I giovani, la crisi e la Chiesa

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Molti pensano che i giovani abbiano bisogno di crescita economica per trovare occupazione e realizzarsi cosí nel lavoro, nella famiglia e nella società. Senza sviluppo, senza progresso economico, senza capacità statuale di far crescere produttività e competitività sul piano internazionale, si dice, essi saranno condannati alla disoccupazione o ad uno stato di perenne precarietà per cui non potranno sfuggire ad una condizione esistenziale complessiva di instabilità e di incertezza. Fino a qualche tempo fa si poneva enfaticamente l’accento sulla assoluta necessità che il rapporto intergenerazionale fosse corretto e reso più equo attraverso una riforma delle pensioni che, togliendo qualcosa agli anziani, avrebbe un giorno consentito ai giovani di avere una pensione dignitosa. Adesso la riforma delle pensioni è stata fatta e, siccome il suo vero obiettivo non era il futuro dei giovani ma altro, adesso naturalmente, come sempre accade in questi casi, bisogna alzare la posta e si parla con la stessa enfasi di prima della crescita, dello sviluppo e via dicendo, quasi che, se per ipotesi, non ci fosse né l’una né l’altro per un prolungato periodo di tempo, la società non possa avere ugualmente bisogno di molteplici e qualificate attività lavorative e di altrettanti e capaci lavoratori anche se non previsti o previsti secondo ben determinate modalità dalla cosiddetta domanda di mercato che spesso non nasce spontaneamente in seno alla società stessa ma è imposta più che altro dalle multinazionali e da gruppi tecnocratici di dubbio spessore morale.

Si ha perciò più di una semplice sensazione, anche o proprio nei giovani più consapevoli e responsabili, che di crescita, di sviluppo, di produttività, di competitività si parli ormai sempre più a vampera, senza avere una precisa e rigorosa cognizione di quel che si va dicendo, senza sapere se le ricette economico-finanziarie proposte e adottate siano realmente giuste ed efficaci, o meglio ben sapendo che esse saranno vincenti ed efficaci per il conseguimento di fini inconfessabili, e continuando d’altra parte a sostenere che se non ci fosse un debito pubblico cosí alto, se non ci fosse stato negli anni passati un eccesso di spesa, se si fossero fatte prima le “riforme” che solo adesso si cominciano a fare (delle pensioni, del mercato del lavoro, della giustizia e via dicendo), se si fosse intrapresa per tempo la via delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, a quest’ora la situazione sarebbe completamente diversa, certamente più rosea e non sottoposta alle pesanti restrizioni attuali.

Pochi, nel mondo adulto, nel mondo della cultura e dei massmedia, e purtroppo anche nel mondo ecclesiale cattolico, sono quelli che hanno il buon senso di chiedersi se sia proprio vero che crescita e sviluppo, produttività e competitività, possano darsi in forma indefinita ed illimitata, solo che si individuino ciclicamente strategie e misure economico-finanziarie idonee a garantirne processi di continuo ed inarrestabile avanzamento, e se tale indefinita e illimitata processualità non sia per caso richiesta dalla strutturale anche se non ineluttabile esigenza storica delle più alte oligarchie di potere di riprodurre ed intensificare stabilmente i propri profitti e i propri privilegi sociali. Pochi si chiedono se la crescita richiesta dai massimi istituti tecnocratici del mondo sia realmente necessaria e a chi sia veramente necessaria, se le pretese modalità di tale crescita siano frutto di analisi e valutazioni obiettive o piuttosto di calcoli per niente disinteressati e “neutrali”, se questa tanto decantata crescita e i suoi strumenti saranno effettivamente in grado di assicurare e in che misura e per quanto tempo eventualmente quel diffuso benessere economico che le politiche del vecchio Stato sociale, come dicono i molti critici di quest’ultimo, non potevano garantire o conservare e non hanno infatti né garantito né conservato.

Le idee sono molto confuse e approssimative. Si parla continuamente di democrazia e di stato di diritto, ma poi passano provvedimenti su cui le masse popolari non hanno alcuna possibilità di esprimersi proprio mentre i diritti collettivi ed individuali vengono sistematicamente violati dalle politiche sempre più verticistiche e dirigiste di stati nazionali sempre più deboli e docilmente sottomessi alle ordinanze extragovernative di uno stato trasversale internazionale di banchieri, uomini d’affari, tecnocrati ed esperti di varia natura, che nessuno ha eletto e non potrebbe mai eleggere. Si parla di volontà popolare solo per quanto riguarda i momenti elettorali e per ottenere quel consenso con cui poi gli eletti o i nominati continueranno ad imbrogliare gli elettori, di necessario investimento su scienza cultura e tecnologia ma al tempo stesso ci si duole del fatto che i fondi dello Stato non siano sufficienti a consentire quegli investimenti che pure sarebbero necessari in questi settori raggiunti peraltro da processi solo apparenti o presunti di “modernizzazione”, di snellimento burocratico della pubblica amministrazione ma i normali cittadini si trovano sempre costretti a gestire una montagna di carte e ad effettuare mille e complicati adempimenti senza che il corrispettivo sia alla fine per loro la possibilità di usufruire di servizi davvero efficienti, di norme volte ad abbattere finalmente i molteplici ed onerosi “costi” dei consumatori i quali però generalmente incontrano crescenti difficoltà nel pagamento delle varie bollette, di austerità e sobrietà proprio mentre proprio coloro che se ne fanno araldi o banditori esibiscono pubblicamente redditi personali e proprietà immobiliari da capogiro (certamente convinti di fare opera di trasparenza ma altrettanto convinti che sia normale che, in un Paese in cui milioni di persone non hanno lavoro o stentano a sbarcare il lunario o versano in condizioni di estremo disagio, alcuni professionisti del sapere, dell’economia e della finanza, percepiscano guadagni cosí elevati).

Ci si dichiara realisti, pragmatici, efficientisti, ma in realtà si tende a perdere progressivamente il senso della realtà e del decoro e si scambia disinvoltamente per capacità pragmatica ed efficientistica quel che altro non è se non semplice arte del semplificare e del cambiare, o meglio del “razionalizzare”, all’unico scopo di poter meglio imbrogliare attraverso la programmazione e la creazione di strutture giuridico-operative destinate a ben funzionare sí e no solo per un determinato periodo di tempo: quello che serve a privati, managers, banchieri, funzionari di stato, politici, speculatori ed affini di incrementare lautamente i propri guadagni.

Né, d’altra parte, la realtà, piena di mistificazioni e di sottili ed astute manipolazioni, viene resa più accessibile e comprensibile dall’apporto delle forze culturali e massmediali che generalmente fanno da semplice cassa di risonanza a quel pensiero unico che, elaborato non solo per l’economia dai grandi centri internazionali di comando che ovviamente dispongono di numerosi proseliti e soci rappresentanti in tutte le nazioni del mondo, si tenta di imporre in modo sempre più massiccio a tutte le comunità nazionali. Tali forze spiegano forse in modo adeguato il funzionamento della finanza mondiale, i suoi regolamenti e le sue clausole, i suoi trucchi e i suoi inganni, e poi le unilateralità e le norme spesso arbitrarie degli stessi trattati politici di cui il complessivo mondo finanziario può vantaggiosamente avvalersi? Si potrebbe credere di sí, vista la enorme mole di servizi giornalistici offerti in televisione e sulla carta stampata, di libri e di saggi firmati da illustri accademici ed intellettuali, ma in realtà a passare nell’opinione pubblica sono principalmente i giudizi conformisti e spesso asserviti di esperti, economisti, uomini di affari, capi di stato, politici più o meno affermati.

E’ molto difficile, per esempio, che faccia breccia nella pubblica opinione, creando reale sconcerto ed energiche reazioni di massa, un articolo come quello di Laurent Cordonnier (Debito pubblico, la congiura delle buone idee, in “Le Monde Diplomatique” del 22 febbraio 2012), in cui, non ideologicamente ma sulla base di dati inoppugnabili, vengono prese di mira la BCE di Mario Draghi, che statutariamente non può acquistare i debiti sovrani e prestare direttamente denaro agli Stati per concorrere a riequilibrare i loro conti, e le banche private, alle quali invece la stessa BCE ha recentemente erogato 500 miliardi di euro all’1% per un loro rifinanziamento a lunga scadenza (3 anni) senza che esse abbiano ritenuto di mettere tali fondi a disposizione delle imprese o di acquistare una parte sia pure piccola dei debiti pubblici ma al contrario depositandoli di nuovo sul loro conto presso la BCE con l’evidente scopo di incrementarli con gli interessi.

Ed è un peccato, non certo dovuto al caso, che in questo momento storico processi particolarmente involutivi e pericolosi per tutta l’umanità stiano progredendo rapidamente a causa di un vuoto abissale di intelligenza e senso etico. Perché se, sia pure all’insegna dell’austerità e della sobrietà, si pensa di fare riforme solo per alleggerire o per svuotare il portafoglio dei comuni cittadini e non anche e innanzitutto, per mezzo di leggi giuste ed oculate, per impedire i sin troppo disinvolti guadagni di banche e banchieri, di mercati e mercanti, e di tutti coloro che in modi diversi ma ugualmente redditizi vi fanno capo o ne fanno parte integrante, il problema è proprio quello di sperare in un sussulto di intelligenza e di coscienza morale in contesti sociali in cui sembrano prevalere largamente fenomeni di pigrizia intellettuale e cecità culturale, di passività etica, di sudditanza politica. Bisogna aggiungere: il problema è anche o soprattutto quello di sperare e pregare che ci sia al più presto un vigoroso sussulto della fede.

Non basta che la Chiesa cattolica invochi il ritorno della società e in particolare dei giovani ai valori e a sani princípi di vita morale, non basta la sua condanna pur doverosa dell’individualismo sfrenato e dell’asservimento agli idoli del potere, della ricchezza e del successo a tutti i costi, né la sua costante e ferma riprovazione del relativismo e del nichilismo morali dilaganti. Il mondo, senza saperlo, è in attesa che la Chiesa pronunci parole più profonde e credibili, che essa si faccia testimone più scomodo e affidabile della parola di Cristo, che essa torni ad essere evangelicamente capace o più capace di illustrare correttamente alle folle il senso spirituale della primitiva comunione dei beni, alimentando le speranze dei poveri e riducendo quelle dei ricchi.

Di fronte alla crisi in atto, la Chiesa cattolica non può ridurre il suo magistero, il suo insegnamento, la sua testimonianza, la sua fede, ad un insieme declamatorio di pie esortazioni e di giudizi per cosí dire “equidistanti” che non producano sano ed effettivo turbamento in nessuno. Essa, senza derogare dalla sua ordinaria e complessiva catechesi, è chiamata oggi non solo a reclamare, come ha già fatto e continua a fare, nuove e più giuste regole per le attività e i processi finanziari, e maggiore equità economica e sociale, ma ad ammonire i potenti e i potentati della terra, tutti indistintamente e senza riguardo per nessuno, a non coltivare aspirazioni bassamente materialistiche o pensieri egoistici e perversi, e a non perseguire scopi illeciti ed iniqui, sia pure sotto la copertura di programmi apparentemente nobili e proficui, pena la inesorabile ed eterna punizione divina.

Se è vero, come dice qualche illustre esponente del mondo cattolico, che il mondo andrà dove andranno i giovani, la Chiesa ha il preciso dovere di aiutare i giovani a capire chiaramente, con la semplicità e la nettezza della parola evangelica, cosa e come fare, nel nome di Cristo, per spingere il mondo verso la giusta direzione.

I cattolici italiani e la crisi. Che fare?

Per monsignor Romero il capitalismo, non questo o quel capitalismo, non questa o quella forma di capitalismo, ma il capitalismo tout court che viene naturalmente manifestandosi ed attuandosi in forme e modi differenti nelle diverse aree del pianeta, era una controreligione assoluta, una mentalità ateistica particolarmente pericolosa per la Chiesa cattolica perché facilmente e subdolamente suscettibile di infiltrarsi nella sua stessa coscienza religiosa chiamata a discernere e ad operare in un mondo per l’appunto capitalistico in cui troppo spesso di fatto «i beni materiali si erigono a idoli e sostituiscono Dio». Noi viviamo in un mondo in cui realmente il denaro, come diagnosticava e profetizzava Marx, è diventato cosí onnipotente da eguagliare l’onnipotenza divina: e questo spiega, almeno in parte, perché troppo spesso negli stessi cattolici l’amore del denaro tenda a soverchiare nettamente l’amore verso Dio.

Il vero nocciolo della crisi economica, della crisi etica e culturale contemporanea è proprio qui: nel ritenere che, pur essendo necessarie delle profonde riforme del sistema capitalistico, quest’ultimo sia tuttavia insuperabile ed eterno. Non si riflette più abbastanza sulle parole di Cristo: «cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno». Cioè: in questo nostro mondo non c’è nulla di eterno, tranne che le “mie” ovvero le sue parole, che sono parole di giustizia, di eguaglianza, di libertà, di invito alla condivisione personale e comunitaria delle pene e delle gioie della vita e alla comunione delle necessità e dei beni materiali e spirituali. Il sistema capitalistico è un prodotto storico e, come tutte le cose della storia, è destinato a passare e a trasformarsi in altro. E’ molto grave che, dinanzi ad una crisi economica e finanziaria cosí profonda ed estesa che incombe sempre più minacciosa sul presente e sul futuro del mondo occidentale ed europeo, si continui a pensare che le cose possano essere ancora rimesse in gioco, corrette, raddrizzate, attraverso semplici inversioni di rotta rispetto alle politiche economiche precedenti, ai privilegi delle cosiddette “caste” e alle colpe presunte o reali della moneta unica, e non piuttosto attraverso una radicale messa in discussione della stessa economia capitalistica sempre più staccata dal lavoro da cui dovrebbe originarsi e trarre la sua naturale alimentazione e sempre più asservita ad un potere finanziario chiuso ed autoreferente che non può non alterarne e non peggiorarne la naturale dinamica.

Qui non si tratta più di distinguere tra un «capitalismo sfrenato» e un «capitalismo moderato o temperato», perché molteplici sono le varianti del capitalismo ma tutte, a seconda delle circostanze e delle epoche storiche, ugualmente e cinicamente funzionali allo sfruttamento della forza lavoro e al perseguimento di un profitto illimitato attraverso un sistematico disconoscimento di vincoli e valori morali. Né, realisticamente, si può continuare a ripetere che l’economia capitalistica senza regole morali produca solo disastri, perché l’economia capitalistica, in quanto costitutivamente fondata sul duplice meccanismo dell’indiscriminata produzione di merce e di una distribuzione necessariamente e costantemente diseguale della ricchezza prodotta, e in quanto non più condizionata e inibita dalla presenza di forme statuali particolarmente agguerrite di comunismo, è intrinsecamente votata a misconoscere ogni genere di vincoli morali che ne frenerebbero inevitabilmente lo sviluppo.

Zygmunt Bauman (Capitalismo parassitario, Laterza 2009), parlando di un “capitalismo parassitario”, ha ben evidenziato come, per precisi motivi di evoluzione storica, gli unici “ospiti” attuali di cui il capitalismo può nutrirsi siano «gli stessi cittadini degli Stati ad economia capitalistica», i quali vengono sfruttati attraverso il loro assoggettamento al pagamento di interessi sempre più arbitrariamente alti sul debito contratto con banche e istituti finanziari, e come le politiche degli Stati capitalisti “democratici” o “dittatoriali” (come la Cina) vengano costruite e condotte nell’interesse e non contro l’interesse dei mercati. Se un tempo gli  Stati  promuovevano e proteggevano l’accumulazione di capitale attraverso lo sfruttamento della manodopera operaia, oggi assolvono questa stessa funzione attraverso lo “sfruttamento dei consumatori”. Hai contratto debiti, hai chiesto crediti? Bene, adesso paghi alle mie condizioni, con il tasso di interesse che stabilisco io! Questa è la sostanza del problema. Ma, allora, se questo è il prezzo da pagare, perché continuare ad indebitarsi? Perché continuare a chiedere credito e rifinanziamento del debito stesso? E perché non ribellarsi con opportuna sagacia agli istituti finanziari internazionali che impongono agli Stati come l’Italia di pagare persino interessi sugli interessi ordinari relativi ai debiti contratti, allo stesso modo di come istintivamente e moralmente si ritiene generalmente giusto e doveroso negli Stati civili ribellarsi alle criminali ingiunzioni di mafiosi e usurai?

