cultura è inesistente, perché altrimenti si potrebbe dire che anche tra cannibali essa è possibile. Ma, in ultima analisi, quale che sia il livello culturale di un popolo democratico, alla fine, per legiferare ed emanare provvedimenti legislativi che valgano per tutti i cittadini, non si può fare altro che contare “le teste”, i voti. Il cattolico raziocinante sa che non si può fare diversamente, che non c’è un’altra strada perseguibile, a meno di non voler fuoriuscire da ciò che storicamente e culturalmente si è convenuto di intendere per democrazia.

Il che non toglie che la democrazia, qualora una consistente parte di popolo e di classe dirigente dovesse allontanarsi o deviare dalla capacità civica ed etico-politica di recepire le istanze più vere urgenti e profonde della società e delle singole persone, possa anche svuotarsi progressivamente di significato e di sano valore emancipativo. Ma, in linea di massima, non c’è democrazia in cui si possa esercitare il potere a prescindere da quei criteri di ricerca, di gradualità, di verifica, di revisione e di continuo approfondimento della validità delle norme approvate e vigenti o da migliorare e approvare, tenendo sempre e inevitabilmente conto di quelli che sono i punti di vista, le posizioni, gli interessi legittimi delle varie forze in campo. Il cattolico come tale potrà dissentire, lottare per dare più forza sociale alle sue idee, fare del suo meglio per contrastare pacificamente quelli che ritiene errori e forme più o meno gravi di devianza morale e civile, assumersi personalmente la responsabilità della disobbedienza civile, ma non potrà non riconoscere che, pur personalmente forte della fede in Cristo e della funzione redentiva di tale fede anche da un punto di vista sociale e politico, la democrazia, nel migliore dei casi, resta pur sempre il regno del relativo e dell’opinabile, di una verità che non è già data ma che si costruisce giorno per giorno, attraverso la discussione, il confronto, lo scontro dialettico, e la decisione finale cui inevitabilmente si giunge con la conta dei favorevoli e dei contrari.           

 La verità, nella politica come nella scienza, dice Augè, “è sempre da conquistare”, non è mai scontata o predeterminabile ma conseguibile solo sulla base di una sensata esperienza empirica che è assolutamente indispensabile a corroborare le nostre convinzioni e le nostre certezze teoriche, ad estenderle e a perfezionarle, e talvolta persino a formarle ex novo. Se si avesse a che fare con persone prevalentemente serie e responsabili, con soggetti e gruppi politici ed istituzionali fondamentalmente capaci integri e laboriosi, questo stesso metodo applicato alla prassi democratica assicurerebbe certamente più vantaggi che svantaggi. In tutti gli altri casi, al cattolico non resta che continuare a pregare e a chiedere al Signore di assisterlo nel suo impegno quotidiano, giacché egli sa di essere tenuto ad annunciare e a testimoniare la sua fede e la verità assoluta in cui crede operando con la massima coerenza possibile ma di non poter e non dover pretendere di imporre ad altri le sue convinzioni religiose come più in generale le sue idee. Non ha fatto forse cosí nostro Signore?

Perciò è certamente vero che, come sostiene il papa, in democrazia non si può vivere solo di progresso tecnologico e scientifico e che, senza svalutarlo, occorre tuttavia “relativizzarlo” come occorre relativizzare tutti i valori terrestri e puramente laici di libertà, eguaglianza e giustizia, perché indubbiamente i «valori intramondani, sganciati dal riferimento all’unico assoluto valore (Dio), perdono il loro significato autentico e, indebitamente assolutizzati, diventano degli idoli, trappole mortali che uccidono la dignità dell’uomo» (E. Dal Covolo, Emmaus e la sfida della ragione ampliata, in “L’Osservatore Romano del 18 aprile 2009), ma a coloro che interpretano in modo riduttivo o unilaterale il pensiero del papa bisogna far osservare che la fede cattolica nell’unico e assoluto Dio della salvezza si esercita correttamente non già ignorando o negando, sottovalutando o disprezzando le realtà finite e appunto relative del mondo e dello stesso mondo democratico, i valori parziali e incompiuti di un’umanità in continuo travaglio spirituale e fatalmente soggetta all’errore e al peccato, le stesse discutibili decisioni di una democrazia perfettibile ma non perfetta, ma chinandosi pazientemente su questo universo etico e valoriale frammentato e caotico per valorizzare tutto ciò che può essere valorizzato, combattendo energicamente contro tutto ciò che possa violare il vero e più profondo senso dei “comandi” di Gesù e quindi i bisogni stessi della nostra esistenza, e cercando infine di salvare insieme a Cristo tutto ciò che possa essere ancora migliorato e utilizzato in funzione della salvezza integrale di ciascun uomo. E naturalmente, come sempre, confidando innanzitutto nell’infinita misericordia di Dio.  

D’altra parte, anche la Chiesa, sotto certi aspetti, vive suo malgrado di relativismo: il relativismo dei diversi modi di sentire e di vivere la fede, di coniugare la fede con la politica, di porsi di fronte alla gerarchia ecclesiastica e alla parola del papa. Nella Chiesa ci sono credenti molto divisi su divorzio e aborto, su eutanasia e omosessualità, su scienza e tecnica, su pacifismo e guerra, sul terreno politico come su quello economico; ci sono credenti favorevoli alla liturgia postconciliare e credenti favorevoli invece alla liturgia preconciliare, e non si contano poi tutte quelle divisioni che esistono a motivo del cosiddetto progressismo e del cosiddetto conservatorismo. Che Dio abbia pietà di noi tutti!

Inoltre, il consenso religioso di cui gode la Chiesa non è sempre e tutto di prima qualità, le stesse motivazioni che sono alla base della fede dei suoi fedeli non sempre risultano completamente ineccepibili e non è del tutto infrequente che parole, dichiarazioni o atti di ecclesiastici e religiosi appaiano meritevoli di una qualche censura. Senza entrare nel merito delle diverse questioni, la realtà della Chiesa è questa. E tale realtà, fatto salvo il valore assoluto della comune professione di fede (più che, come dovrebbe essere, della comune fede tout court), è costituita generalmente da esperienze umane e religiose piuttosto banali o confuse, e da uno spirito di comunione in Cristo che di fatto non sempre è più forte e resistente di qualunque spinta alla divisione e alla discordia. Ma la Chiesa, che per sua natura non è, non può e non deve essere democratica, è proprio sul terreno di una spiritualità cosí articolata e tormentata, cosí differenziata e spesso opacizzata, che è chiamata a seminare la parola eterna del Salvatore, a far sí che l’Assoluto continui a salvare il relativo fino alla fine del mondo.