Come può l’Occidente cristiano consegnarsi mani e piedi, corpo e anima, a quei lupi famelici che sono chiamati mercati e che tendono a far strage di tutto, oltre ogni più elementare considerazione di ordine umano e morale, e a divorare tutto pur di ingrassare se stessi? Come possono i credenti in Cristo, e perciò credenti in un Dio che tutto restituisce alla vita, continuare a favorire la crescita a dismisura di questi mostruosi leviatani politico-finanziari che consegnano tutto alla morte e condannano tutti, o meglio tutti coloro che vivono o si sforzano di vivere di onesto lavoro, ad una condizione di schiavitù? Come possono cristiani e cattolici, battezzati in spirito e verità, continuare ad accettare un sistema economico e sociale che incita all’egoismo, che spinge a dilatare le esigenze consumistiche, a moltiplicare esigenze narcisistiche e irrazionali di competitività e di ricchezza indefinita? Non ha forse ragione il teologo Carlo Molari di affermare senza ipocrisie di sorta che «l’attuale sistema capitalistico è per principio incompatibile con l’annuncio cristiano»?

Si dirà che non si può creare ricchezza senza capitale e che, dove d’altra parte c’è il capitale, dev’esserci realisticamente il capitalismo e non un capitalismo che può anche essere riformato e più temperato ma il capitalismo nell’intera gamma delle sue possibili forze espropriatrici. O non c’è accumulazione continua e indiscriminata di ricchezza e siamo in una società chiusa, arcaica, immobile, preindustriale o improduttivamente postindustriale e incapace di sviluppo, o c’è il capitale e restiamo dentro il capitalismo con tutti i benefici ma anche e soprattutto con tutte le negatività sempre più distruttive che esso inevitabilmente comporta. Tertium non datur, potrebbe dirsi.

Se però cambiano i modi e i tempi della produzione, e quindi l’organizzazione complessiva del mondo del lavoro e i suoi livelli di produttività, le forme stesse dello sviluppo, della crescita e del profitto, nel senso che esse non siano più concepite e perseguite in termini assoluti e illimitati ma in termini di sostenibilità relativa alla situazione e alle necessità specifiche ed oggettive delle diverse regioni del pianeta e dello stesso occidente europeo, noi possiamo evitare il rischio della staticità o dell’immobilismo economico senza tuttavia rimanere imbrigliati nel quadro dello sfruttamento capitalistico, e al tempo stesso ci facciamo promotori di una prosperità economica reale ma non ossessiva e soprattutto non vantaggiosa solo per alcuni bensí volta a non costringere nessuno, e in particolare i meno abbienti, ad indebitarsi e a chiedere prestiti forzosi e letali o a vivere in condizioni assolutamente miserevoli.

Non si tratterebbe quindi di aggiustare il sistema con qualche cambiamento o riforma di facciata o immettendovi un po’ di etica, di salvarlo ancora una volta per salvarlo sempre e per mantenerne sostanzialmente inalterati assetti e meccanismi di potere, ma di superarlo radicalmente attraverso una serie di coraggiose ed incisive trasformazioni strutturali, ovvero anche di natura legislativo-normativa e giuridico-finanziaria, di cui naturalmente dovrebbe imparare a farsi carico la politica, sebbene oggi essa sia ancora esercitata, mi perdonino se esagero, da soggetti generalmente impreparati, codardi e inaffidabili.

A ben vedere, una siffatta prospettiva non contribuisce a ridisegnare il nostro mondo economico e sociale? Non può inaugurare una nuova stagione della storia umana ed introdurre in un’organizzazione sociale non più capitalista perché organicamente fondata più su vincoli comunitari di tipo morale che non su vincoli sociali di tipo meramente contrattuale? Non sarebbe il caso che, in presenza di una sinistra politica incredibilmente assuefatta all’idea che il mondo debba vivere e svilupparsi dentro il capitale (F. Rampini, Alla mia sinistra, Mondadori 2011), anche i cattolici e anzi i cattolici per primi, nel nome della loro stessa fede, cercassero di rovesciare tale prospettiva per costringere il capitale a stare nel mondo, a calarsi cioè nelle differenze della storia e della politica, nei bisogni reali e non artificiali dei popoli e delle singole comunità nazionali?

Urgono regole radicalmente nuove, leggi radicalmente alternative a quelle che garantiscono gli attuali equilibri economico-finanziari nel mondo e in Italia. Forse in parte è vero che «coloro che credono che la democrazia liberale e il libero mercato possano essere difesi con la sola forza delle leggi e delle regole, senza un senso interiorizzato del dovere e della morale, si sbagliano tragicamente», ma è certo che, a parte il fatto che quello della fede in una democrazia liberale è un cliché ormai logoro e sempre più privo di mordente tanto quanto lo sarebbe quello di una fede in una democrazia socialista di già noto stampo culturale, regole e leggi esemplarmente nuove e severe sono più che mai necessarie e improcrastinabili, anche se esse presuppongono un “senso interiorizzato del dovere e della morale e, aggiungerei, della stessa fede per chi ce l’ha o ritenga di averla (Jonathan Sacks, rabbino capo del Regno Unito, L’anima perduta dell’Europa. Risanare l’Europa è molto più che stabilizzare l’euro, lezione del 13 gennaio 2012 presso la Pontificia Università Gregoriana).

I cattolici sono oggi chiamati a battersi non più per rattoppare un sistema ormai logoro e irreversibilmente corrotto, non più per rinviare ancora una volta un fallimento delle finanze pubbliche destinato comunque a restare in agguato contro i popoli e le persone più indifese, ma per invertire radicalmente la rotta dell’economia nazionale e mondiale attraverso prese di posizione e misure politiche drastiche e limpide ad un tempo per mezzo delle quali i cosiddetti “poteri forti”, i mercati, le famigerate agenzie di rating, i vari organismi della finanza internazionale, gli stessi istituti di studi economici e finanziari esclusivamente riservati a riconosciute eminenti personalità del mondo politico, scientifico e culturale di ogni parte del pianeta, siano costretti a mettersi l’anima in pace, a rivedere profondamente le proprie dottrine, le proprie teorie, i propri calcoli, i propri criteri di previsione e programmazione politico-economiche, e quindi anche a rinunciare alle proprie ambizioni circa la creazione di una governance sovranazionale, alle proprie manie di globalizzazione indiscriminata persino degli stili di vita, delle sensibilità e dei gusti, delle tradizioni e delle peculiarità di ciascun popolo e di ciascun individuo, delle specificità antropologiche di ogni gruppo umano, nel quadro di una progressiva e presunta quanto indifferenziata unificazione razionale dei vari sistemi giuridico-legislativi, economico-finanziari, culturali e religiosi.

I cattolici dovranno resistere all’idea che l’unità del genere umano su valori e scelte di vita, specie se manifestamente e irragionevolmente contrari agli interessi collettivi e personali di larga parte delle masse popolari, possa essere imposta dall’alto e da parte di un ristretto gruppo di persone, i cosiddetti “illuminati”, che non esprimono molto altro, con i loro progetti di risanamento tanto sofisticati quanto spesso illusori e ingannevoli, al di là degli interessi forti di potenti caste finanziarie internazionali. Noi cattolici siamo tenuti ad aprire gli occhi evangelicamente, con il candore dello spirito e la circospetta ed intuitiva intelligenza della mente, sui processi in atto che, di riforma in riforma, di taglio in taglio, di privatizzazione in privatizzazione, puntano ad una espropriazione quanto più possibile avanzata e generalizzata della ricchezza pubblica, sia in senso materiale che in senso immateriale, di tutti i cittadini del mondo. Dobbiamo renderci conto e mostrare chiaramente che il re è sempre più nudo, che di sacrificio in sacrificio la gente muore o vive in preda alla disperazione, che è semplicemente vergognoso ritenere di poter tutto cambiare e riformare (riforma del sistema pensionistico, della pubblica amministrazione, del mercato del lavoro, ecc.) tranne che i mercati stessi e i mercanti non certo probi e disinteressati che li gestiscono e li manovrano.

C’è un altro aspetto dell’analisi che è necessario fare. Tutte quelle imposte dirette ed indirette, tutti quei tributi locali e nazionali, tutte quelle tasse governative regolarmente versate, tutte quelle azioni volte spesso con successo contro grandi evasori fiscali e contro immensi patrimoni più o meno legali, non sono mai sufficienti a tenere in equilibrio il bilancio dello Stato, ad onorare l’impegno di pagare i debiti nazionali e ad assicurare servizi pubblici decenti ai cittadini? Fiumi torrentizi di denaro che riempiono sistematicamente le casse dello Stato sino a farle straboccare, non bastano mai a risanare debiti, a rimettere le cose a posto, ad assicurare alle fasce sociali meno protette condizioni di vita quanto meno accettabili? Possibile che lo Stato abbia sempre bisogno di manovre economiche che, anziché favorire l’emancipazione qualitativa della vita della generalità dei suoi cittadini, sottopongano questi ultimi ad interminabili e dolorose vessazioni? Cosa bisogna aspettare per risanare lo Stato: un depauperamento progressivo della società? E alla fine cosa sarà rimasto di tanto appetibile? Uno Stato risanato, forse; ma per quanto tempo, ma per chi, a vantaggio di chi e a quale prezzo? Che differenza c’è, a parte l’orribile immagine di cadaveri disseminati per le strade, tra le rovine di una guerra e le rovine ineluttabili di queste “civilissime” e truffaldine manovre governative e statuali?

Dare a Cesare quel che è di Cesare non significa affermazione astratta del rispetto per qualunque autorità di governo e per qualsiasi obbligo di legge previsto da un ordinamento statuale; significa affermazione consapevole e responsabile del rispetto che si deve allo Stato e ai suoi ordinamenti nei limiti in cui essi restino compatibili con l’obbligo di obbedire a Dio e di rispettare i suoi comandamenti, tra cui quello di non rubare, di non espropriare in modo non già illegale ma illecito, di non privare nessuno della propria dignità personale, di non comminare pene per gli innocenti, di non creare disperazione nella vita dei popoli e delle persone. Per il cristiano e per il cattolico, Cesare non può fare quello che vuole, specialmente se quello che vuole è assecondare sempre e comunque i mercati e i mercanti, soddisfare impunemente le brame dei ricchi e dei potenti, veicolando propagandisticamente ipocriti e irresponsabili messaggi di risanamento e civilizzazione.

Cesare è legittimato da Dio a fare uso del potere, della forza, della coercizione, per far rispettare l’ordine sociale, le leggi, le norme della convivenza, e certo anche il possesso privato di beni, ma solo nei limiti in cui egli non usi la frode, l’inganno, l’iniquità deliberata come strumenti di potere e di governo. Se evangelicamente occorre dare a Dio quel che è di Dio, il cristiano sa di non poter indulgere a prassi governative di qualsivoglia natura, di non potersi e non doversi inginocchiare di fronte ad una violenza beluina sebbene incruenta di Stato, ma di doversi opporre per cambiare quanto più pacificamente possibile quel Cesare che sta infrangendo le regole più elementari della vita associata e della vita comune voluta da Dio, pur sempre disposto a sacrificarsi per il bene comune senza far uso di violenza.

La storia cambia gli uomini non meno di quanto gli uomini siano chiamati a cambiare la storia: la storia, la politica, l’economia, la vita stessa di ogni comunità. Ma se la storia cambia gli uomini più di quanto gli uomini siano capaci di cambiare la storia con una sana capacità di discernimento, l’umanità si condanna ad essere oggetto passivo di trasformazioni impersonali e oppressive. Chi più del cristiano-cattolico può e deve mostrarsi pronto ad impedire che la vita sia asservita all’economia che dovrebbe esserne invece un semplice strumento per quanto prezioso? Chi più di lui è tenuto a perseguire la giustizia di Dio piuttosto che la giustizia degli uomini quando questa nasce dalla menzogna, dalla falsità, dall’inganno più o meno premeditato?

E non è manifestamente falso e ingannevole sostenere che, poiché c’è una crisi economica globale che mette a repentaglio la tenuta economico-finanziaria di molti paesi occidentali fra cui l’Italia, allora non si può fare a meno di imporre gravi “sacrifici” alle masse popolari, e in particolare ai ceti più poveri o meno abbienti? Non è ipocrita sostenere che i sacrifici devono essere fatti da tutti quando appare del tutto evidente che il reddito di molti cittadini, già abbondantemente tartassati da imposte tasse e tributi, è nei casi migliori appena sufficiente ad assicurarne la sopravvivenza? E’ mai possibile che non si possa e voglia capire che, specialmente in certe congiunture economico-sociali, i poveri e i disagiati devono essere totalmente risparmiati dalle politiche fiscali e che sia assolutamente giusto ed equo che l’intero peso fiscale di determinati provvedimenti governativi ricada unicamente e sia pure proporzionalmente sulle spalle di benestanti e “ricchi”?

Un reddito personale di 60.000 euri netti annuali è o non è il reddito di una persona benestante? E chi percepisce più di 100.000 euri all’anno si può o non si può definire ricco? Bene, è cosí complicato accertare il numero di questi “fortunati” in un paese come l’Italia? O si continuerà ad argomentare che non si debbano troppo infastidire i ricchi perché ne andrebbe della loro volontà produttiva e di investimento, della loro capacità di creare posti di lavoro e di contribuire allo sviluppo e alla ripresa economica di tutta la nazione? Come dire: attenti a non toccare troppo i ricchi perché altrimenti si rischia di condannare la classe imprenditoriale a una sorta di demotivazione produttiva che determinerebbe a sua volta una notevole riduzione della produttività e della competitività nazionali sul piano internazionale.

Ma è morale tutto questo? I cattolici possono far finta, e per quanto tempo ancora, di credere veramente che tutto ciò sia sensato, sia vero, sia giusto, sia praticabile e funzionale al bene comune? Io non so se il governo Monti sia davvero, come dice il cardinale Bagnasco, «un esecutivo di buona volontà» che si starebbe seriamente sforzando di rimettere a posto le cose e che meriterebbe di essere apertamente coadiuvato da tutte le forze politiche italiane (Relazione introduttiva alla Conferenza Episcopale Italiana, 23-26 gennaio 2012), ma, dato il curriculum vitae del professor Mario Monti, è oggettivamente difficile immaginare che egli, di punto in bianco, si renda completamente autonomo da quegli “illuminati” e molto discutibili ambienti internazionali di stampo neoliberista e da quel variegato e spesso oscuro mondo economico-finanziario di cui ha sempre fatto parte e continua a far parte, condividendone analisi diagnosi e terapie, e che hanno prodotto e continuano a produrre irresponsabilmente i maggiori disastri dell’economia mondiale e delle diverse economie nazionali, a cominciare da quella italiana.

Dobbiamo sentirci affetti da inguaribile malizia nel ritenere che, ove il risanamento nazionale riesca almeno per i prossimi dodici-diciotto mesi (giusto il tempo di restare e di lasciare il governo), tale risanamento sia eventualmente solo e proprio quello voluto nell’immediato dalle multinazionali dell’alta finanza internazionale, e che di successive ipotetiche crisi finanziarie egli potrebbe disinvoltamente lavarsi le mani? Non che ci si voglia fare, ci mancherebbe altro, difensori dello status quo: ma qui il problema è che i cambiamenti proposti dagli “esperti” sembrano tutti oggettivamente orientati ad impoverire la condizione economica dei popoli, a ridurre notevolmente il tasso democratico e la qualità della nostra vita civile. Ecco perché, in questo frangente, mi pare più condivisibile la preoccupazione espressa dalla Chiesa per bocca di un altro suo eminente esponente, ovvero monsignor Bregantini, responsabile della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro, il quale non si è affatto compiaciuto della manovra del governo Monti e ha dichiarato che, pur essendo “necessaria”, essa «poteva essere più equa», per cui si «sono fatti dei passi…che però potevano essere più equanimi» e più decisi in relazione «ai redditi alti» (dichiarazione del 5 dicembre 2011).

Non mi auguro affatto di avere ragione. Spero sinceramente che i dubbi qui espressi possano essere fugati da fatti incontrovertibili che dimostrino la giustezza e l’efficacia delle misure varate dal governo Monti e che questi non sia un volgare imbonitore ma un vero servitore dello Stato, della società e della Chiesa. Ma, francamente, non sussistono per ora elementi che consentano ai cattolici di pensare che il tentativo di Monti sia uno di quei tentativi attraverso cui si fa più vicino il giorno in cui «Cristo sia il cuore del mondo». E allora cosa dobbiamo fare, cosa resta da fare?

Innanzitutto, pur riconoscendo ovviamente che «evadere le tasse è peccato» (Relazione introduttiva di Bagnasco alla Cei, cit.), è assolutamente necessario precisare, e tenerne ben conto sia in sede morale sia in sede politica, che altro è il peccato del ricco che evade le tasse e altro è il peccato di chi le evade in quanto versi in uno stato di indigenza o di grave precarietà economico-finanziaria; in secondo luogo, bisogna impegnarsi a fondo perché i princípi e i valori della nostra carta costituzionale non vengano cancellati o sepolti da un pragmatismo politico orientato a distruggere le più avanzate conquiste di civiltà e progresso ottenute dai popoli europei e in particolare dall’Italia relativamente a stato sociale, a diritti e tutele a beneficio del mondo del lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici, oppure bisognerà impegnarsi per ripristinare il più presto possibile quei princípi e quei valori ove fossero stati già parzialmente vanificati; in terzo luogo, si dovrà essere capaci di elaborare una nuova strategia politica con la quale sia possibile non più accondiscendere a tutti gli umori dei mercati e alle relative istanze dei potentati finanziari del mondo ma metterne in discussione e persino fuori legge metodiche di misurazione dei debiti sovrani, aspettative e pretese, ove esse dovessero apparire manifestamente illegittime e contrarie al comune senso civico e morale del genere umano: una delle richieste più odiose che in questo periodo si sente fare, ovvero la cessione parziale della sovranità nazionale in materia fiscale da parte di paesi particolarmente indebitati, dovrebbe essere respinta al mittente come criminale ed infame.

Inoltre, sarà necessario sventare per tempo il pericolo di un radicarsi nella coscienza comune di idee che hanno tutta l’apparenza delle banalità e delle mistificazioni. Fa sorridere ad esempio Monti quando, per giustificare la reintroduzione dell’ICI-IMU, afferma che la non tassazione della prima casa è una stonatura esclusivamente italiana e che era necessario eliminare tale anomalia per mettersi finalmente sul piano degli altri stati europei, quasi che tutto ciò che vige in Europa dovesse essere preso per oro colato, mentre d’altra parte l’Italia sarebbe in perfetta media europea per ciò che si riferisce agli stipendi dei parlamentari e degli europarlamentari europei.

Come mai, peraltro, non si ritenga di aumentare gli stipendi degli operai, dei dipendenti del pubblico impiego, degli insegnanti della scuola primaria e secondaria o degli ospedalieri in Italia, visto che essi sono largamente inferiori a quelli dei colleghi europei, resta un mistero che genera profonda tristezza in chi vorrebbe ma non può riporre la sua fiducia nel cosiddetto “governo tecnico”. E preoccupazioni non meno gravi non possono non essere ingenerate da parte di chi propagandisticamente e solennemente dichiara, ma qui anche la Chiesa non deve peccare di ingenuità, che la civiltà di una nazione si misura dalla modernità e funzionalità delle carceri.

Ma come: voi dite che non ci sono soldi, che dovete riformare oggi le pensioni riservandovi magari di decurtarle insieme agli stipendi domani, che dovete imporre tasse a destra e a manca per far fronte al debito contratto con gli investitori stranieri, e poi, proprio mentre si abbassa spaventosamente il tenore di vita di larga parte della popolazione e la sua possibilità di soddisfare decentemente bisogni primari, proprio mentre si razionalizza la spesa pubblica chiudendo e accorpando scuole e ospedali e lasciando in uno stato fatiscente numerosi luoghi dell’edilizia scolastica e beni del patrimonio artistico-culturale, vorreste ricominciare la ricostruzione “europeista” del nostro paese dalle carceri, investendo denaro pubblico nell’edilizia e nella tecnologia carceraria? Ma vogliamo provare a ragionare seriamente prima di parlare o vi deve essere consentito di dire qualunque sciocchezza solo perché “tecnici”?

Ma, in questo momento, i cattolici, e si spera a breve un nuovo e coriaceo partito cattolico, né classista né interclassista ma semplicemente dotato di un forte senso della giustizia sociale e della giustizia tout court, e quindi per niente indulgente verso forme sofisticate o volgari di relativismo etico, devono porre al centro della loro agenda politica le istanze e le misure da far valere nei confronti di quei “mercati” arroganti e omnipervasivi che pretendono in modo sempre più impudente di avocare a sé la sovranità e dunque il governo della vita di milioni e milioni di persone, quella sovranità e quel governo che le costituzioni degli stati democratici assegnano ai popoli.

Certo, perché ormai è abbastanza chiaro che dietro questi “mercati” c’è la finanza internazionale che è la forma più compiuta, astratta e “delocalizzata” del capitale, che a sua volta è costituito e rappresentato da enormi patrimoni privati (hedge fund, private equity o fondi di investimento) che in un periodo di tempo relativamente breve sono cresciuti in virtù di un gigantesco trasferimento di ricchezze (circa il 10 per cento del PIL di quasi tutti i paesi; che per un salario può corrispondere al 40 o al 50 per cento del potere d’acquisto) dai redditi di lavoro ai redditi da capitale. Dietro i “mercati” ci sono anche le grandi banche e le grandi multinazionali, e soprattutto assicurazioni e fondi pensioni, ben adusi alle più svariate e sofisticate operazioni di investimento e di speculazione che presentano altissimi margini di rischio e di guadagno e le cui eventuali perdite alla fine ricadono sui consumatori e sul loro portafoglio.

Per imparare a intercettare, a smascherare e a combattere gli scaltri mercanti apparentemente e momentaneamente anonimi dei mercati e di questi mercati, non basta certo il ripudio della politica e il ricorso istintivo all’antipolitica. Con la Chiesa bisogna ribadire invece che «la politica è assolutamente necessaria, e deve mettersi in grado di regolare la finanza perché sia a servizio del bene generale e non della speculazione. Non è possibile vivere fluttuando ogni giorno nella stretta di mani invisibili e ferree, voluttuose di spadroneggiare sul mondo. Sembra, invece, che i grandi della terra non riescano ad imbrigliare il fenomeno speculativo; che giochino continuamente di rimessa, sperando ogni volta di scamparla alla meno peggio, ma è un’illusione: prima o poi arriva il proprio turno, e ci si trova in ginocchio come davanti ad un moderno moloch di non decifrabile direzione. Il dubbio è che si voglia proprio dimostrare ormai l’incompetenza dell’autorità politica rispetto ai processi economici, come se una tecnocrazia transnazionale anonima dovesse prevalere sulle forme della democrazia fino a qui conosciuta, e dove la sovranità dei cittadini è ormai usurpata dall’imperiosità del mercato» (Relazione Cei del 23 gennaio 2012, cit.).

Il che però implica che almeno i cattolici italiani si mettano totalmente a difesa della democrazia repubblicana e della inalienabile sovranità popolare da essa sancita pensando a come rifondare la politica per renderla più idonea a rappresentare e a tutelare coerentemente i legittimi interessi del popolo e della stessa umanità attraverso un’adeguata accentuazione dell’istanza di socializzazione e di comunione dei beni rispetto a quella, pure legittima e socialmente necessaria ma non dotata di valore assoluto né gerarchicamente superiore alla prima, di privatizzazione dei beni medesimi.

Dovremo altresí imparare a neutralizzare i veementi e sistematici attacchi dei mercati di questo tempo con misure appropriate e persino insubordinate rispetto alle implacabili logiche mercantili della finanza europea e mondiale, anche se suscettibili di arrecare ulteriori sofferenze alle popolazioni e ai cittadini economicamente più deboli. Ulteriori sofferenze, forse, in quanto rifiutarsi di continuare a pagare i debiti usurai implica un default dalle conseguenze probabilmente pesanti (ma non necessariamente pesanti), ma questa volta sofferenze all’interno di un processo di liberazione e di affrancamento definitivo da un’idolatria monetaria e non solo monetaria sempre più vorace, e non più nel quadro di un graduale e irreversibile asservimento dei popoli e del nostro popolo all’onnipotenza del dio denaro.

Dio, che non abbandona mai i figli che lo invocano con cuore sincero, ha liberato una volta il suo popolo dalla schiavitù egiziana; Dio libererà il suo popolo anche dall’attuale schiavitù finanziaria prima di liberarlo definitivamente dal peccato, dal male e dalla morte.

Il governo Monti e i cattolici

Un individuo si apre al mondo esterno e agli altri perché non potrebbe vivere senza relazionarsi ad entrambi; allo stesso modo una determinata comunità religiosa cerca di non rimanere chiusa in se stessa ma di allargarsi ad una comunità religiosa sempre più grande o universale per evitare di essere settaria e per arricchirsi di una spiritualità che da sola non potrebbe produrre e praticare, e cosí anche una comunità civile nazionale tende ad accrescere il suo benessere e le sue opportunità sociali e culturali di vita attraverso un’apertura costante alla comunità internazionale o mondiale. Va da sé che questo movimento, questa dinamica dello spirito umano, sono del tutto naturali e necessari nei limiti in cui sia l’individuo o la persona, sia una data comunità religiosa, sia una comunità nazionale abbiano buone ragioni per ritenere di trarne un reale vantaggio e un accrescimento delle proprie potenzialità umane, morali, spirituali, economiche, sociali e religiose. Ma se ci si rende conto già originariamente o sulla base di successive esperienze che in realtà “i costi” complessivi di tali forme di apertura sono ben superiori ai “benefici” effettivi che se ne possono trarre, sarebbe veramente diabolico perseverare nell’errore o nel peccato solo per amore di malintesi princípi altruistici e caritatevoli  o di un ecumenismo fine a se stesso o infine di ambigui ideali internazionalistici o mondialistici che, perseguiti fondamentalmente secondo le direttive di invisibili ma ben reali e dispotici governi finanziari transnazionali, non possono che condurre popoli, famiglie e soggetti umani e sociali alla rovina.

Anche da un punto di vista evangelico, si è tenuti sempre a valutare le ragioni delle proprie scelte, a soppesare quel che si fa e come lo si fa, a declinare eventualmente certi inviti ad accettare la compagnia di individui empi o non dotati di sicuro senso morale o a far parte di gruppi e di associazioni ecclesiali più ampi dei propri ma non necessariamente più sani e virtuosi, e infine a rinunciare persino a certi apparenti vantaggi materiali ove non siano ancora per nulla chiare le vere e complessive finalità per le quali ci si dovrebbe decidere ad essere parte integrante di una società globale, planetaria o europea che sia, sulla base peraltro di prevalenti interessi economici e finanziari.

Tutto si può fare ma a condizione, ammonisce il vangelo, che si sia candidi come colombe e furbi come serpenti. Per cui, è certo necessario che la Chiesa di Cristo si espanda quanto più possibile nel mondo, che agisca in ogni ambito familiare, civile, parrocchiale, economico, politico, territoriale del mondo, ma non evidentemente a costo di smarrire o dissolvere o diluire la sua identità religiosa e la sua capacità spirituale e missionaria di testimoniare ciò che è vero e ciò che è santo. E’ o sarebbe molto meglio quindi che la Chiesa resti o restasse eventualmente “un piccolo gregge” o “un piccolo resto” di persone davvero credenti e fedeli a Cristo Signore, se il prezzo ad essa richiesto per ampliare la propria presenza e la propria influenza nel mondo dovesse implicare una ritrattazione o un ammorbidimento sostanziali dei rigorosi richiami e valori evangelici.

Oggi la Chiesa cattolica, per bocca di alcuni suoi eminenti esponenti, ha avuto forse comprensibilmente fretta di salutare il governo Monti come un governo di persone serie e competenti. Lo speriamo, ma io non avrei troppa fretta nel decretare la natura e le finalità virtuose di tale governo solo perché molti dei suoi componenti pare si professino cattolici. Monti, sino a qualche tempo fa, era colui che attaccava le lobbyes di ogni ordine e grandezza, era molto critico con le grandi rendite finanziarie e molto severo verso una pressione fiscale eccessiva. Era anche determinato a tagliare aiuti finanziari alle imprese private. Francamente, è difficile ritrovare traccia di tutto questo nella sua recente manovra governativa, stracolma di tasse ben più gravose per i non abbienti che per i ricchi, e puntata essenzialmente su un prelievo fiscale strutturale che sembra danneggiare molto più i ceti medio-bassi che non i ceti alti e privilegiati della nazione italiana. A questo si aggiunga la fede assoluta e quindi dogmatica di Monti nella comunità economica internazionale, nei processi di globalizzazione, nella economia europea, benché non gli sfugga talvolta che in essi si aggirano veri e propri “avvoltoi” sempre pronti a speculare sulle debolezze delle economie nazionali e a portar via rapacemente dai popoli quanta più ricchezza possibile.

Nulla invece egli ha detto sin qui sulle consorterie ideologiche di segno prevalentemente massonico e anticristiano che molto probabilmente agiscono e decidono ai più alti livelli di comando economico-finanziario. Ecco: la Chiesa e i cattolici, prima di esprimersi su certe realtà mondane pure cosí importanti per il bene spirituale e materiale di tanta parte di umanità, dovrebbero forse essere più riflessivi, più prudenti, e soprattutto molto più candidi interiormente. E dovrebbero sottoscrivere in larga misura le recenti parole di Raniero La Valle, per il quale «alle nuove generazioni» bisogna far sapere, in modo molto più chiaro ed incisivo di quanto ancora non siamo riusciti a fare, «che il mercato non è tutto e che il pareggio di bilancio non è un dogma di fede. Se l’economia di mercato fosse stata fuori della portata delle decisioni politiche, Dossetti non avrebbe potuto fare quel discorso ai giuristi cattolici nel ‘51, e su Cronache sociali non si sarebbero potute discutere e criticare le ricette di Einaudi e di Pella, non si sarebbe potuto negare che il problema fosse solo nel controllo del credito e nella difesa della lira, e non si sarebbero rivendicate politiche di intervento e di spesa. A Dossetti, a Fanfani, a La Pira, a Glisenti, a Federico Caffè, a Novacco, a Massaccesi, che scrivevano su Cronache Sociali, era ben chiaro che si doveva uscire dal cerchio magico di un “dogmatismo liberale” e dal mito di un automatico funzionamento del meccanismo di mercato, cosí come dall’abbaglio della “deflazione benefica e risanatrice”; essi scrivevano che non è solo col bilancio in pareggio “che si occupano le migliaia di braccia inerti, che si dà la vita al Paese, che si muovono le energie, si moltiplica il reddito, si utilizzano i sussidi esteri, si diffonde il benessere” e si risponde alla domanda e ai bisogni dei poveri.

E cosí le generazioni di oggi almeno dovrebbero sapere che nel Novecento a tutti gli uomini e le donne è stato proposto un nuovo annuncio di fede, con una nuova narrazione e un nuovo linguaggio, e che anche l’annunciatore, cioè la Chiesa, è cambiato, come ha scritto Karl Rahner; c’è stata nel Novecento una straordinaria teofania di un Dio personale che con infinita tenerezza è tornato a parlare ai suoi figli nel Figlio, è tornato a reclamare un rapporto con ciascuno, dentro e fuori le religioni e le Chiese.

Dicono le inchieste che le prossime generazioni non sapranno più nemmeno chi sia questo Dio, mentre nuove culture e nuovi teologi si affannano a spiegare che non può esserci un Dio personale, che Dio consiste in una potenza neutra dell’essere energia, che la divinità sarebbe una forza vitale astratta, una idea regolatrice, una pura dimensione dell’essere, un brivido di trascendenza interno e non esterno a ciascuno; una specie di ectoplasma che sarà pure il grembo dell’esistenza, ma è senza nome, senza volto e senza parole di vita. Forse la Chiesa dovrebbe accorgersi che il Novecento, col suo Concilio, le ha offerto l’ultima possibilità di narrare agli uomini il Dio di Gesù Cristo» (Grandezza e miseria del Novecento in Dossetti, Monteveglio, 17 dicembre 2011).

Intanto però, per cattolici che non si accontentano del vangelo delle buone intenzioni di cui peraltro è lastricata la via dell’inferno, non può non essere un motivo concreto di speranza il nuovo monito del cardinal Bagnasco, sebbene probabilmente esso non sia stato rivolto al governo Monti: «Al di là di ogni ventata antipolitica, la politica è assolutamente necessaria, e deve essere in grado di regolare la finanza perché sia a servizio del bene generale e non della speculazione facile e garantita…Che la grande finanza internazionale guidi ormai i giochi sembra un dato innegabile ma così non deve essere. Una finanza fine a se stessa non serve il mondo ma se ne serve, e alla fine ne risentono i più deboli. Quando, infatti, il criterio sembra essere il guadagno il più alto e facile possibile, e nel tempo più breve possibile, allora il profitto non è più giusto, ma diventa scopo a se stesso e quindi immorale perché condiziona e sottomette anche l’economia e la politica, e quindi l’uomo… Non è possibile vivere fluttuando ogni giorno» ha detto ancora il porporato, e modellare la vita sulla base delle sentenze giornaliere e quasi sempre nefaste dei mercati.