Il cattolico tra testimonianza e comunicazione

Muovendo dal presupposto che la logica di Dio, volta a prediligere il «religiosamente non qualificato» e l’«umanamente insignificante», si discosta profondamente dalla logica istintiva dell’uomo, portata a dar valore a ciò che conta per fama o prestigio sociale e istituzionale, l’arcivescovo Filoni, sostituto della segreteria di Stato del Vaticano, nel rivolgersi a tutti coloro che da cattolici operano nel campo delle comunicazioni sociali, ha detto chiaramente che «dobbiamo entrare sempre più nel modo di pensare e di agire di Dio che privilegia i lontani e i piccoli» (La verità non va manipolata ma trasmessa con fedeltà e rigore, in “L’Osservatore Romano” del 30 settembre 2009). Non so se l’alto prelato ne sia completamente consapevole: ma per un cattolico che cosa può e deve significare ciò esattamente? Si può ragionevolmente ritenere che debba significare non parlare, non occuparsi solo degli avvenimenti di rilievo nazionale ed internazionale, dei fatti più eclatanti di cronaca, di eventi tanto sensazionali quanto generalmente futili del mondo dello spettacolo e del mondo sportivo, ma anche e soprattutto del mondo che non ha voce, della storia muta e anonima di masse di oppressi, sfruttati, disoccupati e sottopagati in tutte le parti del mondo, e specialmente nelle aree più povere e sottosviluppate; significa smascherare i meccanismi perversi di un potere economico e finanziario che si vorrebbe ineluttabilmente portato a produrre ricchezza per alcuni e miseria per molti, ricorrenti crisi economiche e frequenti squilibri mondiali e settoriali. 

Si può ritenere che debba implicare un serio impegno etico-professionale nel portare alla luce forme sommerse e sconosciute di intelligenza e sensibilità, esempi viventi non visibili e non pubblicizzati di carità e di giustizia individuali o collettive; nel non alterare i dati oggettivi della realtà volta per volta indagata, nel non deformare i fatti gradevoli o sgradevoli che siano per motivi di “appartenenza” o di salvaguardia di particolari interessi, nel non propagandare e diffondere verità parziali e precostituite che oscurino i legittimi interessi dei comuni cittadini e vadano a detrimento dei loro effettivi bisogni.

Entrare “nel modo di pensare e di agire di Dio” deve significare che la prima pagina di giornale o telegiornale dovrebbe essere dedicata ogni mattina alle realtà più nascoste e più laboriose della società, agli sforzi quotidiani di quanti ogni giorno e in tutti gli ambiti civili e lavorativi devono sottoporsi ad attività molto faticose e poco remunerative per vivere o sopravvivere, all’analisi spregiudicata dei motivi strutturali e contingenti che stanno alla base di un’ampia e variegata gerarchia di privazioni e frustrazioni individuali e collettive in tutte le parti del mondo. Se anche per monsignor Filoni il doversi occupare non dei grandi e delle cose grandi ma dei “piccoli” e dei “lontani”, di cose elementari ma di vitale e insopprimibile importanza, viene implicando tutto questo, allora possiamo essere perfettamente d’accordo: perché solo se ci si occupa non strumentalmente né demagogicamente di queste cose, più che di altre, senza temere ripercussioni negative per la propria carriera o per il proprio “prestigio” o cali di popolarità e di consenso per la propria testata, ci si può realmente sottrarre, come dice l’arcivescovo Filoni, a quella duplice e congiunta «tentazione dell’apparire sempre incombente» e di «manipolare la verità per altri fini» (ivi).          

Se «Dio ama i “piccoli”, i poveri agli occhi di questo mondo e vuole che a essi siano riservate le cure maggiori e ogni attenzione», è di essi, delle loro necessità, delle loro sofferenze e delle loro speranze, che bisogna principalmente trattare, ed ecco perché «anche nei mass media la Chiesa insiste nella difesa dei deboli, nella ricerca della verità e della giustizia, nella tutela dei diritti degli ultimi e degli indifesi – a partire da quanti non sono ancora nati a quelli che sono ormai sulla soglia della morte. La Chiesa si fa voce di chi non ha voce, portavoce di chi non ha accesso alle tribune dei potenti, avendo sempre di mira quanto il Signore domanda, non cede a ricatti e pressioni di alcun tipo» (ivi). In linea di massima, si può convenire sulla veridicità di questa asserzione. In linea di massima, perché poi ci sarebbe da scandagliare molto attentamente quell’arcipelago cattolico della comunicazione stampata e televisiva, multimediale ed editoriale, che è costituito da una miriade di iniziative diocesane e interdiocesane, parrocchiali, clericali e laicali, per verificare se, in mezzo a tante cose buone, non ci sia anche spazio per forme di comunicazione inconsistenti e fatue, che più che veicolare uno spirito cristiano di verità veicolano il semplicismo culturale-religioso e il narcisismo di soggetti più o meno riconosciuti e influenti nelle comunità ecclesiali ma privi di quella forma mentis critica ed aperta ad un tempo e di quella efficacia espressiva senza cui si può certamente essere testimoni della verità evangelica ma non si può assolutamente essere buoni comunicatori nel nome del vangelo e di Gesù. Proprio cosí, anche qui vale il discorso sui carismi: non tutti i testimoni possono essere comunicatori sociali della fede in Cristo, anche se non è detto che un buon comunicatore sociale della spiritualità e dei valori evangelici sia necessariamente un irreprensibile testimone di e in Cristo. 

Giornalisti, operatori in genere nel campo della comunicazione, ove naturalmente sussista la loro effettiva capacità di svolgere questo lavoro, hanno «un compito speciale», osserva ancora il sostituto segretario di Stato, «che in qualche modo rassomiglia a quello degli angeli», che sono notoriamente messaggeri di Dio (ivi). Il comunicatore cattolico, che voglia essere anche testimone credibile della propria fede, può trovare nel dialogo evangelico tra l’arcangelo Gabriele e Maria il modello, «lo stile, l’esercizio della comunicazione. L’angelo trasmette prontamente, fedelmente e interamente alla Vergine Santa il messaggio ricevuto» (Ivi), quindi senza resistenze psicologiche, senza parzialità, senza omissioni, senza forzature, senza alterazioni o deformazioni di sorta, ma con un ineccepibile spirito di verità e di santità (la stessa santità che proviene dalla fonte divina della notizia trasmessa e ricevuta), per cui quell’angelo diventa «modello delle nostre comunicazioni e delle nostre relazioni interpersonali e di massa: diventa modello del vostro lavoro di giornalisti e operatori della comunicazione sociale» (ivi).