Il che significa che «la politica non può prescindere» dal suo ruolo «se vuole corrispondere al suo mandato di promuovere la giustizia e il bene comune» e deve fare in modo che la vita dei popoli e della gente comune non sia concepita in funzione dei mercati ma, al contrario, i mercati sussistano ed operino nei limiti e in funzione delle possibilità e dei bisogni oggettivi delle popolazioni europee e mondiali (Bagnasco: la politica regoli la finanza. E va fermata la macchina del fango, in “Il Sole 24 Ore” del 31 dicembre 2011), magari, mi permetto di aggiungere, con l’aiuto più responsabile di governi nazionali che, in tempo di grave crisi come quello attuale, farebbero cosa saggia e utile se dalle loro politiche fiscali e tributarie escludessero completamente tutti quei cittadini che obiettivamente già vivono intorno alla cosiddetta soglia di povertà.

Napolitano e i cattolici italiani

So di non poter parlare a nome e per conto di tutti i cattolici italiani, né in verità ho mai preteso di rappresentare il pensiero dei miei correligionari. Ma, come ho fatto sino ad oggi nell’ambito delle colonne di questo sito, anche per quanto riguarda il rapporto tra Napolitano e i cattolici intendo esprimere da cattolico, pur nel rispetto dell’uno e degli altri, un mio punto di vista che risulterà probabilmente critico rispetto all’ampia pubblicistica esistente al riguardo. Sí, perché altro è il rispetto che si deve al capo dello Stato italiano, altro è invece il conformistico e servile ossequio che molti di noi, anche cattolici, sembrano volergli tributare, soprattutto sulla carta stampata, ogni qual volta egli apra bocca per esprimere giudizi e valutazioni.

Innanzitutto non condivido interamente la tesi maggioritaria secondo cui il nostro presidente sarebbe un beniamino di tutti e verrebbe accolto in ogni sua visita ufficiale come una specie di salvatore della patria, pur bisognosa obiettivamente di persone capaci di tutelarne i princípi e i valori fondanti soprattutto in un periodo in cui il governo del paese è nelle mani di avventurieri della politica: non perché non sia vero che gli vengano riservati molti applausi ed accoglienze festose ma perché questo non implica affatto che tutti siano partecipi di tali sentimenti entusiastici e condividano assolutamente tutto della sua attività istituzionale, tant’è vero che, benché molti giornali deliberatamente si autocensurino, talvolta (si veda gli studenti di Pisa, per esempio) viene anche sonoramente fischiato.

Ma poi, entrando nel merito delle sue posizioni, non vedo come, almeno per quanto riguarda i cattolici che dovrebbero avere un sacro culto della verità, le si possa definire sempre e indiscriminatamente ineccepibili o esemplari. In particolare sul terreno economico si resta francamente perplessi per le idee che Napolitano viene e non da oggi esprimendo in qualità di rappresentante supremo dell’unità nazionale (art. 87 della Costituzione). E’ recentissima, in riferimento alla dura e reiterata presa di posizione dell’Unione Europea verso l’Italia, la sua nota in cui afferma, pur criticando en passant  le “espressioni pubbliche” di alcuni capi di Stato e di governo europei come “inopportune e sgradevoli”, che «dobbiamo compiere tutte le scelte necessarie per ridurre il rischio a cui sono esposti nei mercati finanziari i titoli del nostro debito pubblico, rendere più credibile il nostro impegno ad abbattere tale debito e a rilanciare la crescita economica. Nessuno minaccia l’indipendenza del nostro paese o è in grado di avanzare pretese da commissario. Ma da 60 anni abbiamo scelto – secondo l’articolo 11 della Costituzione e traendone grandissimi benefici – di accettare limitazioni alla nostra sovranità, in condizioni di parità con gli altri Stati: e lo abbiamo fatto per costruire un’Europa unita, delegando le istituzioni della Comunità e quindi dell’Unione a parlare a nome dei governi e dei popoli europei».

In sostanza, per Napolitano il governo italiano avrebbe l’obbligo di assecondare per filo e per segno le richieste dei vertici politici e finanziari europei, perché solo in tal modo sarebbe possibile ridurre il rischio (rischio non coincidente peraltro, è da osservare, con un sicuro pericolo imminente, e non implicante di necessità una catastrofe ineluttabile) «a cui sono esposti nei mercati finanziari i titoli del nostro debito pubblico», abbattere quest’ultimo e, dulcis in fundo, «rilanciare la nostra crescita economica». E’ del tutto evidente la natura politica più e oltre che istituzionale di queste parole, perché da un punto di vista rigorosamente istituzionale il nostro presidente dovrebbe attenersi unicamente alle decisioni governative, senza tentare di condizionarne l’esito, prestando semmai la dovuta attenzione al fatto che tali decisioni non contravvengano in modo palese ai dettami degli articoli 3 e 4 della Costituzione, di cui egli è o dovrebbe essere il supremo garante. Ciò mi pare difficilmente contestabile a prescindere dal fatto che “nessuno” minaccerebbe “l’indipendenza del nostro paese”, laddove è pur comprensibile ma non per forza condivisibile che Napolitano non se la voglia guastare con altri capi di Stato.

Ma il punto più discutibile è il riferimento di Napolitano alla seconda parte dell’art. 11 della nostra Costituzione che recita testualmente: l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Per non apparire troppo sottile eviterò di storicizzare, con l’aiuto di esperti giuristi, il pensiero qui espresso dai nostri padri costituenti, ma le limitazioni concordate da tutti gli Stati e fra tutti gli Stati, a cominciare da quelli europei, all’indomani della seconda guerra mondiale, dovevano essere funzionali più che altro al mantenimento della pace e alla non proliferazione di nuove guerre, ed è in questo senso specifico che anche l’Italia, principale responsabile con la Germania del secondo conflitto mondiale, si sarebbe effettivamente impegnata a promuovere e a favorire «organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» (ONU, NATO, per esempio).

Ma cosa c’entra questo con la forzata e pretenziosa interpretazione secondo cui quelle “limitazioni” avrebbero potuto e dovuto intendersi anche come direttamente finalizzate a specifiche questioni economiche di Stati e tra Stati e più esattamente ad ipotetiche misure economico-finanziarie talmente restrittive che avrebbero potuto anche gettare nel panico e nella disperazione, sia pure nel nome della “crescita” e di una opinabile futura prosperità, moltissimi popoli ivi compresi quelli europei? Altro che «pace e giustizia tra le nazioni»! Violenza, somma iniquità e probabili rivolte sociali, dovrebbe pensare piuttosto il nostro capo dello Stato, al pari della Chiesa che, per mezzo del Pontificio Consiglio per la giustizia e per la pace, ha chiesto recentemente una radicale «riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un’Autorità pubblica a competenza universale»!

Anche per questo non capisco proprio il tacito avallo dato da molti cattolici alle prese di posizione forse “europeiste” ma certamente mistificanti e ingiuste del presidente Napolitano, la cui pervicace insistenza nel ribadire anche oggi a Bruges con piglio particolarmente risentito e recriminatorio la necessità per l’Italia di procedere alle cosiddette “riforme strutturali” (a cominciare dalle pensioni, naturalmente), che a dire il vero sono in corso già da parecchio tempo nel nostro Paese (anche se Napolitano forse non se ne è accorto), lo fa apparire più come un autorevole ma cinico rappresentante dell’Aspen Institute, di cui i cittadini italiani non sanno nulla ma su cui farebbero bene ad informarsi immediatamente, che non un autorevole e affidabile rappresentante della democrazia repubblicana italiana.

In fin dei conti, un paese molto più arretrato economicamente dell’Italia, l’Argentina, che dichiarò a suo tempo il suo default, il suo fallimento, non seppe poi risalire la china e rilanciare brillantemente la sua crescita economica e sociale? Per quale motivo l’ex esponente del partito comunista italiano non riesce proprio ad ammettere che i giochi in economia non sono mai definitivi e assolutamente prevedibili e che l’Italia, qualora non pagasse il suo debito pubblico sulla base delle ricette lobbistiche europee e mondiali, potrebbe uscirne alla grande, anche senza conoscere la pesantissima via crucis che dovettero sperimentare gli argentini? Come può il capo dello Stato repubblicano e democratico italiano affermare che «nessuna forza politica può continuare a governare, o può candidarsi a governare senza mostrarsi consapevole delle decisioni, anche impopolari, da prendere ora»? Ma dove sta scritto che una forza politica, per ben governare l’Italia, deve per forza allinearsi alle direttive europee? Che razza di democrazia è mai questa? E poi impopolare sarebbe semmai la decisione di fissare una bella patrimoniale per i tanti redditi altissimi che esistono in questo paese, la decisione di mandare direttamente in galera i grandi evasori fiscali, oppure di erogare finanziamenti a ricchi industriali ed imprenditori solo in ragione della loro capacità di favorire la produttività e la ricchezza nazionali anche in tempo di crisi, sebbene la storia sia fatta più di tempi di crisi che non di tempi di normalità (tanto che la crisi è, a ben vedere, la sua normalità), dando in pari tempo stabile occupazione e sulla base di garanzie giuridiche ben precise a migliaia e migliaia di lavoratori, ad un numero sempre crescente di giovani seri e qualificati che sembra non abbiano più un futuro in cui investire le proprie legittime speranze.

Queste sarebbero, insieme a tante altre sagge e necessarie misure governative da prendere, decisioni impopolari, ma su esse il capo dello Stato non ha ritenuto e non ritiene di spendere neppure una parola, limitandosi semplicemente a postulare un futuro di prosperità che non verrà mai perché ipocritamente o comunque erroneamente basato su valutazioni arbitrarie che possono favorire soltanto ristrette oligarchie economico-finanziarie e non già un intero popolo. Sicché le decisioni che egli auspica non sono impopolari ma antipopolari, ovvero non rispondenti realisticamente alle reali necessità della stragrande maggioranza della popolazione italiana e comunque inique e persino incostituzionali.

Che il capo dello Stato italiano si senta «corresponsabile, nel bene e nel male, dell’esperienza compiutasi in Europa negli scorsi decenni», è qualcosa di molto personale che in ogni caso non può indurlo a dichiarare, come invece ha ritenuto incautamente di fare, che l’interesse nazionale italiano coincida con l’interesse europeo e più segnatamente con le raccomandazioni pressanti e molto simili a vere e proprie ingiunzioni della Banca Centrale Europea. Questi sono discorsi eminentemente e sgradevolmente politici che un capo di Stato, costituzione italiana alla mano, non dovrebbe permettersi di fare, per il semplice fatto che egli non ha né un potere legislativo, né un potere esecutivo, né un potere di indirizzo da far valere in quanto rappresentante di una unità nazionale che è tale non se pensata astrattamente ma solo se intesa come coesistenza o sintesi di molteplici punti di vista popolari, giacché il suo potere è solo quello di accertare la legittimità costituzionale delle leggi emanate dal governo, degli stessi comportamenti personali di quanti esercitano il potere esecutivo, il potere legislativo e il potere giudiziario, e più in generale il rispetto delle norme costituzionali anche in riferimento al suo proprio ruolo istituzionale (art. 87).

Certo, egli può “inviare messaggi alle camere” ma solo perché siano rispettate tutte le procedure costituzionali nel rispetto dei contenuti e delle stesse finalità previsti dalla Costituzione, e non già per indurle ad approvare i desiderata di altri stati, di alte agenzie o istituzioni politiche e finanziarie europee e mondiali, o dello stesso presidente della repubblica italiana. Ma poiché Napolitano, con spiacevole sicumera, ritiene che «nulla può farci tornare indietro dall’euro» e che nessuno deve illudersi che possa avvenire esattamente il contrario, i cattolici italiani di mente e di cuore, quelli che nella loro carne e nel loro spirito portano impresse le beatitudini evangeliche, quelli che pochi o molti che siano intendono condividere qui ed ora con i meno fortunati e i più oppressi lo spirito cristiano di comunione e di giustizia nel segno della verità e non della menzogna, non possono esitare a dirgli con molta franchezza: noi non le crediamo e non pensiamo affatto che dai suoi ragionamenti e dai suoi accesi proclami possano discendere «risposte persuasive» per i cittadini italiani, a meno che questi non si chiamino, solo per fare dei nomi, Mario Draghi, Romano Prodi, Massimo D’Alema, Enrico Letta, Fedele Confalonieri, Lucia Annunziata, Paolo Mieli, Francesco Caltagirone, Cesare Geronzi, Franco Frattini, Gianfranco Fini, Gianni Letta, Luca Montezemolo, Sergio Marchionne, Emma Mercegaglia, Giuliano Amato o John Elkann, tutti soci dell’Aspen Institute e non solo.

Signor Presidente della Repubblica, come ha ribadito recentemente la nostra Chiesa, non è l’economia che deve orientare la cultura e la politica ma sono, al contrario, cultura e politica a dover orientare l’economia e a doverle fissare orizzonti e limiti oltre cui non possa e non debba andare. Cultura e politica: non però politica senza una cultura intrisa di sensibilità umana e sociale.

Il nostro Sturzo

1952-Luigi-Sturzo

Si sente dire spesso che la Chiesa è universalistica, aperta a tutti, sempre pronta a favorire a tutti i livelli l’unità e non la divisione tra gli uomini, la riconciliazione e non il conflitto, la pace e non la guerra, l’amore e non l’odio o la violenza. E certo non è errato pensarlo, perché la missione della Chiesa è proprio quella di portare concordia, di pacificare gli spiriti, di rafforzare le basi della civile convivenza nelle singole comunità nazionali come nella comunità mondiale. Quel che però anche molti cattolici non sempre si preoccupano di precisare, o perché non sanno o perché non vogliono, è che l’universalismo della Chiesa, il suo spirito unitario e pacificatore, la sua disponibilità e il suo spirito di servizio verso tutti, non hanno la loro radice o il loro fondamento in una spiritualità generica ed astrattamente dialogica, freddamente neutrale ed equidistante, indiscriminatamente tollerante e “buonista” o “pacifista”, ma in una spiritualità evangelica che presuppone e implica una precisa presa di posizione a favore di Cristo e della sua verità, quindi della verità tout court, una rigorosa osservanza nel pensiero e nella vita di quanto essa prescrive, il rifiuto di quanto ritiene erroneo e peccaminoso, la lotta per l’affermazione del bene in se stessi e nel mondo.

Il che significa che missione e messaggio della Chiesa sono universalistici o ecumenici perché destinati e rivolti a tutti indistintamente ma solo in quanto nascono da una scelta di campo, ovvero Cristo, i suoi insegnamenti, i suoi giudizi, che non sono affatto neutrali ed equidistanti, oltranzisticamente amorevoli e tolleranti, ma inequivocabilmente schierati dalla parte della verità contro la menzogna e il peccato, della carità contro l’ipocrisia e ogni forma di perbenismo, della giustizia contro le prevaricazioni e ogni genere di egoismo e di iniquità. Che poi tutto questo non comporti in nessun caso il ricorso a mezzi violenti e “sovversivi”, tranne che in casi di manifesta tirannide, è pur vero, ma ciò non significa che il seguace di Cristo stia genericamente con tutti e mostri indulgenza verso qualsivoglia comportamento personale o collettivo, giacché al contrario egli deve sforzarsi di testimoniare la verità sempre e comunque e non può esimersi dal prendersi cura in particolare dei deboli e degli indifesi o inermi, dei poveri e degli oppressi, degli umili e degli onesti, e dal prendere per contro le dovute e critiche distanze da potenti e ricchi impenitenti che non si diano veramente pensiero del bene comune e più in generale da tutti quei soggetti che, fossero anche cattolici dichiarati, siano soliti assumere atteggiamenti superbi o sprezzanti, superficiali o distaccati verso il prossimo e la loro comunità religiosa e civile-politica. Il seguace di Cristo ama anche i secondi ma è schierato con i primi, con chi cerca Dio sia interiormente sia con le opere, con chi ha fame e sete di giustizia non in modo meramente istintivo o pretenzioso ma per un intimo convincimento personale basato sulla fede.

Penso che sebbene, e a ragione o a torto in dissenso da padre Agostino Gemelli, non abbia voluto che il partito popolare si chiamasse partito cattolico ravvisando una certa antiteticità tra la religione o la fede cattolica che è universale e un partito cattolico che come tale avrebbe implicato divisione sociale e politica, don Luigi Sturzo non fosse lontano, al di là di talune apparenti differenze terminologiche, da siffatte posizioni.

Di fatto, nella sostanza se non nella forma, anche per lui il seguace di Cristo, e più segnatamente il cattolico, è un partigiano della verità e della giustizia, dello spirito di servizio e di condivisione, non già di un universalismo mistificante e a buon mercato: non odia chi è dedito al male ma ha il dovere di contrastarlo nell’interesse di quanti siano danneggiati dalle sue azioni malvagie o sbagliate. In questo senso la sua vera passione sono quelli che si convertono ogni giorno a Cristo, sono quelli che lottano per un mondo spiritualmente e socialmente più libero e più giusto, che tendono lealmente a liberarsi da ogni gravame mondano e da ogni intenzione perversa. Specialmente dal punto di vista politico il cattolico e il cattolico democratico ha il dovere di stare con i molti che hanno poco o niente piuttosto che con chi non ha problemi economici di sorta, con i molti che esercitano attività lavorative appena sufficienti a garantire una vita dignitosa o la pura sopravvivenza, con i molti meritevoli che non appartengono alle burocrazie di partito e di sindacato, a corporazioni professionali privilegiate o a caste dell’alta finanza nazionale ed internazionale ma a famiglie semplici ed oneste, anche se non particolarmente virtuose e duramente provate dalla vita, di cui il mondo è disseminato.

Il cattolico democratico non è uno che non se la vuole guastare con nessuno e specialmente con quelli che contano: se agisce cosí, tra ambiguità ed oscure manovre etico-politiche (che sono altro dalla prudenza e dalla circospezione da cui ogni essere umano non dovrebbe mai prescindere), non è né cattolico né democratico. Più esattamente il cattolico democratico è uno che non può mentire né a se stesso né agli altri. Se un politico cattolico soggiace al conformismo sociale, istituzionale, politico, culturale, per cui non si assume mai dei rischi di pensare e di agire diversamente da come una massa acritica di persone “qualificate” e di personalità di rilievo pensano ed agiscono, non già nel vero interesse delle masse popolari ma in quello di specifiche e ristrette oligarchie di potere, è già un soggetto che abdica al suo compito di vivere secondo verità e di operare in funzione del bene di ciascuno e di tutti. Se non è pronto ad affrontare e a superare sia la menzogna demagogica o populistica di tanta prassi politica, sia la menzogna organizzata di politiche statuali apparentemente o formalmente ineccepibili ma manifestamente funzionali a specifici interessi di parte e alle logiche o ai disegni delle élites economico-finanziarie del mondo, sia la menzogna pura e semplice su questioni etiche e giuridiche elementari, egli prima o poi, per un verso o per l’altro, finisce per tradire la sua fede religiosa e la sua fede politica e per assecondare soltanto meschine ambizioni personali.

Di tutto ciò era ben consapevole don Luigi Sturzo che avrebbe sempre avversato quella menzogna politica «sempre intenzionale» che, come scriveva in un suo articolo del giugno 1957 pubblicato nel primo numero della rivista di Cesare Cavalleri “Studi cattolici”, «ha quasi sempre lo scopo di far deviare indagini, di trarre in diversa via, di combattere avversari, di prevenire offensive, di mettere le premesse per un’azione che si creda utile e cosí di seguito; è insomma un’arma politica. La finalità buona non giustifica la menzogna; la finalità cattiva o connessa ad altri mezzi cattivi, rende ancora più grave l’uso della menzogna. Abbiamo detto che la menzogna di sua natura, al di fuori di qualsiasi intenzionalità di chi la proferisce, altera e rompe i vincoli della convivenza; pertanto è intrinsecamente un male». Di conseguenza, egli osservava, «nelle vertenze politiche e civili dei regimi nei quali la convivenza è mantenuta in forma organica, sia che si tratti di vertenze avanti la magistratura, sia che si tratti di lotte elettorali o dibattiti parlamentari, non è moralmente consentita la menzogna come mezzo di difesa e di offesa, trattandosi dell’esercizio di diritti e dell’adempimento di doveri, per i quali la regola etica è sovrana e da osservarsi dalle parti». Appena un anno prima aveva scritto sulle colonne de “Il Popolo”: «C’è chi pensa che la politica sia un’arte che si apprende senza preparazione, si esercita senza competenza, si attua con furberia. È anche opinione diffusa che alla politica non si applichi la morale comune, e si parla spesso di due morali, quella dei rapporti privati, e l’altra (che non sarebbe morale nè moralizzabile) della vita pubblica. La mia esperienza lunga e penosa mi fa invece concepire la politica come saturata di eticità, ispirata all’amore per il prossimo, resa nobile dalla finalità del bene comune» (I cattolici in politica devono servire, non servirsi, 16 dicembre 1956).

Pertanto, per don Sturzo, il politico in quanto tale ma ancor più il politico cattolico, pur avendo piena facoltà di esercitare secondo scienza e coscienza la propria libertà di pensiero, non può non astenersi totalmente e in ogni caso dall’uso della mistificazione, del raggiro, dell’inganno, della frode che hanno per l’appunto «a base la menzogna». Bisogna rendersi conto che specialmente nelle «cose serie, di interesse pubblico, di rapporti fra autorità e cittadini o delle autorità fra di loro, non può mai essere lecita la menzogna che disvia, ottenebra, svaluta la verità e che infine trae in inganno».

Ma è bene precisare che qui Sturzo, nel condannare ogni machiavellismo politico, ogni concezione puramente strumentale ed utilitaria della politica, non si riferisce tanto a chi sia tendenzioso, inesatto o omissivo, «per abito mentale, per incapacità di sintesi, per errata valutazione dei fattori, senza la intenzione di alterare la verità», per le quali cose è possibile «trovare subiettivamente delle attenuanti», quanto a chi altera consapevolmente la verità, esponendola in modo parziale o lacunoso, piegandola a finalità preconcette o precostituite e comunicandola in modo incompleto e unilaterale, in un modo non chiaro ed esaustivo ma equivoco che porta inevitabilmente alla falsità e quindi alla menzogna «sia pure diluita in un mare di parole». Don Luigi Sturzo è molto chiaro: è da vituperare e bandire dall’impegno e dal confronto politici e ancor più dall’attività governativa e legislativa ogni genere di «propaganda demagogica…fatta di mezze verità che arrivano alla menzogna e di mezze menzogne che velano la verità. In tali casi la verità non è l’oggetto e il fine della comunicazione interindividuale; si tratta di fare del proselitismo ad ogni costo, di applicare la tendenziosità per fini politici da raggiungere, ovvero, nella migliore delle ipotesi, di un fine creduto buono per la comunità della quale si ha, da solo o con altri, responsabilità direttiva o governativa, un fine che si teme di non poter raggiungere con la chiara esposizione della verità».

Non bisogna farsi illusioni, non bisogna pensare che la menzogna possa coesistere con la capacità di ben governare e che più specificamente il politico cattolico e democratico possa conservare intatta la sua moralità e la sua identità religiosa pur facendo uso talvolta della menzogna e di quanto vi è annesso e connesso, perché, come scrive don Sturzo, a «parte quel che prudenza e accortezza suggeriscono, bisogna notare che nella vita politica, il ricorso alla menzogna è sempre collegato con l’uso abituale della menzogna e, perfino, della mistificazione e della prepotenza. Il complesso negativo di una politica non basata sulla moralità porta all’uso dei mezzi immorali. Non si tratta di menzogna o menzognetta isolata, occasionale, per evitare noie e per ottenere dei vantaggi immediati; si tratta di complesso di modi illeciti e di attività non rispondenti ai fini del buongoverno e agli interessi del paese. Bisogna partire dalla convinzione che la menzogna non giova mai e danneggia sempre; a questa occorre aggiungere subito l’altra, che il fine non giustifica i mezzi; conchiudendo che la migliore politica è quella che non lede la moralità».

Certo, è anche vero che «dal punto di vista del moralista cattolico, mantenendo ferma la teoria, si potranno, nei casi concreti, trovare subiettivamente quelle attenuanti alla colpa della menzogna politica, come ad ogni colpa commessa della quale si chiede perdono a Dio con la promessa di non ricadervi», ma, questa è la sua conclusione, «le attenuanti subiettive non toccano il fermo principio della illiceità della menzogna, e con maggior ragione della menzogna politica». Ora, sia tra i politici realmente cattolici o sedicenti cattolici già in campo sia tra i politici cattolici auspicabilmente più “liberi e forti” che forse si appresteranno a scendere nell’arena politica, chi vuole intendere intenda. Ma si potrà intendere a patto che si capisca come questo Sturzo qui evocato non sia lo Sturzo morbido e rassicurante di tanti politici “cristiano-cattolici” di ieri e di oggi, che facevano e fanno sia pure in modi non sempre grezzi o ineleganti professione di “moderatismo”, ma il “nostro Sturzo”, lo Sturzo che si può sommariamente descrivere con alcune espressioni del giudizio espresso da Gramsci sul suo Marx: don Luigi Sturzo «è per noi maestro di vita spirituale e morale», anche se «pastore armato di vincastro» (A. Gramsci, Il nostro Marx, in “Il grido del popolo”, 4 maggio 1918, secondo cui ovviamente il rivoluzionario di Treviri non era “pastore armato di vincastro”).

Egli, critico dello statalismo accentratore e omnipervasivo e fautore di un libero mercato non disancorato da princípi etici e da una idea ben precisa di giustizia sociale, è «lo stimolatore delle pigrizie mentali, è il risvegliatore delle energie buone che dormicchiano e devono destarsi per la buona battaglia. E’ un esempio di lavoro intenso e tenace per raggiungere la chiara onestà delle idee, la solida cultura necessaria per non parlare a vuoto, di astrattezze. È blocco monolitico di umanità sapiente e pensante, che non si guarda la lingua per parlare, non si mette la mano sul cuore per sentire, ma costruisce sillogismi ferrati che avvolgono la realtà nella sua essenza, e la dominano, che penetrano nei cervelli, fanno crollare le sedimentazioni di pregiudizio e di idea fissa, irrobustiscono il carattere morale…È un vasto e sereno cervello pensante, è un momento individuale della ricerca affannosa secolare che l’umanità compie per acquistare coscienza del suo essere e del suo divenire, per cogliere il ritmo misterioso della storia e far dileguare il mistero, per essere piú forte nel pensare e operare» (ivi).

Quello di cui oggi si sente la mancanza è un partito di ispirazione cattolica o dichiaratamente cattolico guidato da un uomo come Luigi Sturzo, mai abbastanza compreso e approfondito dai suoi eredi democristiani di ieri e soprattutto di oggi, il quale ammoniva profeticamente già nel ’56 che «se la politica e l’economia calpestano l’etica, non hanno alcun diritto di chiamarsi “ragione politica” e “ragione economica”», in quanto politica ed economia sono in tal caso prive di razionalità e anzi insanabilmente irrazionali, e concludeva dicendo che, se nella missione del cattolico, sia essa politica o economica o scientifica e via dicendo, non si riflette il senso del divino, «tutto si deturpa: la politica diviene mezzo di arricchimento, l’economia arriva al furto e alla truffa, la scienza si applica ai forni di Dachau, la filosofia al materialismo e al marxismo, l’arte decade nel meretricio». Quali cattolici oggi, al di là dei riferimenti storici sturziani parzialmente datati, saranno in grado di intendere il significato e il valore di tali parole e di rinfrescare e rigenerare l’aria mefitica della vita politica italiana?

Idee per un nuovo partito cattolico

Forse sarebbe opportuno che nascesse un nuovo partito cattolico italiano in un momento storico in cui il disordine e la corruzione, la menzogna e le passioni più immonde regnano sovrane. Noi siamo in piena Babele e, com’è noto, Babilonia, manifestamente avversata nell’Apocalisse giovannea come luogo di satanica perversione, non può essere né sostenuta né tollerata da coloro che si professano cattolici. Non so se nascerà, ma se nascerà, se dovesse nascere, come pare auspicabile, il nuovo partito cattolico, visto che i cattolici hanno idee diverse e talvolta non compatibili con la fede pur professata, dovrebbe nascere principalmente intorno a persone spiritualmente libere che non patiscano alcuna sudditanza nei confronti dei “poteri forti” e non abbiano militato per niente o troppo a lungo nelle segreterie e nelle burocrazie di partito, che siano animate da una fede profonda in Cristo e nei suoi insegnamenti e siano mosse dalla volontà di perseguire politicamente obiettivi e finalità coerenti con i valori evangelici di giustizia, carità, libertà e pace sociale, non svuotati del loro effettivo e santo significato.

Dovrebbe essere insomma un partito di “liberi e forti”, per riprendere l’espressione sturziana, privo sia di massimalismi o estremismi fideistici da trasferire in ambito politico sia di facili e vili forme di indulgenza verso logiche idolatriche e oppressive di questo tempo e basate sull’ipocrita presupposto che gli uomini e le società debbano rivedere profondamente modelli di vita, forme di lavoro, diritti storicamente acquisiti e persino le loro carte costituzionali, al fine di pagare un “debito pubblico” accumulato nel tempo e di porre conseguentemente in essere tutta una serie di riforme strutturali volte a tagliare la spesa pubblica e a risanare i bilanci statali. In realtà questo è il presupposto da cui muovono la mentalità mercantilistica contemporanea, sempre più enigmatica e incomprensibile, e le inquietanti richieste dei mercati finanziari ormai sul punto di minacciare la stabilità e l’affidabilità dei governi e l’autonomia democratica dei loro popoli.

Il contrasto intelligente ed efficace di tale mentalità e di tali logiche, senza dubbio orientate verso un accumulo indefinito di ricchezza a beneficio delle grandi plutocrazie e dei grandi cartelli commerciali e finanziari mondiali più che verso un adeguato soddisfacimento di diffusi e crescenti bisogni popolari e nazionali, è appunto il primo compito che il politico cattolico italiano dei primi decenni del terzo millennio sarà chiamato ad assolvere per il bene del suo Paese e dell’intera umanità. Perché sarebbe da persone decerebrate ormai non capire che la radice della crisi in atto, suscettibile di ripetersi periodicamente in forme vieppiù catastrofiche, non è economica e finanziaria ma politica, essendo evidente che economia e finanza si ammalano ed impazziscono sia in quanto la politica e le politiche governative nazionali possano essere effettivamente troppo “allegre” o troppo poco “mirate” e comunque inadeguate in rapporto alla spesa necessaria per sostenere i pubblici servizi ivi compresi quelli amministrativi, sia anche e soprattutto in quanto esse non siano capaci né di tenere a freno giochi azzardati di borsa e speculazioni finanziarie obiettivamente rischiose e sganciate da ogni regola e da ogni norma di legalità né di controllare e (ri)orientare i processi economici e finanziari in genere sulla base di oggettive e specifiche necessità o esigenze delle popolazioni civili, sia infine in quanto esse non siano in grado di elevare il proprio potere contrattuale nel loro rapporto con gli istituti nazionali ed internazionali di credito.

E’ del tutto evidente che, se una Unione Europea nata per meglio servire i popoli del nostro continente finisce invece per angustiarli continuamente con ingiunzioni vessatorie che da una parte mortificano l’autorità e la libertà decisionale dei loro governi e dall’altra ne penalizzano pesantemente i ceti e le categorie sociali meno abbienti e già duramente provati da congiunture persistentemente negative, non è più ragionevole continuare a farne parte e a sottoporsi a regole comunitarie non di rado ambigue e discutibili (che generalmente tornano comodo soprattutto all’alto commercio, all’alta industria e all’alta finanza e non certo alla generalità dei cittadini) con grave danno degli Stati e delle economie nazionali. Tanto più se si pensa che, malgrado le smentite del governo francese, non è affatto infondato il sospetto dell’esistenza non dichiarata di un Direttorio franco-tedesco con cui si vorrebbero affrontare e risolvere i problemi della comunità europea.

E’ tempo che gli ipotetici politici cattolici di domani tutto questo lo sappiano e sappiano anche chiedere con forza una riscrizione delle regole e delle modalità internazionali di pagamento e di progressiva estinzione dei “debiti pubblici” (sempre dopo aver verificato come sono strutturati internamente tali debiti e averne accertato il grado di legittimità) con la chiara e dichiarata consapevolezza che le grandi banche e i ricchissimi banchieri del pianeta, ovvero gli esattori di tali debiti, saranno sempre ben disposti a prestare denaro agli Stati per esigerne poi rapacemente interessi sempre più alti attraverso quelle “riforme strutturali” (delle pensioni, del lavoro, della pubblica amministrazione, del rapporto tra Stato centrale e poteri periferici o enti locali) che sono permanentemente all’ordine del giorno di molti Stati ivi compreso quello italiano e che sono invocate e presentate senza pudore come necessarie alla “crescita” e al “rilancio economico” non solo dai “poteri forti” internazionali e nazionali ma anche da quelle forze “democratiche” di opposizione come il nostro PD che, pur parlando di equità, di solidarietà, di necessaria e graduale ridistribuzione delle risorse, di efficienza, di nuovo rapporto intergenerazionale, di tutela degli interessi delle giovani generazioni, di coesione sociale e di unità nazionale, aderisce sostanzialmente alle proposte liberiste di nuova governance delle potenti lobbies finanziarie del mondo sottoscrivendo in gran parte programmi obiettivamente mistificanti di rapina o di spoliazione sociali e volti a cancellare diritti civili sacrosanti e acquisiti anche con il sangue dalle precedenti generazioni.