 Questo riferimento all’arcangelo Gabriele, che in un certo senso viene qui presentato come santo e celeste patrono di tutti i veri comunicatori della volontà di Dio nella vita e nella storia, sembra quanto mai pertinente e suggestivo, anche se inevitabilmente le parole e il relativo invito di Filoni potranno essere interpretati almeno in una certa misura in modi diversi: «L’arcangelo comunica, annuncia un messaggio importante che ha ricevuto, non lo manipola, non lo reinterpreta a modo suo, lo esprime così come lo ha sentito comunicare a se stesso, quasi come un ordine, un imperativo. Con Gabriele, comprendiamo che la verità non va mai addomesticata a secondi fini, non va manipolata, né peggio contraffatta. Occorre allora coltivare un’etica rigorosa che ci renda consapevoli e responsabili di quanto trasmettiamo non solo a parole, ma con i gesti e con il nostro stesso modo di vivere» (ivi). E la conclusione, ancora più pertinente e suggestiva, non può non ispirare il lavoro di tutti, comunicatori e non comunicatori, quali che siano poi le caratteristiche e le capacità di ciascuno: «Gabriele annuncia all’umanità, rappresentata dalla Vergine Maria, che Dio non si è stancato degli uomini, nonostante le immancabili infedeltà:  Dio continua a tessere una storia d’amore con il suo popolo e non lo abbandona. Gli invia il suo unico Figlio come salvatore. Ecco, in definitiva, la più bella notizia mai raccontata. Dovremo essere attenti allora, mentre usiamo i mezzi della comunicazione, a far sì che dentro ad ogni notizia, dentro ad ogni fatto, dentro ad ogni parola che pronunciamo e comunichiamo, sia presente questa passione di Dio per l’uomo, questa benevolenza, questa misericordia. Sappiate essere uomini di speranza che con mezzi, tutti umani, comunicano sempre una notizia divina antica e sempre nuova» (ivi).

Tuttavia, sia il testimone sia il comunicatore non assolvono una significativa funzione cristiana se non sono disposti ad esporsi in prima persona, uscendo dai ben noti linguaggi asettici o “neutrali” della comunicazione e affrontando i rischi connessi all’essere partigiani di Dio. La verità di cui entrambi devono essere portatori non può essere neutrale, non può essere obiettiva nel senso di equidistante o di genericamente pluralista. Qui il termine di riferimento di entrambi può essere costituito da san Paolo che «non era un brillante oratore né un raffinato comunicatore, ma si è esposto in prima persona per il Vangelo» (San Paolo modello di annuncio senza retorica, in “L’Osservatore Romano” del 3 ottobre 2009 ). San Paolo non era neppure «un diplomatico», ha detto il cardinal Bertone, «e quando fece dei tentativi diplomatici, ebbe poco successo» (ivi). La sua unica arma era il messaggio di Cristo rettamente inteso e praticato e con essa fu «un uomo disposto a dare tutto e questa era la sua vera forza» (ivi).

Perciò, pur non operando per mezzo di «una brillante retorica» e pur non utilizzando «raffinate strategie di comunicazione», e solo in virtù del suo impegno personale e del suo sacrificio spinto sino all’immolazione della vita stessa, san Paolo avrebbe conseguito per la Chiesa e per la sua funzione evangelizzatrice risultati straordinari e inimmaginabili. Anche quella spada nelle mani con la quale egli è stato raffigurato, che da una parte simboleggia l’arma con cui venne decapitato, ha un preciso ed alto significato cherigmatico, perché essa simboleggia la parola di Dio, la verità di Dio, la verità che è Dio stesso, e dunque la verità, precisa ancora il cardinal Bertone, che «può far male, può ferire, come appunto una spada appuntita. Va a colpire la vita vissuta nella menzogna o anche solo determinata a scegliere di ignorare la verità» (ivi), per cui, conclude il cardinale, «chi si dedica alla verità fino in fondo, non necessariamente sarà ucciso, ma giungerà comunque vicino al martirio» (ivi), non essendovi dubbio alcuno che sofferenza e verità «vanno sempre insieme» nel senso che se la «sofferenza è necessaria per accreditare la verità,…solo la verità dà alla sofferenza un significato» (ivi).

E’ di questo san Paolo, è di queste ispirate riflessioni del cardinal Bertone che deve soprattutto tener conto il buon testimone di Cristo, il buon comunicatore di Cristo, e chiunque con tutta l’anima voglia appartenere a Cristo per sempre.

La cultura, la politica e la fede

A ridosso dello scorso ferragosto il “Corriere della Sera” ha ospitato alcuni interventi su un tema classico ma sempre attuale specialmente in periodi storici di pochezza culturale com’è quello che stiamo vivendo: quello del rapporto tra politica e cultura. Osservava preliminarmente e giustamente Ernesto Galli Della Loggia che la parola “cultura” «è una parola da adoperare sempre con estrema cautela dal momento che tra il pronunciarla e sciacquarsene con sussiego la bocca ce ne corre pochissimo»; tuttavia, egli aggiungeva, non c’è dubbio che ad «un qualsiasi rapporto tra la politica e la cultura il nostro Paese sembra aver rinunciato ormai da molto tempo. Vi hanno rinunciato con spensieratezza innanzitutto i partiti nuovi della cosiddetta Seconda Repubblica. Nessuno di loro mantiene più un centro studi, una rivista di qualche spessore, una fondazione, una casa editrice, uno straccio di istituzione culturale propria. Alcune di queste cose esistono, semmai, come emanazioni dirette di questo o quel leader, ma fin troppo strumentale ne risulta allora lo scopo: e cioè farsi una sorta di corrente personale, costruirsi una sede dove radunare il proprio seguito ristretto, e, usando quindi il tutto per cercare di assumere una caratura politica, darsi un’aria di pensoso statista, e partecipare con un apposito convegno ogni sei mesi, allo stucchevole dibattito che ci delizia da qualche lustro su “le riforme”, “il federalismo”, “la legge elettorale” o qualche altro appassionante argomento del genere» (Una politica senza cultura, in “Corriere della Sera, 9 agosto 2009).