Il nuovo partito cattolico dovrà avere la lucidità di argomentare che la “crescita” non può essere essere indefinita, che è perfettamente naturale che vi siano periodi di crescita e periodi di stasi o di recessione ma che invece è completamente innaturale ed arbitrario pretendere ogni volta di far pagare ai soggetti popolari e sociali più deboli e sofferenti il prezzo di una crisi provocata principalmente dagli Stati occidentali più importanti, dagli istituti bancari più potenti, dalle organizzazioni industriali e commerciali più influenti, che prima spingono il mondo verso il baratro con politiche economiche e politiche tout court dissennate, con manovre finanziarie spericolate e prive di scrupoli e investimenti spregiudicati da cui scaturiscono benefici sociali molto bassi o nulli, con scelte operative mai abbastanza pubblicizzate e concordate con coloro che ne sono destinatari, e poi chiedono con arroganza che a farsi carico di “salvataggi” sempre più problematici siano le loro stesse vittime, ovvero i cittadini ignari e inermi e forse colpevoli solo di non essersi impegnati abbastanza per evitare “crolli” e “tracolli”.

Ma un nuovo partito cattolico dovrà avere anche il coraggio di dire che il debito, posto che lo si voglia o debba necessariamente saldare (perché, è bene ripetere, non si può dare per scontato che sia stato calcolato in modo corretto), non potrà essere saldato con le ricette economico-finanziarie che vengono propinate da personaggi quali Mario Draghi o Emma Marcegaglia (furba tra i furbi che ella ipocritamente condanna), che sanno bene come gli ipotetici e spaventosi sacrifici di oggi non garantirebbero affatto lo sviluppo e la prosperità di domani (negli ultimi quarant’anni non ricordo un solo taglio di spesa dei tanti che si sono susseguiti in Italia che abbia prodotto risultati positivi per la situazione economica del Paese), ma con politiche fiscali serie e rigorose, ovvero particolarmente indulgenti verso redditi e patrimoni modesti e particolarmente severe verso ogni forma di “evasione” e di “lusso”, e poi con politiche del lavoro e di sviluppo che prevedano agevolazioni fiscali e investimenti solo a favore di imprese e aziende capaci di dare occupazione ai giovani e ai disoccupati provvisti di reali abilità o competenze e “meritevoli”, sulla base di precise garanzie salariali e giuridiche, e la concessione di incentivi di produzione non a cascata ma ai lavoratori, pubblici e privati, che se ne dimostrino degni oltre ogni astratto, ingiusto e demagogico egalitarismo.

I cattolici di domani dovranno prestare molta attenzione ai bilanci dello Stato e sforzarsi di eliminare spese superflue o eccessive tanto nel pubblico che nel privato, badando tuttavia a preservare e anzi a rafforzare le “protezioni sociali” in tutti i principali settori della vita nazionale anche contro i ricorrenti e inevitabili tentativi delle forze sociali ed economiche più altolocate e privilegiate della nazione di ottenere restrizioni governative sempre più drastiche seppur arbitrarie nel “sociale” e nel “mondo del lavoro” al fine di favorire una maggiore confluenza di denaro nelle casse di imprenditori già ricchi e nei più alti circuiti finanziari.

In sostanza, il partito cattolico che auspico dovrebbe restare ben distante dalla filosofia sociale che ispira le classi ricche e colte di tutto il mondo e che si può riassumere nella tesi per cui se i ricchi potessero pagare meno tasse con cui gli Stati provvedono a finanziare i servizi pubblici sarebbero certo più attivi sia negli investimenti che nella produzione, mentre se i poveri o i più disagiati ricevessero meno assistenza e meno sussidi statali sarebbero più operosi e più utili all’intera comunità. Magari fosse vero, ma tra i poveri o i disagiati non tutti sono stati o sono fannulloni, parassiti o improduttivi, per cui quella tesi esprime una vera e propria mistificazione, mentre è certamente vero che, come ha scritto Serge Halimi nella “prefazione” al libricino di John K. Galbraith, L’art d’ignorer les pauvres, Les Liens qui libèrent, 2011, «dal 2009 in poi, grazie a copiose iniezioni di denaro pubblico, le banche hanno ritrovato la buona cera. Dalla crisi finanziaria vengono fuori perfino più potenti di prima, più capaci ancora di prendere gli Stati “in ostaggio” durante le future tempeste. E invocano il peso dell’indebitamento, messo astutamente fra parentesi finché era necessario sborsare importi al di là di ogni logica per salvare Goldman Sachs, la Deutsche Bank o BNP Paribas, come pretesto…per lo smantellamento della protezione sociale e dei servizi pubblici».

Sono del parere che i cattolici, intendo dire i cattolici più fedeli al vangelo, che vorranno scendere nell’agone politico, e possono farlo senza chiedere il permesso o la preventiva autorizzazione ad alcuno (e in particolare ai tanti vip o ai tanti divi sedicenti cattolici della politica italiana), debbano concorrere alla costruzione di uno spazio politico pubblico nel quale si riconoscano e si ritrovino tutti i cittadini credenti o non credenti che non vogliano farsi carico di una crisi provocata non da essi ma dai ricchi e dal grande capitale finanziario e vogliano farsi in pari tempo fedeli custodi di tutti i princípi e i valori repubblicani e democratici.

Paghino i ricchi e gli evasori fiscali e si pensi a nazionalizzare e a come nazionalizzare le banche; si dichiari guerra ad oltranza a qualsiasi forma di corruzione e ai privilegi di qualunque casta; si bandisca la precarietà dei competenti e dei meritevoli dal mondo del lavoro e si fissi per quest’ultimo un calendario di obblighi ma anche di diritti chiari e inderogabili; si incentivi il diritto allo studio nella scuola pubblica attraverso la concessione di borse di studio ai più “bravi” e di facilitazioni fiscali alle loro famiglie se bisognose o in possesso di un reddito basso; e poi ci si impegni nella consueta lotta per “i valori non negoziabili e i diritti indisponibili” su cui resta maestra la Chiesa, pur nel rispetto delle regole democratiche, e per la libertà di espressione e le pari opportunità per uomini e donne; e si sostenga infine la richiesta popolare di ridiscutere il “vincolo europeo” in rapporto alle reali e specifiche necessità economiche e sociali del nostro Paese come di ogni altro Paese europeo.

Ecco, questo potrebbe essere un buon manifesto programmatico per un nuovo partito politico cattolico italiano che, come facilmente può comprendersi, verrebbe a configurarsi in termini molto diversi dall’attuale Partito democratico la cui eterogeneità culturale e spirituale ne favorisce più la divisione che l’unità e in cui tuttavia molti degli stessi cattolici che vi militano sembrano condividere senza sostanziali remore il riformismo neoliberista delle grandi scuole economiche anglosassoni che, quanto a metodi e a finalità, francamente non sembra diversificarsi molto, se non forse nei toni, dagli indirizzi economici conservatori delle destre. Un odierno PD al governo, scandali a parte, sarebbe forse più “dignitoso” del governo ancora in carica, almeno per i primi tempi, ma è facile prevedere che alla lunga non sarebbe capace di proporre ed imporre nient’altro che una ennesima politica recessiva di austerità pur verniciata di modernizzazione, privatizzazione e liberalizzazione, peraltro destinate ad essere quasi sicuramente ininfluenti sul tenore di vita individuale e collettivo della società e anzi a peggiorarlo ulteriormente.

Di qui la necessità di un nuovo partito cattolico, costituito principalmente da giovani decisi a far valere coerentemente la propria fede anche sul piano politico e poi da chiunque intenda offrire i propri “talenti” per il bene dell’Italia e dell’intera umanità attraverso un coraggioso rovesciamento di strategia politica e prospettiva storica: non più assecondare e rassicurare i mercati finanziari nazionali e internazionali (che hanno interessi ben precisi e cospicui quanto ingiustificati da far valere) per mezzo di misure politiche volte solo in apparenza a rilanciare la ripresa e lo sviluppo della vita economica delle nazioni e in realtà dirette a fare “macelleria sociale”, ma opporre una fiera resistenza politica e democratica a pretenziose e falsamente riformistiche scelte economiche, che non sono né dei popoli né degli stessi governi democraticamente eletti ma unicamente del grande padronato, della Banca Europea e del Fondo Monetario Internazionale, al fine di porre le premesse di una vera ripresa della vita economica e sociale su basi eticamente non dubbie o equivoche bensí ineccepibili e universalmente condivisibili.

I cattolici devono riportare in auge, almeno in questo periodo storico cosí convulso e drammatico, il primato della politica nei confronti di un mondo economico che sembra obbedire a forze sempre più irrazionali e fraudolente e si lascia tentare sempre più frequentemente dal desiderio di dettare l’agenda alla politica al solo scopo di rastrellare quanto più denaro sociale possibile a tutto beneficio di gruppi di potere cui non interessa assolutamente nulla né del bene sociale né della sorte materiale e spirituale di milioni e milioni di persone. Essi dovranno fare in modo che non accada più, in pratica nell’indifferenza generale di governo e opposizione, che due privati cittadini e due ricchissimi banchieri come Trichet e Draghi si permettano di chiedere la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e di porre vincoli di qualsivoglia natura con cui si intenda commissariare la politica e le diverse politiche nazionali.

In questa difficile battaglia, infine, essi non dovranno rimanere isolati e non dovranno aver paura di lottare, seppur nel nome di Cristo, insieme ad altri soggetti politici che, di diversa formazione culturale e probabilmente privi di fede religiosa, appaiono ben consapevoli almeno su un punto essenziale: «In tutta Europa si sta scatenando un attacco senza precedenti contro la più importante conquista sociale e civile del continente: lo stato sociale. In tutta Europa la banca europea, la tecnocrazia, i governi obbedienti alla globalizzazione e alla speculazione finanziaria, si accordano per cancellare conquiste, diritti sociali, libertà. In tutta Europa c’è la stessa identica politica, variano solo le sue gradazioni. In tutta Europa, nel nome del capitalismo finanziario, si cancella la democrazia. La costruzione dell’Euro, il patto di stabilità, Maastricht hanno affermato un mostro estraneo alla democrazia e alle costituzioni. Questo mostro sta distruggendo l’Europa sociale, civile e democratica».

Una scuola per pensare

img10Anche se, per ipotesi, l’attuale governo italiano fosse realmente interessato all’esistenza di una scuola libera e attiva, realistica e progressiva, seria e funzionale ad una società libera e giusta e basata sulla competenza, e mettesse a sua disposizione una parte cospicua delle sue risorse finanziarie, ciò non sarebbe ancora sufficiente a garantirne la qualità etico-culturale e la specifica funzionalità sociale. Si intende dire che, contrariamente a quanto troppo spesso si scrive e si legge, la bontà di una politica scolastica non può misurarsi semplicemente sulla base delle sue capacità di finanziamento ma sulla base di responsabilità che non sono di natura esclusivamente politica. Infatti, non c’è solo una responsabilità della politica verso la scuola ma anche una responsabilità morale e civile della scuola verso la politica in quanto dimensione essenziale del vivere associato.

Nessuna politica, per quanto avanzata ed efficace, può garantire aprioristicamente che la scuola sia in grado di sviluppare o valorizzare al meglio il senso di criticità e socialità dei giovani ad essa affidati; nessuna politica, per quanto lungimirante e progressista, potrà mai garantire che la scuola sappia perseguire con rigore e coerenza finalità civili e democratiche elevate. Se le risorse umane, morali, professionali della scuola sono complessivamente scarse soprattutto sul versante di dirigenti e docenti, non c’è né finanziamento né riforma didattico-pedagogica che possa renderla capace di rispondere alle attese della società e alle istanze educative e formative che sarebbe tenuta a soddisfare e ad eseguire. Che la scuola sia responsabile verso la politica significa in ultima analisi che essa è responsabile del modo in cui autonomamente viene organizzando e trasmettendo il sapere in relazione ad istanze profonde e oggettive e ad aspettative legittime del Paese, della Nazione. Quindi bisogna opporsi al pregiudizio qualunquista, che ha sempre pesato abbastanza sulla scuola italiana in tutte le fasi della sua storia, secondo cui occorrerebbe tenere la scuola stessa lontana o separata dalla politica e quindi dalle problematiche economiche, istituzionali e politiche del Paese e del mondo intero.

Una scuola avulsa dalla vita civile e politica finisce inevitabilmente per essere avulsa dalla vita tout court. Né ovviamente questo significa voler politicizzare l’istruzione e la formazione scolastiche o proporne un uso strumentale a fini politici particolari più o meno inconfessabili. L’istruzione ha certo le sue regole e i suoi tempi e, solo snaturando se stessa, potrebbe sottostare a logiche politiche di qualsivoglia natura. Il che però non comporta che l’istruzione possa disinteressarsi alle dimensioni più rilevanti e alle questioni più vitali della vita associata o rimanere indifferente all’idea che libertà e democrazia richiedono il perseguimento di uno spirito etico-civile-culturale non già frammentario e particolaristico, corporativo e separatistico, ma quanto più unitario e nazionale, nel segno della giustizia.

Da questo punto di vista non si può non constatare come la maggior parte del personale docente e degli stessi dirigenti scolastici italiani degli ultimi due o tre decenni sia risultato impreparato a tali compiti, fermo restando che non di rado ne sono emersi limiti vistosi anche sul piano delle proprie competenze disciplinari. Sarà anche per mancanza di motivazioni economiche e professionali ma oggi tale situazione sembra destinata a peggiorare: l’insegnamento, lungi dall’essere sentito e praticato come una vocazione da esercitare con il massimo impegno possibile, è sempre più una semplice opportunità di sopravvivenza economica, e per converso è sempre più qualcosa di meccanico, una ossessiva coazione a ripetere moduli o schemi concettuali di natura mnemonica, formule e definizioni scolastiche, nozioni e conoscenze libresche, senza convinzione, senza spirito di approfondimento, senza entusiasmo. Ora, se questo è lo stato degli educatori, dei formatori, è facilmente comprensibile come il finanziamento della scuola non possa essere al momento considerato come la sua principale priorità.

Peraltro, stando cosí le cose, bisognerebbe sforzarsi anche di ridimensionare drasticamente la cosiddetta collegialità scolastica che è un peso inaccettabile per i docenti più bravi e preparati. Infatti, come si fa a pretendere che un docente realmente capace e qualificato si metta a discutere nei “consigli di classe” del destino dei suoi allievi con altri quattro o cinque “colleghi” ignoranti e presuntuosi? Come si può pretendere che un siffatto docente possa contribuire utilmente al corretto andamento della vita scolastica del suo istituto all’interno di un’Assemblea dei docenti in cui ad essere votate a larga maggioranza siano spesso proposte insulse o insignificanti? Come ci si può aspettare che i cosiddetti esami di stato diano responsi attendibili se, almeno due volte su tre, sempre quello stesso docente non può fare a meno di litigare per motivi di correttezza professionale e di onestà morale con gli altri commissari che, avendo candidati da proteggere oltre ogni decenza, lo mettono in minoranza e decidono il voto unico globale da assegnare a ciascun candidato? Qui forse qualcosa si può e si deve fare: eliminare questi speciosi e dannosi “Consigli”, responsabilizzare molto di più i singoli docenti, ripristinare gli esami di stato antecedenti gli anni ’70 quando ogni docente era libero e responsabile di dare il voto che voleva nelle sue materie e risultavano ben più visibili specifiche attitudini e limiti dei candidati.

Ciò detto, appare più agevole ora recepire alcune analisi fatte di recente e in particolare quella di Marco Lodoli su “La Repubblica” del 31 agosto 2011 (“Ricominciamo a far pensare”), che, al di là delle particolari contingenze economico-finanziarie, ha posto una domanda di fondo: posto che «gli insegnanti non riescono a insegnare, i ragazzi faticano a imparare, le famiglie delegano, ondeggiano, latitano e tutto l’acquario sembra ormai piuttosto torbido…, vogliamo provare, invece di piagnucolare al vento, a dire come andrebbe corretta la scuola italiana, quali sono i deficit e quali i possibili rimedi? In che modo lo spirito del tempo ha inquinato l’idea della conoscenza, e come si potrebbe rilanciare il sogno di un mondo che studia, apprende, diventa comunità già nelle aule e nelle palestre e nei cortili della scuola?». Secondo Lodoli “il punto dolente”, che egli pensa di aver individuato, è nel fatto che la scuola italiana postsessantottesca, non è dato sapere esattamente per colpa di chi, avrebbe puntato troppo sugli aspetti psicologico-emozionali e sentimentali dei discenti, e quindi sulla loro “spontaneità” e “creatività” nello studio e nell’apprendimento a tutto svantaggio della “logica” e della “razionalità”, della capacità di “analisi” e di “sintesi” e quindi di forme non evanescenti ma rigorose di “intelligenza”.

Molto significativamente egli scrive: «La cultura è il tentativo di dare una forma e un ordine al caos. Per questo studiamo le tabelline e la sintassi, Aristotele e il sonetto, Dante e Kant e la storia e la chimica e la biologia. Chiunque ama l’arte sa che il disordine del dolore può essere la materia bruta dell’opera: ma perché ci sia un valore e un senso l’artista deve tirare fili invisibili, cucire, legare e slegare, mettere in prospettiva, unire ciò che pare crudelmente diviso. E la scuola questo deve riprendere a fare, contro la cultura del desiderio che vive di smanie istantanee, puntiformi e distruttive, contro chi agita nei ragazzi solo l’emotività, come se la vita fosse solo sballo, divertimento, notti da inghiottire e giorni da dormire e un correre dove ti porta il cuore». Non c’è scuola possibile senza ratio e senza logos e, in un’epoca in cui «tutto si è ridotto a slogan suggestivo e vuoto, la vera rivoluzione» non è più, come forse in una certa misura poteva essere un tempo quando erano ancora in vigore metodi fortemente autoritari di conduzione scolastica, il «dar corso ai desideri» ma è «riappropriarsi della sostanza». E allora, «come ridare forza al pensiero, oggi calpestato dall’orda trionfante e barbara delle sensazioni spicciole, dall’impressionismo e dalla destrutturazione?».

La risposta, senza giri di parole, è: «più letture, più matematica, dunque, ma anche più filosofia e più traduzioni dalle lingue straniere». Convengo sul fatto che questa «sia la cosa più importante da fare» ma siamo sicuri che oggi ad operare nella scuola italiana di ogni ordine e grado siano generalmente insegnanti idonei a pilotare un “nuovo corso” cosí impegnativo, insegnanti motivati e capaci per esempio di tenere lezioni ex cathedra (perché, fesserie demagogiche a parte, non ci sono altri modi possibili di tenere le lezioni) coinvolgendo intellettivamente gli studenti senza troppo annoiarli e anzi inducendoli a pensare, a riflettere criticamente, anche a prescindere dai risultati scolastici che poi ognuno di loro sarà capace di conseguire? Siamo sicuri che l’attuale generazione di insegnanti non sia addirittura peggiore di quella già abbastanza mediocre che l’ha preceduta per via di processi formativi universitari sempre più scadenti e di concorsi abilitanti sempre più farseschi e inattendibili?

Non intendo dire che sono pessimista al riguardo ma, avendo insegnato nei licei per trentatre anni e avendo continuato ad avere esperienza e notizia delle pratiche accademiche, non mi è proprio possibile astenermi dall’esprimere dubbi e perplessità. Tuttavia concordo con Lodoli quando scrive che «gli insegnanti devono essere intellettuali del nostro tempo, non tristi pappagalli spennacchiati che ripetono la stessa lezione da trent’anni», sebbene una stessa lezione ripetuta per trent’anni possa valere molto di più di certe lezioni “creative” che, pur privilegiando “contemporaneità” ed “attualità”, risultino piuttosto scadenti o velleitarie. E concordo con lui anche su un’altra cosa: che, quando ciò che si trasmette è obiettivamente interessante e significativo e il modo in cui si trasmette è realmente chiaro ed efficace, ogni possibile difficoltà di rapporto generazionale tra studenti e docenti, tra giovani e anziani, viene immediatamente neutralizzata, pur se eventualmente attraverso discussioni e confronti molto accesi, e a quel punto l’unica divisione che resta, e forse neppure in modo ineluttabile, è quella «tra i vivi e i morti».

La scuola serve solo a ragionare e a pensare criticamente, e chi, tra i giovani e i vecchi, ritiene invece che la scuola debba servire ad assecondare o alimentare la spensieratezza o la giocosità dei giovani e certe aspettative pretenziose e puerili dei loro genitori, oppure debba essere utile all’esercizio di futuri mestieri o professioni, non ha ancora compreso che cosa richieda veramente la vita a giovani e vecchi.

L’Europa degli inganni e gli economisti

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Non sono necessari studi di alta economia per rendersi conto che l’Unione Europea si è rivelata una realtà politico-economica fallimentare; anzi, almeno di questi tempi, è meglio tenere a distanza gli economisti che generalmente, conoscendo bene gli ambigui e perversi meccanismi del modo di produzione capitalistico (o, come a volte si preferisce dire, “postcapitalistico”), suggeriscono agli Stati nazionali che ne dipendono di tenere a posto i loro bilanci attraverso talune periodiche riforme “strutturali” che altro non sono se non strumenti economico-finanziari di “rapina” e di espropriazione arbitraria ai danni della stragrande maggioranza delle loro popolazioni e soprattutto di tutta una serie di soggetti sociali, come i giovani disoccupati o precari, i pensionati, i malati cronici, le famiglie a basso reddito, gli invalidi o i disabili, e di settori sociali come sanità, scuola, formazione professionale e ricerca, piccola e media imprenditoria, volontariato e pratiche assistenziali.

Purtroppo, oggi, non ci sono o sono del tutto minoritari ed emarginati sul piano accademico, editoriale e mediatico economisti in grado di capire che il problema centrale delle società e delle economie del cosiddetto mondo sviluppato è molto probabilmente, mutatis mutandis, lo stesso che aveva messo a fuoco Karl Marx più di centocinquant’anni or sono, ovvero la critica dell’economia politica e quindi dei principali meccanismi di funzionamento del sistema capitalistico con tutti i suoi annessi e connessi addentellati giuridico-amministrativi. Naturalmente, non pochi sono anche gli economisti “opportunisti”, cioè coloro che, pur sbagliando diagnosi e previsioni, tentano poi di rimanere sul pubblico proscenio attraverso analisi supplementari tanto “acrobatiche” quanto risibili.

Oggi appare chiaro quel che, già più di un decennio fa, si poteva a giusta ragione sospettare, vale a dire che l’Europa di Maastricht, il cui famigerato “trattato” è il presupposto della UE, avrebbe inteso «centrare la propria vita, il proprio futuro, sulle regole del “mercato”, assurto a infallibile divinità. O meglio sulla libertà di un mercato che, unico personaggio nel teatro di Maastricht, non soltanto non ha bisogno di regole, ma addirittura garantisce il suo più giusto funzionamento esclusivamente se gode di un’assoluta libertà» (I. Magli, La dittatura europea, Milano, Rizzoli, 2010, p. 9). Ma la libertà di questa Europa, com’era fin troppo facile prevedere, ha finito per erigersi ben al di sopra della libertà e delle possibilità stesse degli uomini europei e anzi contro la loro libertà e per trasformarsi da teorica opportunità di emancipazione in una vera e propria prigione.

Ci si chiede oggi da più parti cos’altro potesse diventare un’Europa voluta molto più per interessi economici e finanziari che per interessi politici e sulla base di un’idea politica europea incentrata sul principio della solidarietà tra tutti gli Stati. In realtà, il perno della Unione europea è sempre stato la moneta unica, l’euro, che, appena introdotto, ebbe subito il devastante effetto di dimezzare il potere di acquisto di molti popoli europei. Di lí iniziò un graduale processo di impoverimento complessivo che, almeno per quanto riguarda l’Italia, è sotto i nostri occhi, e che sarebbe venuto conoscendo successive e improvvise accelerazioni sotto una legislazione europea fatta di regole astruse e irrealistiche, di lacci e lacciuoli giuridico-finanziari, di clausole commerciali strane e insensate (vedi, ad esempio, le quote latte), di molto teorici e ben poco realistici patti di stabilità e di sviluppo.

Quando il 2 maggio del 1998 nacquero l’Unione Monetaria Europea e la Banca Centrale Europea (“BCE”), questo evento fu da molti nostri connazionali economisti salutato come l’inizio di un’era di prosperità per tutti i popoli europei che avessero aderito alla nuova Europa e, poiché molti di loro sono ancora direttamente o indirettamente in campo, cioè nel campo politico ed istituzionale, sarà bene ricordarne i nomi e i cognomi non solo per evitare che la memoria storica di talune rilevanti disgrazie italiane vada perduta ma anche e soprattutto per consentire a chi può di opporsi eventualmente alla reiterazione degli errori e delle colpe del recente passato. Con Ida Magli giova ripetere che con la creazione dell’UME e della BCE, vero sistema di governo e di potere su tutti i cittadini europei solo surrettiziamente accettato da essi per via democratica, due economisti come Prodi e Ciampi, le cui analisi in vero non sono mai parse ai più particolarmente brillanti e convincenti, potettero «svendere i beni e il denaro italiano alla nuova Europa mondialista di Mastricht» (op. cit., p. 149). Ma accanto ai loro nomi bisogna poi mettere quelli dei vari Monti, Visco, Emma Bonino, che sono membri del lussuoso ed esclusivo Club o Group Bilderberg  e della Trilateral Commission fondata da David Rockefeller nel giugno del 1973 (ivi, p. 150), dove non si può mancare di precisare che l’una e l’altra organizzazione sono eminenti espressioni dell’ideologia mondialista e tecnocratica e che il loro obiettivo è precipuamente quello di esercitare “una pressione politica concertata sui governi delle nazioni industrializzate”, indipendentemente dalle reali e specifiche istanze sociali ed economiche in esse presenti, al fine di perseguire interessi economico-finanziari “globali” non meglio precisati che restano avvolti in un “mistero” di sapore fraudolento.

Ma l’elenco continua con i nomi di Giuliano Amato, quello dalla chiacchiera ostinata e inestinguibile (che oggi se la prende con gli “altri” che non hanno capito), Giorgio La Malfa (un altro “europeista” in fase revisionistica), Giorgio Napolitano, giurista con interessi prettamente economici ed ex “migliorista” dal perenne piglio “istituzionale”, Giulio Tremonti, “incompreso” progressista della destra italiana, Enrico Letta, portatore di un grigio pensiero conservatore e vero cavallo di Troia incuneatosi nei gangli più vitali del Partito Democratico, Mario Draghi, che prima di essere governatore della Banca d’Italia era stato manager di una Banca ebraico-americana (la Goldman&Sachs): tutti costoro sono membri dell’Aspen Institute (che è sotto la duplice guida della Chatham House Foundation, un’associazione costituita da esponenti del governo britannico, da rappresentanti del mondo degli affari, delle organizzazioni non governative, delle università e dei media, e della laburista e molto pragmatica Fabian Society) (ivi, p. 152 e p. 179), il cui metodo, si legge sul sito di questa associazione privata ed internazionale che nacque negli USA nel 1950 e ha sedi in tutto il mondo ivi compresa l’Italia, «privilegia il confronto ed il dibattito “a porte chiuse”, favorisce le relazioni interpersonali e consente un effettivo aggiornamento dei temi in discussione. Attorno al tavolo Aspen discutono leader del mondo industriale, economico, finanziario, politico, sociale e culturale in condizioni di assoluta riservatezza e di libertà espressiva». Avete capito? A “porte chiuse”: alla faccia della democrazia e dell’etica pubblica.

Ecco: questi personaggi della scena economica e politica italiana hanno la responsabilità di aver concorso con altri esponenti dell’economia europea e mondiale a destabilizzare Stati e governi nazionali europei nel nome di un’idea mitica e anzi mistica di unione europea che non poteva decollare se non catastroficamente perché pensata per nome e per conto delle grandi plutocrazie mondiali non di rado sostenute da potenti lobbies ebraiche e da ben organizzate associazioni massoniche. Essi, sia pure nel nome della democrazia, hanno agito per fini antipopolari e antidemocratici teorizzando un mirabolante Stato europeo sovranazionale che in realtà non poteva essere creato in assenza di un vero spirito di solidarietà tra i diversi Stati nazionali e di una politica emancipativa che, portando i popoli a migliorare le proprie condizioni generali di vita, non richiedesse continui ed ingiustificati tagli di spesa in settori che sono di vitale importanza per la vita e la dignità delle persone in qualunque paese europeo e che non possono non essere considerati come imprescindibili e prioritari settori di investimento economico e finanziario.

Tutto ciò è stato reso possibile dall’inconsistenza morale prima e oltre che intellettuale di una classe politica che in larghissima misura ha finito per ratificare pedissequamente le analisi e i giudizi dei tecnici dell’economia e duole constatare come persino in un momento cosí drammatico quale quello che stiamo attraversando per via di manovre finanziarie proEuropa non solo inique e insostenibili ma dannose all’economia e alla possibilità di sviluppo delle nazioni, tardi a giungere, in particolare in molti settori della sinistra e del cattolicesimo italiani, un soprassalto di intelligenza e di dignità personali e nazionali: per quanto tempo ancora lo schieramento di centrosinistra riuscirà a far credere ad aderenti e simpatizzanti di stare dalla parte di operai e giovani disoccupati o precari pur sposando la causa dell’alta finanza internazionale (vedi il significativo e convinto appoggio a Mario Draghi nella sua nuova funzione di presidente della Banca Centrale Europea, a quel Draghi che è uno dei ricchissimi privati cui appartiene la Banca d’Italia la quale pertanto non è affatto, come molti credono, di proprietà dello Stato italiano), e facendo concretamente gli interessi dei banchieri?

Io non parlerei di “dittatura europea” in senso proprio perché le procedure formali sono state rispettate ed eseguite con il concorso di larga parte della volontà popolare europea, ma è certo che la costruzione dell’unione europea è avvenuta in modo artificioso e per molti aspetti occulto, per niente chiaro e trasparente, a cominciare dal suo linguaggio spesso fumoso, burocratico e omissivo che caratterizza generalmente gli atti pubblici che essa emette. Inoltre, questa Europa unita si configura come una specie di Direttorio i cui componenti esprimono giudizi tendenzialmente vincolanti per tutti i Paesi membri su tutti gli aspetti della vita umana e sociale, dall’economia alla politica, dall’educazione alla sessualità, dal diritto all’etica e alla bioetica e via dicendo. In questo senso non si può non concordare con Ida Magli, le cui posizioni sulla realtà europea tuttavia non appaiono sempre condivisibili a causa di una sua pregiudiziale avversione verso tutto ciò che evochi un’idea di unità o di comunanza europea pur nel caleidoscopio delle diversità nazionali continentali, quando parla di una Unione Europea fondata su anonimi potentati economici sovranazionali tutti orientati in una stessa direzione e che tendono ad imporre non solo una moneta unica, ma il signoraggio bancario, l’omologazione culturale, la grigia monocromia politica, la distruzione della spiritualità e l’addomesticamento delle scienze e della critica sociale, lo sradicamento delle identità popolari e la cancellazione dell’autorità degli Stati, la continua rimozione di qualsivoglia provvedimento volto realmente al benessere popolare e alla giustizia sociale (op. cit.).

Una posizione giustamente critica verso l’Unione Europea aveva espresso nel 2001 anche un intellettuale come il compianto Massimo Bontempelli che osservava tra l’altro: «l’Europa è presentata dai mezzi di comunicazione di massa e dal dibattito politico come un problema, in quanto è fatta apparire un luogo ideale di razionalità ed efficienza in cui il nostro paese dovrebbe inserirsi per diventare migliore, e a cui tuttavia sembra permanentemente inadeguato» (Diciamoci la verità, Edizioni CRT, Pistoia 2001, p. 31). Proprio cosí: ancora oggi l’Italia, dopo reiterate riforme pensionistiche e tagli continui e crescenti alla spesa pubblica e allo Stato sociale, che negli ultimi due decenni hanno determinato oggettivamente nella sua popolazione un aumento vertiginoso dei valori della soglia di povertà assoluta e povertà relativa, sembra “inadeguato” rispetto agli standards europei che altro non sembra prevedano, sotto il profilo economico-finanziario, se non tagli e poi tagli e ancora tagli più o meno generalizzati. Dove è facile intuire come in tal modo persino il governo nazionale più austero e rigoroso sia prima o poi condannato ad una vera e propria fatica di Sisifo. Ma la verità è che «l’Europa di cui oggi si parla non è altro che un sistema normativo e un apparato tecnocratico finalizzati a promuovere il completo dominio sulla società dell’economia dei mercati finanziari globalizzati: il loro carattere sovranazionale serve appunto ad aggirare gli ostacoli nazionali alla circuitazione senza limiti, ed esclusivamente secondo i determinismi di un’economia completamente autoreferenziale, di capitali e di merci» (ivi, p. 32).