Nei trascorsi decenni, aggiungeva Della Loggia, memori di quel che era stato il fascismo e del totale o quasi totale assorbimento della cultura nella politica fascista, né i partiti né i governi né i movimenti culturali ritennero generalmente che politica e cultura dovessero avere punti di contatto e ciò al fine di evitare i pasticci del passato. Bisogna precisare che, almeno nella cultura e nella stessa cultura politica italiana più avvertita e aggiornata, accademica e non, non mancò affatto la preoccupazione di spiegare come si potessero e dovessero coniugare in modo fecondo politica e cultura e come per cultura non si potesse e dovesse intendere qualcosa di «frigidamente conservativo-museale» ma proprio qualcosa «di vivo e attuale» (ivi). Che poi, nonostante questo apprezzabile sforzo, che gli odierni intellettuali di solito non compiono più, «lo Stato e la politica», decidessero allora e continuino ancor più oggi a decidere «che nel campo della cultura tutto in Italia debba lentamente appassire tra micragna, grigiore burocratico, e un po’ di sottogoverno che non fa mai male» (ivi), è certamente vero, ma solo nel senso che oggi, molto più di ieri, non solo “lo Stato e la politica” ma, in misura almeno uguale, anche l’università e le istituzioni ed il sapere accademici, nelle loro forme pubbliche e private, specialmente per ciò che attiene le cosiddette scienze umane etiche e religiose, non sono per niente in grado di alimentare una significativa attenzione e un reale interesse spirituale circa l’ineludibilità di un nesso tra politica e cultura, non genericamente e retoricamente dichiarato in linea di principio ma adeguatamente spiegato, motivato, vissuto e partecipato sul piano delle sue molteplici articolazioni pratico-esistenziali.

Anzi, per essere più chiari, se il livello culturale medio del nostro popolo è men che mediocre e la preparazione culturale della popolazione giovanile italiana è in moltissimi casi sciatta o incolore, non dovranno essere chiamate in causa principalmente scuola e università che, popolandosi di decennio in decennio di docenti più improvvisati ed ambiziosi che capaci e meritevoli, non hanno saputo far tesoro della loro “autonomia” trasmettendo sempre di meno vero sapere critico, formando ed educando in misura sempre più inadeguata e insignificante? Della grande cultura laica, magari anche un po’ “aristocratica” ma onesta, di un tempo, non sembra essere rimasta quasi più traccia nel mondo accademico e nel panorama culturale italiano, e la stessa valutazione deve darsi sulla cultura religiosa, che è piena anche nelle pontificie università di professori quasi sempre impegnati a proporre discorsi complicati e noiosi ma sostanzialmente priva di gente capace di coinvolgere mente e cuore di chi ascolta e di sollecitare ad un’appassionata e personale ricerca intellettuale e spirituale. Scuola e università statali da una parte, scuola (ivi compresi i seminari per la formazione del clero e gli istituti di scienze religiose) e università cattoliche dall’altra, reclamano da sempre e insistentemente per sé un aumento di finanziamenti, affinché possano espandere i loro spazi e la loro influenza nella società civile, anche se in realtà e più accentuatamente in ambito cattolico, i servizi formativi ed educativi offerti, tranne rare eccezioni, lasciano molto a desiderare.

Sono queste le osservazioni fatte parzialmente anche, per la parte che riguarda soprattutto la cultura laica, da Luigi Covatta, direttore di “Mondoperaio”, il quale però, rilevando che se proprio nell’attuale periodo di decadenza politica e culturale italiana, non si riesce a creare uno spazio adeguato «per il rifiorire della cultura politica…, la colpa non è solo degli intellettuali, distruttivi o costruttivi che siano, ma innanzitutto di un sistema politico il cui spirito costituente finora non è andato oltre l’escogitazione di espedienti di ingegneria elettorale, buoni per rinsaldare ulteriormente un oligopolio ma non per ridare un senso allo Stato ed alla sua capacità di rappresentare la comunità nazionale» (Se gli intellettuali non suonano il piffero, in “Il Corriere della Sera”, 10 agosto 2009), dove non si può negare che ci sia una parte di verità che però, a mio avviso, va integrata con le osservazioni e le critiche sino ad un certo punto pertinenti dell’onorevole Sandro Bondi, attuale ministro dei beni e delle attività culturali, il quale a Galli della Loggia che scrive “politica senza cultura”, senza idee, senza ideali, senz’anima in definitiva, risponde che è vero anche il contrario, vale a dire che “la cultura è senza politica”, nel senso che «l’atteggiamento degli intellettuali in questi ultimi sessant’anni è stato o di sudditanza oppure di fiera opposizione, quasi mai di comprensione e collaborazione. E una cultura incapace di farsi politica rischia di volgersi al velleitarismo o farsi inutile e pedante piagnisteo» (La cultura? Incapace di farsi politica rischia di diventare inutile piagnisteo, in “Il Corriere della Sera”, 10 agosto 2009).

Come non convenirne, benché il governo di cui Bondi fa parte sia sempre generosissimo verso le istanze cattoliche, spesso a prescindere dalla effettiva qualità dell’offerta formativa che attraverso di esse viene propagandata? Anche se, subito dopo, si scopre che, secondo Bondi, la sola cultura italiana capace oggi di “comprendere” e di “collaborare” sarebbe quella promossa dalle fondazioni politiche che fanno capo per lo più a  politici di destra quali Fini, Brunetta, Frattini, Gelmini e via dicendo. Ecco: queste iniziative, sostiene Bondi, «sono espressioni della migliore cultura politica nel senso vero del termine, cioè think tank che danno un sostegno alla politica, criticano l’esistente, producono progetti per il futuro» (ivi), il che francamente, per diversi motivi, a molti non sembra né vero né augurabile. Ma che gli intellettuali italiani in genere abbiano avuto e soprattutto abbiano il malvezzo di darsi arie di prime donne, sempre criticando o giustificando l’esistente non tanto per “comprendere” e motivati da una umile e seria spinta interiore a trasformare la realtà morale del mondo e della stessa politica (e naturalmente di se stessi) ma più che altro per un incontrollato bisogno narcisistico di esibire la propria presunta cultura ed originalità di pensiero, è, temo, malgrado lo stesso Bondi, assolutamente vero anche se non facilmente verificabile.

In sostanza, a prescindere dal valore effettivo delle loro capacità intellettuali, abbiamo ancora intellettuali troppo invaghiti di se stessi da una parte e troppo moralisti dall’altra. Soprattutto il moralismo sembra qualcosa di insopportabile ad un intellettuale come Angelo Panebianco che, per dimostrare come moralista lui non lo sia affatto, dichiara tranquillamente che è totalmente sbagliato considerare la politica in senso moralistico, ovvero come «luogo del confronto tra luce e tenebre» (La politica non è lotta tra bene e male, in “Il Corriere della Sera”, 14 agosto 2009), che è una bella frase ad effetto, anche se essa lascia intendere che la politica deve essere la migliore possibile e che però non le si può chiedere di essere perfetta, ma che non è seguita da una frase altrettanto bella con cui si spieghi chiaramente ed esattamente cosa sia allora la politica e se essa per caso non abbia ancora a che fare con una buona amministrazione della cosa pubblica e dunque anche con una lotta per tutto ciò che sia ritenuto il bene dei cittadini contro tutto ciò che venga invece identificato con il male dei cittadini stessi. Ed è indubbio che «c’è una cosa che stupisce molto nell’intervento di Angelo Panebianco su moralismo e riformismo…. E’ la sicurezza con cui afferma che chiunque ponga al dibattito politico una questione morale si rende responsabile “di una immagine farsesca della politica, come luogo del confronto fra luce e tenebre”. Stupisce, perché filosoficamente la questione dei rapporti fra morale e politica è talmente aperta che non è veramente legittimo liquidarla con un paio di battute, mi perdoni Panebianco, tanto sbrigative quanto sprezzanti, neppure nello spazio di una polemica. Tanto più se è vero, come è vero, che è soltanto una fra le posizioni filosofiche in gioco anche la posizione dell’autore: un realismo politico apparentemente associato a un relativismo valoriale e morale, presumibilmente fondato su uno scetticismo radicale (l’“ineliminabile ambiguità, anche morale” del mondo) in materia di oggettività dei giudizi di valore e/o di fondazione delle norme» (Roberta De Monticelli, La vita pubblica ha bisogno di un’etica, in “Il Corriere della Sera”, 14 agosto 2009). Con un’osservazione conclusiva che appare assolutamente ineccepibile: «che la politica abbia le sue proprie regole e i suoi propri meccanismi nessuno che io sappia lo mette in dubbio: ma da questo a dire che non possa essere etica la motivazione per le proprie prese di posizione, scelte e perfino proposte di riforme politiche, ce ne corre troppa, di distanza» (ivi).

Il credente cattolico, benché la sopra citata Roberta De Monticelli abbia rotto l’anno scorso con la Chiesa cattolica, non può non trovarsi su questa stessa lunghezza d’onda, anche se egli sa che la sua fede, in sé considerata, non è cultura, non è «proposta di una cultura nuova», come pare dicesse don Giussani, ma riconoscimento di una presenza misteriosa e tuttavia reale, ovvero Cristo, nella propria vita (nella propria vita personale cosí com’è, in tutte le sue specifiche componenti bio-psichiche, intellettive e culturali) e nella vita del mondo; e, in questo senso, «proprio in quanto diventa principio di una percezione, di una conoscenza nuova del mondo, della realtà» (Autore anonimo, Fede e cultura secondo don Giussani, nel sito “Senza patria”, 5 Agosto 2009), la fede tende a diventare cultura, capacità di rappresentare la realtà approfondendone continuamente il senso e il valore alla luce di una persona, dell’incontro con una persona, con la Persona, Cristo; alla luce di colui senza il quale nulla può essere fatto dall’uomo, nulla di vero, di giusto, di grande.

La fede dunque genera, se non una cultura o una cultura nuova, sicuramente un nuovo sguardo culturale che, quali che siano i nostri dati di partenza, le nostre esperienze personali, i dati psicologici e culturali che abbiamo acquisito, la forma mentis che abbiamo assunto nel corso della nostra vita, agisce su tutto ciò, senza cancellarlo, ma rinnovandolo e trasformandolo alla luce dell’incontro d’amore (perché se l’incontro non produce nel nostro intimo amore e amore non equivoco, non sentimentalistico né erotico, ma amore puro anche se non disincarnato, amore dedito al bene altrui sino all’estremo sacrificio di sé, è evidente che l’incontro stesso è stato o è del tutto illusorio) con Cristo Gesù.

Ecco perché ogni cristiano, pur potendo sentirsi legittimamente tale nel professare determinate idee in campo economico, sociale e politico, non può al tempo stesso ritenere che la sua fede sia inattiva sulle sue stesse idee e possa perciò tranquillamente coesistere con esse lasciandole totalmente immutate. La fede non agisce accanto alla cultura e alla politica, ad una determinata cultura e ad una determinata politica, ma agisce sempre nella cultura e nella visione politica (indipendentemente dal fatto che possano essere rozze o ben sviluppate), come nei pensieri più intimi e profondi, di ciascun uomo. La fede, cioè, se non è mera abitudine spirituale ma stimolo effettivo ad una ricerca spirituale sempre più rigorosa ed aperta del volto e del cuore di Dio, è lievito che costringe l’uomo a “riposarsi” e a realizzarsi in una volontà di rivedere e trasfigurare costantemente, con l’aiuto di Dio, tutto ciò che ha costituito e segnato la sua esistenza.

Angela Iazzolino

L’essenza della democrazia da un punto di vista cristiano

Leggendo l’articolo di André Bellon sulla democrazia in “Le Monde Diplomatique” del giugno 2009, si può utilmente riflettere sullo stato della democrazia contemporanea. Ormai, scrive l’autore, è invalsa l’abitudine di pensare alla democrazia come ad un metodo di governo e di partecipazione politica volto essenzialmente a procurare consenso e a garantire la pace sociale. Ci si dimentica che in realtà la democrazia nacque storicamente non come ricerca di consenso ma come metodo “per risolvere i dissensi”, e quindi le stesse contraddizioni che attraversano la società, sia pure in forma pacifica. Ma se accade, e nelle odierne società globalizzate occidentali accade piuttosto spesso, che le contraddizioni e i conflitti inerenti il corpo sociale “non possono esprimersi nel quadro istituzionale e neppure nelle strade, dov’è lo spazio di espressione necessario alla vita democratica?”. Se la democrazia cessa di essere innanzitutto “uno strumento di liberazione e di lotta”, secondo la definizione di Jean Jaurès, essa viene meno al suo compito primario che è quello di fare in modo che la complessiva condizione di vita dei cittadini, e soprattutto dei cittadini più disagiati, che non sono semplici individui, sia sostanzialmente e non solo formalmente suscettibile di reale e qualificato miglioramento.

Per questo motivo una società può dirsi democratica non solo se è basata sul suffragio universale ma su procedure che garantiscano la non aggirabilità o non eludibilità di tale principio, non solo se è basata su un libero parlamento liberamente eletto ma su regole e meccanismi che rendano praticamente impossibile che un libero parlamento sia di fatto composto in misura rilevante da avventurieri e da coscienze moralmente labili e incapaci di scorgere e perseguire sul serio il bene comune, e che facciano sí al tempo stesso che il voto dei cittadini sia libero non già nell’ambito di talune opzioni ristrette e limitate, ingiuntivamente fissate per via parlamentare e/o governativa, ma nel quadro di possibilità non parziali e non ingannevoli di voto e di partecipazione politica. Se invece i governi che volta a volta si avvicendano alla guida di un paese hanno il loro interesse prevalente nell’esercizio e nel mantenimento del potere, limitandosi a concedere ogni volta solo ciò che ritengano necessario a questo scopo, essi potranno solo pretendere di governare nel nome di una democrazia che in realtà continueranno ad usare come strumento di potere fine a se stesso e non come strumento di servizio finalizzato a soddisfare domande oggettive di eguaglianza e di giustizia.

Se non c’è un’opposizione reale, forte, responsabile e dinamica che rappresenti, con ferma determinazione e risolutezza, e in assoluto spirito di verità, le esigenze più sentite della o delle parti sociali più disagiate e sofferenti, “il principio democratico perde il suo senso profondo. Lungi quindi dal pensare che democrazia e lotte sociali possano essere antinomiche, occorre dire chiaramente che la lotta per la democrazia è la base dello scontro sociale”. In particolare, i cristiani non possono lasciarsi ingannare da concezioni o interpretazioni farsesche della democrazia. E, per evitare di rimanerne vittime, non devono fare altro che guardarsi attorno, osservare attentamente le condizioni reali di vita dei propri simili oltre che di se stessi, e chiedere energicamente senza timore e senza demagogia, senza viltà ma anche senza astratti e sterili rivendicazionismi di natura indiscriminatamente egalitaristica tutto ciò che serva ad assicurare condizioni non semplicemente più dignitose ma effettivamente dignitose di vita per coloro che ingiustamente ne siano ancora piuttosto lontani.

Il cristiano non deve evitare i conflitti, li deve capire e li deve risolvere con la preghiera e con l’impegno quotidiano; il cristiano non deve essere per forza un “moderato” se il moderatismo politico funge in realtà da oppio della democrazia ed è un modo accattivante di conservare privilegi e vantaggi illeciti di individui e di gruppi, o agisce come trappola ricattatoria tesa principalmente a coloro che hanno ben chiari le intenzioni mistificatrici e i trucchi che sottendono determinate e diffuse forme dell’agire democratico. Il cristiano non può fingere di non vedere la realtà dei fatti e anzi deve sforzarsi di capire e di testimoniare sempre e comunque, anche o soprattutto contro ogni possibile interesse personale, la verità delle cose. Né egli può rettamente giudicare solo in base ad etichette politiche e a schieramenti politici specialmente oggi soggiacenti ad un’imperante omologazione e ad un diffuso malcostume: egli, per esempio, deve opporsi coraggiosamente a quella che, benché fallace, è ormai diventata una convinzione comune ad ogni schieramento governativo e spesso anche non governativo: che in democrazia tutto si possa fare ma pur sempre in un rapporto di compatibilità con quelle che sarebbero le immutabili leggi del mercato e dell’economia.

Il cristiano onesto che ha cercato sempre di capire e di giudicare senza farsi condizionare da preconcetti schemi ideologici e dal timore di essere tacciato di ideologizzazione religiosa non può e non deve concordare sul fatto che nel mondo economico e sociale ci sarebbero leggi e strutture immutabili o immodificabili. Certo non si può non tener conto delle dinamiche economiche storicamente in corso ma avendo coscienza del fatto che l’economia va dove la portano gli uomini, che l’economia è quel che gli uomini nella loro libera scelta vogliono che sia, e, a seconda che a prevalere siano gli egoismi oppure comportamenti più generosi e responsabili, essa appare più o meno giusta, più o meno vicina a certi princípi di equità e più o meno proficua non solo sul piano produttivo ma anche su quello della giustizia sociale (non è vero che le due cose non possano procedere congiuntamente, perché anzi la vera produttività è quella che favorisce la giustizia sociale e la vera giustizia sociale è quella che favorisce lo sviluppo della produttività).

Se, al contrario, la democrazia favorisce unilateralmente la produttività a scapito della giustizia sociale o un’istanza mistificata e strumentale di giustizia sociale a scapito della produttività e della ricchezza economica oppure non favorisce né l’una né l’altra al di là di determinate dichiarazioni di principio, vuol dire che bisogna lavorare ancora molto non solo politicamente ma anche sul piano culturale, etico e naturalmente religioso, per fare in modo che nella coscienza civile della gente comune si faccia strada l’idea che, in democrazia, il buon governo è un governo che pensa innanzitutto a quelli che non hanno niente o hanno poco, pur avendo essi offerto o potendo ancora offrire abbastanza o molto alla crescita e al progresso economici e sociali, ed è in pari tempo un governo che non ritiene inessenziale una rigorosa moralizzazione della vita pubblica e civile.

In questa visione della democrazia (che, ricordiamolo, nacque in Francia nel 1789 da una rivoluzione, per cui, se dovesse mai accadere che essa si converta nella sua negazione di fatto, potrebbe sempre succedere la stessa cosa per ripristinarla) c’è forse del marxismo? Il cristiano non discrimina niente e nessuno aprioristicamente: se il marxismo significa ateismo, il cristiano certo non può che combatterlo; se il marxismo significa utilitarismo di massa o peggio dittatura, il cristiano non può che prenderne le distanze; se il marxismo significa metodo di studio e di analisi dei processi storico-sociali e si pone come contributo all’emancipazione dell’umanità, il cristiano può e deve essere interessato perché egli sa che le cose buone ispirate dallo Spirito Santo possono venire da qualunque parte e persino dagli uomini apparentemente più lontani da Dio.

D’altra parte anche i più fieri avversari del marxismo, per riprendere un’osservazione di Claudio Magris, oggi non possono fare a meno di chiedersi «se e come – anche dinanzi a enormi sacche di miseria sulla Terra, a crescenti disuguaglianze e allo spettro di un futuro affollato di masse disoccupate – un capitalismo non corretto dal suo avversario possa risolvere e gestire le contraddizioni del mondo» (Caro vecchio Marx benvenuto nel 2000,  Corriere della Sera, 20 giugno 1997).

Vittoria Pepe

Il credente e il 25 aprile

Prima della mia conversione religiosa pensavo che il fascismo avesse attecchito in Italia per circa ventitré anni soprattutto per la complicità attiva o passiva della stragrande maggioranza del popolo italiano. Non ignoravo, naturalmente, le complesse cause di quel fenomeno storico-politico, ma ero convinto che la sua lunga permanenza al potere fosse stata in larga misura causata dalla inerzia morale e politica di grandissima parte dei miei connazionali della prima metà del novecento. Il fascismo sarebbe caduto solo con il secondo conflitto mondiale, solo a causa della sconfitta militare dell’Italia mussoliniana e fascista. Se quella sconfitta non ci fosse stata, ho sempre sentito dire a molti, probabilmente il fascismo non sarebbe caduto o non sarebbe caduto nel modo tragico che conosciamo e oggi forse i nostri ordinamenti istituzionali sarebbero diversi da quelli esistenti e il governo della nazione potrebbe vantare un’efficienza che tutta la storia repubblicana e parlamentare del nostro paese continua invece ad impedire.

Senza quella sconfitta militare o meglio senza la decisione mussoliniana di partecipare alla guerra al fianco della Germania nazista, e non è detto che persino all’ultimo momento prima della conflagrazione bellica il duce non potesse chiedere l’aiuto delle potenze alleate, il fascismo avrebbe potuto ancora contare su un consenso popolare sufficientemente solido, tentando di ricompattare le masse su politiche sociali più avanzate di quelle precedenti e puntando alla ricostituzione di un potere autoritario di tipo dirigista nel quadro di un modello sociale più aperto allo sviluppo economico e tecnologico e apparentemente più ancorato al dinamismo culturale. Ovviamente non avremmo avuto una resistenza cosí significativa come quella che in effetti ci sarebbe stata, ovvero, come spesso si sostiene con qualche possibile esagerazione, una guerra o una resistenza di popolo, né una costituzione e una storia repubblicana e democratico-parlamentare come quella in cui siamo cresciuti sino ad oggi.

Penso di poter dire essenzialmente tre cose: il fascismo, non tanto all’inizio quanto soprattutto alla fine della sua esperienza storica, non fu affatto opera di pochi ma di molti; la resistenza, tutto sommato, per quanto eroica e ben radicata in una certa tradizione civile e culturale del nostro paese e nella coscienza di larghi strati della popolazione, non fu tuttavia cosí estesa e determinante come tante volte si è voluto sostenere se non in alcune regioni del nord e solo parzialmente in quelle del sud; la resistenza fu comunque importante e determinante nel conferire una direzione ben precisa e un orientamento sicuramente democratico alla vita civile e politica dell’Italia postfascista. Dal che può ricavarsi che al popolo italiano nella sua generalità l’esperienza fascista non spiacque sino al momento stesso del suo crollo, che la vittoria contro il fascismo non fu la vittoria di tutta la società italiana ma di una parte forse non maggioritaria di essa, che la costituzione repubblicana ebbe un indiscutibile valore democratico e antifascista e che lo Stato repubblicano italiano nacque più specificamente come uno Stato democratico in quanto antifascista, anche se in un paese ancora pieno di rimpianti per un passato ormai svanito nel nulla, nonché diviso dal punto di vista politico tra repubblicani e monarchici e dal punto di vista umano e morale da dissensi e contrasti ancora più profondi.

Il partito della democrazia cristiana, a partire dal 1948, avrebbe raccolto molti moderati sempre realmente estranei alla mentalità e alla politica fasciste ma anche e in tutte le classi sociali (ivi compreso il clero cattolico) molti nostalgici del fascismo non più capaci o non più in grado di professare apertamente le proprie idee. L’unico partito radicalmente e congenitamente antifascista sarebbe stato quello comunista e una parte del partito socialista, anche se al loro interno non sarebbero mai mancati un diffuso autoritarismo e uno spirito antireligioso oltremodo marcato. Il partito comunista sarebbe venuto sgretolandosi già verso il finire del novecento, dopo la scomparsa del partito socialista di Craxi, a causa di scelte politiche strategiche tanto ingenue quanto obiettivamente avventate (tra queste anche quella di modificare il sistema elettorale proporzionale) che avrebbero consentito a tutte le forze anticomuniste del paese, ivi compresa molta parte di quella democrazia cristiana anch’essa finita in macerie dopo Tangentopoli, di tornare all’attacco, non apertamente e sconsideratamente ma subdolamente e viscidamente, degli stessi princípi fondativi della nostra repubblica e della nostra vita di uomini liberi.

Tutto ciò pensavo prima della mia conversione religiosa. All’indomani di essa, avendo fatto esperienza di valori ben più significativi e duraturi di quelli legati alla contingenza politica, il mio interesse per le vicende politiche italiane è venuto notevolmente scemando, ma non ho dimenticato che chi cerca di testimoniare Cristo tra gli uomini, sia pure nei limiti delle sue possibilità e capacità, non può mai restare totalmente indifferente a tutto ciò che è vita, a tutto ciò che cospira contro la vita o a favore della vita delle persone. Un modo di sentire insomma, su scala molto meno significativa, simile a quello di Giuseppe Dossetti. Oggi vedo che le cose si stanno aggravando sempre più, anche a causa bisogna dire di un’opposizione democratica in massima parte priva di ideali più che di idee, di sentimenti religiosi saldi e genuini, di conoscenze e competenze solide e rigorose, di spirito antiburocratico e di adeguata capacità organizzativa volta anche ad avvalersi di intelligenze e sensibilità non rinchiuse negli stretti recinti di partito.

Se il popolo italiano è stato sostanzialmente fascista una volta, non c’è motivo di pensare che non possa esserlo anche una seconda volta. Tanto tempo fa gli capitò di scambiare un avventuriero per l’“uomo della provvidenza”, oggi ci sono le condizioni perché commetta lo stesso errore. Senza voler demonizzare nessuno, non penso che il 25 aprile oggi possa essere “la festa di tutti” o “la festa della libertà”. Con tutto il rispetto per chi ha espresso ed esprime questi giudizi, è doveroso affermare che il 25 aprile, festa della liberazione partigiana e democratica dal fascismo e dal nazismo, può essere, come è sperabile che sia sempre stata, solo la festa di tutti coloro che credono intimamente nella libertà dal fascismo e da quella bolsa retorica etico-civile che volle coprirne lo spirito di intolleranza e di dominio; può essere solo la festa della libertà coniugata con la giustizia e con uno spirito di solidarietà non funzionale alla ricerca di popolarità e vantaggi personali.

L’uomo di fede prega perché tutto vada per il meglio, ma non può e non deve tacere, non può essere indifferente a correnti di pensiero e a processi storico-politici il cui punto di approdo appare pericolosamente ignoto o ambiguo. Essendogli ancora consentito di esercitarsi pubblicamente nella ricerca della verità storica oltre che in quella della verità teologica o di fede, egli deve uscire talvolta dal suo monastero spirituale per invitare i propri fratelli, quanto più caritatevolmente possibile, a riflettere sui nostri tempi e sui nostri costumi e a prendere eventualmente posizione contro la realtà del presente. Almeno questo egli deve fare con tutte le sue forze, anche se nel frattempo dovesse accadere che i più, “democraticamente” educati ad una vita ‘civile’ fiacca e vile, stiano a guardare, assistendo scettici e passivi agli eventi.

Il cristiano non può essere massone

Il primo documento pontificio di condanna della massoneria risale al 28 aprile del 1738 e ne fu autore papa Clemente XII (Lettera apostolica “In eminenti). Più di centocinquant’anni dopo, e precisamente l’8 dicembre 1892, papa Leone XIII, autore della celebre enciclica ”De rerum novarum”, fissando in modo esemplare il giudizio della Chiesa, scriveva quanto segue nella lettera “Custodi” indirizzata al popolo italiano: «Ricordiamoci che il cristianesimo e la massoneria sono essenzialmente inconciliabili, cosí che iscriversi all’una significa separarsi dall’altro».

Da allora la Chiesa cattolica non ha mai modificato questa posizione, anche se al suo interno e sia pure ufficiosamente o sotterraneamente sono venute via via determinandosi posizioni e comportamenti sempre più fluidi ed ambigui. Oggi purtroppo, anche a causa di ciò, sono molti i presunti cristiani e cattolici che, regolarmente iscritti a logge massoniche, ritengono tranquillamente compatibile la loro fede religiosa con i princípi e gli statuti della massoneria. Senonché, nell’ultimo documento ufficiale di riferimento, ovvero la Dichiarazione sulla massoneria (26 novembre 1983), approvata e ordinata da Giovanni Paolo II e recante la firma dell’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede cardinale Joseph Ratzinger, viene affermato inequivocabilmente: «Rimane immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro princípi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione» (grassetto mio). Né d’altra parte, si precisa, «compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito.

Con ciò, si nota poi in un articolo esplicativo apparso su L’Osservatore Romano del 23 febbraio 1985 e intitolato “Inconciliabilità tra fede cristiana e massoneria”, «la Sacra Congregazione della Dottrina della Fede non ha inteso disconoscere gli sforzi compiuti da coloro che, con la debita autorizzazione di questo Dicastero, hanno cercato di stabilire un dialogo con rappresentanti della Massoneria. Ma, dal momento che vi era la possibilità che si diffondesse fra i fedeli l’errata opinione secondo cui ormai l’adesione a una loggia massonica era lecita, essa ha ritenuto suo dovere far loro conoscere il pensiero autentico della Chiesa in proposito e metterli in guardia nei confronti di un’appartenenza incompatibile con la fede cattolica».

C’è da augurarsi che la Chiesa torni con una certa assiduità e con immutata perentorietà su questo argomento perché tra molti cattolici regna sovrana la confusione e soprattutto vanno talmente accentuandosi in ogni ambito di vita sociale certe smanie o ambizioni di successo, di potere o di ricchezza, da compromettere, specialmente ove siano per l’appunto coltivate attraverso associazioni fondamentalmente atee di tipo massonico, ogni realistica possibilità di sequela e di servizio in Cristo. La Chiesa deve prendere puntualmente e reiteratamente posizione anche verso quei cattolici-massoni che dovessero godere di buona fama e di rilevante rispettabilità sociale perché né la buona fama né la rispettabilità sociale sono sufficienti a fare di noi delle creature gradite a Dio.

I parametri del giudizio cristiano e cattolico sono altri: la capacità di discernere tra bene e male senza margini cosí ampi di tolleranza da vanificare ambedue, la fede in Cristo e nella sua assoluta sovranità e centralità nella vita e nella storia degli uomini, il perseguimento di fini leciti con mezzi leciti tra i quali ultimi possono essere anche compresi una segnalazione, un aiuto, una valorizzazione umana, professionale o scientifica, purché obiettivamente comprensibili e giustificabili da un punto di vista etico-sociale perché fondati sul merito e non su logiche clientelari o meramente corporative.

Circa un anno fa, il 16 maggio 2007, mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, ammoniva: «La massoneria è un nemico della Chiesa», essa punta subdolamente alla «distruzione della Chiesa e della civiltà cristiana», e a sostituirle con «una cultura e una società sostanzialmente ateistiche, anche quando fa riferimento all’architetto dell’universo», che è molto diverso dal Dio creatore e salvatore del messaggio cristiano. A chi, più o meno ingenuamente o ipocritamente, osserva che la massoneria non impone un credo specifico a nessuno dei suoi aderenti che resterebbero pertanto liberi di professare la loro fede e di lavorare fraternamente e armonicamente al bene della società e dell’umanità solo guidati da una nobile e sincera idea di bene universale, occorre replicare che la massoneria non crede alla divinità di Gesù Cristo e quindi non crede che ognuno di noi possa conseguire la salvezza solo attraverso di Lui (come recita invece 1Gv 4, 3).

Quella massone è una religione senza Salvatore e chi, sedicente cristiano e cattolico, per qualunque motivo e a qualunque titolo, ritiene di poterla accettare o di poterla utilizzare senza danno per la sua ipotetica fede in Cristo, si illude drammaticamente e si allontana da Gesù e dalla sua Chiesa. Né egli potrà sperare di risultare attendibile nel rivendicare la saldezza della sua fede cristiana pur all’interno di un’associazione non cristiana e non cattolica, perché, nel migliore dei casi, non potrà negare di aver stretto un patto di interesse con una comunità di persone notoriamente avverse a Cristo e alla sua Chiesa.

Che il cristiano sia o si faccia massone solo per motivi di praticità o di convenienza, come a volte tenta di spiegare in modo piuttosto grottesco certo giustificazionismo cattolico, anche ad alti livelli, non è affatto un’attenuante ma una terribile aggravante. Il gran maestro è solo Cristo, solo Lui può darci quello che ci serve, solo la sua croce e il suo amore totalmente disinteressato sono la buonissima “convenienza” di chi veramente lo ama.