Un’economia autoreferenziale e, mi permetterei di aggiungere, profondamente malata e intrinsecamente involutiva e recessiva che non potrà mai elevare il tenore di vita dei cittadini europei in funzione del quale avrebbe dovuto o dovrebbe porsi. Ma se l’Europa promuove ed esige una economia di questa natura, è evidente che sia da giudicare inservibile e ingannevole ai fini del progresso materiale e spirituale dei popoli e degli individui che ne fanno parte. Dinanzi all’ormai nota abitudine dei suoi banchieri e dei suoi burocrati di spostare sempre in avanti e in modo indefinito il termine ultimo dei “sacrifici” richiesti alle nazioni europee e l’inizio di un periodo stabile di prosperità almeno relativa, noi cattolici, ivi compresi gli economisti di fede cattolica, non possiamo stare inerti come semplici spettatori di un gioco a torto ritenuto troppo più grande di noi e delle nostre possibilità di cambiamento. Noi cattolici, senza sottovalutare il potere fortemente condizionante che i “mercati” e le politiche che vi si connettono esercitano sulla vita e sulle idee e i comportamenti dei popoli e delle persone, dobbiamo comprendere che, in ultima analisi, i mercati e questi specifici mercati di segno oltranzisticamente liberista non potranno averla vinta su un’umanità che pensa, che sente e che soffre se non nel caso in cui essa si arrenda per stanchezza o pigrizia spirituale al loro dominio.

Noi cattolici dobbiamo aver fede in Cristo perché ci aiuti ad essere testimoni e strumenti di giustizia: con il cominciare a reagire a questo stato di cose, ad opporci con tutte le forze all’intreccio ebraico-massonico che dell’ideologia e del credo mondialisti è ispirazione originaria e struttura portante, a pretendere nel nome dei nostri valori evangelici che le regole europee siano modificate affinché non più gli uomini vengano asserviti deterministicamente ad astratte e in apparenza impersonali e anonime esigenze economiche e finanziarie ma l’economia venga messa stabilmente al servizio delle reali e specifiche esigenze quotidiane delle persone senza rinvii mistificanti al benessere delle future generazioni: dal lavoro, alla salute, all’istruzione e alla formazione o allo stesso tempo libero, giacché non è affatto ineluttabile che la vita dell’uomo debba consistere esclusivamente nella riproduzione della sua forza lavoro o nella sua mera sopravvivenza, e giacché, se è vero che le aspettative individuali di vita sono migliori di un tempo, questo non implica affatto che gli individui debbano morire lavorando quasi si trattasse di una punizione decretata in modo irrevocabile da una arcana divinità.

Tutto si può fare sul piano economico. Quel che resta totalmente arbitrario da tutti i punti di vista è il pensare che, per risanare il debito pubblico di uno Stato, sia possibile sottoporre a pratiche vessatorie i popoli e soprattutto i ceti o le categorie sociali più povere dei popoli stessi. Semmai, se proprio la crisi è reale, siano  gli stessi potentati economico-finanziari e i ricchi di tutto il mondo a farsene carico, dal momento che essi, ben più di altri soggetti sociali, checché ne dicano certi economisti idioti o prezzolati, ne sono responsabili.

Ma in particolare noi cattolici dobbiamo vigilare per evitare che la tendenza del mondialismo a livellare o ad appiattire le idee e gli ideali, i princípi e i valori morali, le fedi religiose e le credenze etiche presenti e operanti nelle diverse aree del pianeta, nel quadro di una concezione in cui non ci siano più posizioni ideali e giudizi di valore che valgano di più o di meno, finisca per determinare una situazione in cui  nostro Signore Gesù Cristo sia equiparato ad una delle tante “divinità” di quella diffusa mentalità “politeistica” contemporanea che prevede e prescrive la tolleranza e la reciproca accettazione tra le diverse credenze religiose e laiche. Se troppo diverse da queste istanze o addirittura conflittuali con esse dovessero risultare i criteri logico-ideali e i parametri di giudizio del parlamento e del Consiglio europei, sarebbe molto meglio uscire dall’Europa, posto che nel frattempo non imploda per conto suo, e presto: con contraccolpi non lievi, forse, ma con la coscienza di aver comunque difeso la nostra libertà e la libertà di tutti. Perché la libertà nella vita e nella storia può perdersi in molti modi e non è affatto irrealistico pensare che, a voler perseverare nell’errore, la si possa perdere anche nel nome di questa Europa.

La Chiesa e la politica

La Chiesa non può essere confusa con la comunità politica o con un determinato sistema politico. Essa non è, per sua natura, “un’agenzia politica”, ma non c’è dubbio che la fede, di cui la Chiesa è portatrice e custode, ha invece, per «sua natura..una ricaduta sull’intera vita degli uomini, anche sul versante pubblico e sociale» (A. Bagnasco, Chiesa e politica, Frascati, 4 settembre 2011). Questa è la fondamentale premessa della lectio magistralis su “Chiesa e politica”, tenuta recentemente dal card. Bagnasco a Frascati.

La politica, in quanto arte del buon governo e “amore per la polis” e dunque per la vita sociale, non deve essere volta semplicemente a soddisfare bisogni meramente individuali attraverso una collaborazione collettiva imposta dalle leggi o a regolamentare in senso repressivo “gli istinti di prevaricazione di tutti contro tutti” ma deve promuovere anche e soprattutto l’apertura dei singoli verso gli altri, la capacità caritatevole di ciascuno del dare e del ricevere, l’attitudine a rispettarsi e a soccorrersi mutuamente e disinteressatamente.

La politica, per i cristiani, deve essere intrisa di spirito di carità e nessuno può stupirsi che la Chiesa «da sempre consideri la politica come una forma alta di carità». Il politico, pertanto, non può essere altro che colui che «per amore si dedica alla giustizia». Ciò che è universalmente giusto, oltre ogni interesse particolaristico o corporativo, individualistico o di gruppo, è lo scopo precipuo di un’attività politica che sia degna di questo nome.

ll principio cristiano della giustizia è unicuique suum, ovvero il principio morale per cui la politica deve tendere a riconoscere a ciascuno il suo, a cominciare da ciò che appartiene indistintamente a tutti e quindi anche a ciascuno, come bisogni o necessità di carattere generale. Per cui, un agire politico, che trascuri tali bisogni o necessità generali per soddisfare “desideri o esigenze puramente singolari”, non può essere che ingiusto e incoerente rispetto alla sua specifica essenza.

La politica non può limitarsi a registrare passivamente certi rapporti di forza o di potere esistenti tra ceti o categorie sociali per ratificarli, magari al fine di procurarsi un facile consenso politico-elettorale, benché indubbiamente essa debba prestare attenzione ai “mutamenti sociali e culturali”. La politica è infatti tenuta non ad avallare acriticamente ogni mutamento e ogni istanza proveniente dalla società complessivamente considerata ma a valutare nel merito «le situazioni, le richieste, i bisogni vecchi e le nuove istanze» tenendo sempre fermi nei propri giudizi e nelle proprie decisioni non già criteri di pura e semplice opportunità e convenienza ma criteri universali di giustizia radicati nel concetto e nel principio, non manipolati o adulterati attraverso ragionamenti falsi e mistificatori, di bene comune.

Se in una società alcuni hanno troppo e altri troppo poco o niente, la politica, con leggi e riforme adeguate, dovrà innanzitutto preoccuparsi di sostenere chi ha troppo poco o niente e di raggiungere magari un pareggio di bilancio richiesto da necessità economiche interne e dalla comunità economica internazionale facendo obbligo a ricchi, evasori e non evasori, e a categorie economiche e sociali di fatto privilegiate, di farsi massimamente e concretamente carico delle difficoltà del momento. Purtroppo, sembra pensare Bagnasco, in Italia e in Europa oggi la politica tende a muoversi su binari molto diversi, di tipo ragioneristico e utilitaristico, per cui il suo problema principale è che i conti tornino, non importa se a carico e a danno di chi vive già nella precarietà o a beneficio e a vantaggio di chi stabilmente conduce vita agiata o di gaudente, e questo è notevolmente favorito dal fatto che viviamo «in un clima di individualismo solitario e di nichilismo valoriale», in cui «il dinamismo etico, tanto universale quanto ovvio, fatica ad essere riconosciuto. La conseguenza pratica, sul piano morale, è il cinismo comportamentale: scelgo ciò che mi conviene, ciò che mi appare utile, o che sembra placare i miei impulsi, fosse anche la morte mia o degli altri».

Intendiamoci: sarebbe irrealistico non vedere che nella storia degli uomini è in perenne svolgimento una dialettica talvolta molto conflittuale tra utilità e verità ma il compito della Chiesa è di fare in modo che, in questa «contesa tra utilità e verità, la verità non soccomba»: specialmente in «coloro che hanno responsabilità e visibilità maggiori», se si vuole che «il bene comune, che richiede anche sacrificio», sia «credibile». Coloro che governano ed esercitano potere devono essere rispettati ma solo nella verità e nel coraggio di voler operare nel miglior modo possibile secondo verità e secondo giustizia. Qui i cristiani devono essere particolarmente attenti e vigilanti perché essi sono stati chiamati ad essere “sale della terra”, condividendo praticamente tutte le fatiche e le privazioni dei più soli ed oppressi, e “luce del mondo”, prendendo energicamente e apertamente posizione su tutte le questioni di vitale importanza per la vita e la dignità degli uomini.

Il discorso di Bagnasco su questo punto si libera di quella bonomía un po’ generica ed ipocrita e di quella retorica religiosa tante volte fastidiosamente ed ambiguamente presenti in non trascurabile parte della pubblicistica della gerarchia cattolica e si carica di tonalità tanto chiare quanto precise che conferiscono al suo argomentare un notevole significato morale e religioso, quasi profetico: «Qualcuno, oggi, vorrebbe che la Chiesa tacesse perché ogni sua parola viene giudicata come un’ingerenza nelle questioni pubbliche e politiche. Vorrebbe che rimanesse in sacrestia. La preghiera – si pensa – in fondo non fa male a nessuno e la carità fa bene a tutti. In altri termini, si vorrebbe negare la dimensione pubblica della fede concedendole la sfera del privato. E’ singolare, però, che a tutti si riconosca come sacra la libertà di coscienza, mentre dai cattolici si pretenda che prescindano dalla fede che forma la loro coscienza. I Pastori, poi, si vorrebbe che tacessero salvo che dicano cose gradite alla cultura che appare dominante perché ha potere di parola; in caso diverso, spesso si grida all’ingerenza. Francamente, mi sembra che si usino due pesi e due misure. Ma il punto centrale non è questo – le reazioni alle parole della Chiesa –, ma il dovere della Chiesa a dire ciò che deve perché l’umano non scompaia dal mondo, e perché la società non diventi dei forti e dei furbi, cioè disumana. Risuona imperioso il monito dell’Apostolo Paolo: “Guai a me se non predicassi il Vangelo” (1 Cor 9,16). Si tratta dell’annuncio della fede con tutte le implicazioni antropologiche, etiche, cosmologiche e sociali che contiene. Forse si vorrebbe che l’annuncio di Cristo fosse un messaggio spiritualista talmente celeste da non disturbare la terra, ma cosí non può essere, perché il cristianesimo è la religione dell’Incarnazione».

E infine: «Certi valori – come nel campo della vita e della famiglia, della concezione della persona, della libertà e dello Stato – anche se sono illuminati dalla fede, sono anzitutto bagaglio della buona ragione. Per questo sono detti “non negoziabili”. Si dice che la politica è l’arte della mediazione: è vero per molte cose, e speriamo che si raggiungano sempre le mediazioni migliori, ma vi sono dei principi primi che qualunque mediazione distrugge». Uno di questi princípi primi e intangibili è la dignità umana in tutte le forme e le fasi della vita, dalla nascita alla morte.

Ma viviamo in un’epoca in cui si stenta ad essere dignitosi persino quando si parla di dignità. E allora, anziché fare discorsi e appelli troppo impegnativi e appassionati, appare più decoroso porsi e porre una serie di domande semplici semplici: quante arbitrarie ed ingiustificate decurtazioni giuridico-finanziarie dovranno ancora subire nel nostro Paese le pensioni, l’assistenza sanitaria, l’istruzione e la formazione professionale, quanti altri tagli dovranno essere praticati ai danni degli enti locali di diverso ordine e grado, quanti disoccupati e quanti precari dovranno ancora aggiungersi a quelli numerosissimi già conteggiati dagli istituti statistici, quanti licenziamenti e quanta miseria saranno ancora necessari, prima che si decida, per evitare “la comune rovina delle classi in lotta” o degli interessi contrapposti, di invertire radicalmente la rotta di questa nostra cieca e ignobile navigazione politica?

Giornalismo laico e giornalismo cattolico?

Vittorio Feltri, noto giornalista indipendente del partito di Silvio Berlusconi, si è trasformato in questi giorni in un angelo vendicatore: Dino Boffo, direttore del giornale dei vescovi italiani ovvero di “Avvenire”, non era moralmente degno di dirigere il quotidiano cattolico, dal momento che si permetteva di censurare i “festini” altrui pur non potendo vantare una specchiata moralità ed appartenendo alla categoria degli omosessuali. Se viceversa, cosí ragiona Feltri, il giornalista cattolico non si fosse permesso di criticare pubblicamente il “privato” di Berlusconi e la sua politica sull’immigrazione, non sarebbe stato necessario attaccarlo e punirlo: come dire, chi di moralismo ferisce, di moralismo perisce. A Feltri, che molti definiscono un vero garantista, uno che non fa sconti a nessuno, uno che è laicamente libero da qualsiasi condizionamento, dispiace, dice lui stesso, di aver dovuto danneggiare un collega peraltro preparato dal punto di vista professionale, ma in realtà il suo vero obiettivo erano e restano tutti quei moralisti del PD e di certi giornali “democratici” (come “La Repubblica”) che, a suo giudizio, non potrebbero permettersi di fare i moralisti. Quindi il nuovo direttore di “Il Giornale”, anche lui evidentemente animato da accesi propositi moralistici (più che di sana moralizzazione, che è un’altra cosa), avrebbe inteso colpirne uno per educarne cento e per porre implicitamente sotto ricatto tutti coloro che non dovessero desistere dall’assolvere ipocritamente il proprio ruolo pubblico.

Ma bisogna aggiungere che il laico Feltri non ha esitato a sferrare il suo attacco anche contro quella Chiesa, forse colta di sorpresa in questo frangente, alla quale non si poteva perdonare di essersi scagliata contro Berlusconi che per essa sta facendo finanziariamente moltissimo: quindi, beninteso, non è che la Chiesa, peraltro molto divisa al suo interno, abbia sbagliato nel fare politica ma ha sbagliato nel fare politica contro il premier anziché mostrarsi verso di lui amichevole e riconoscente.

Non so se è chiaro: Feltri ritiene che il suo mestiere di giornalista non gli vieti in alcun modo di farsi paladino di una corrente politica e di suoi eminenti esponenti sino al punto di chiudere completamente gli occhi sui possibili vizi di quella corrente politica e soprattutto sui vizi picccoli e grandi di uomini che governano il paese. Per lui il giornalista non ha il compito di individuare criticamente elementi di debolezza e di debolezza morale in un partito, in una compagine politica o governativa, per dare eventualmente anche il suo contributo alla correzione di difetti, limiti, errori in una prospettiva di elevamento etico-civile dell’attività politica stessa; per lui invece il giornalista deve servire la verità, senz’altro, anche criticando e proponendo, ma nei limiti in cui questo servizio non nuoccia sostanzialmente agli interessi personali dei potenti di cui si sia amici e debitori.

Feltri non ha avuto la correttezza e la sensibilità morali e professionali di dire a Berlusconi: “guarda che stai sbagliando, perché un capo di governo, pur essendo un uomo limitato e imperfetto come tutti, non può permettersi certe bassezze, certe pratiche private deteriori che, se rivelate, avrebbero una evidente ricaduta diseducativa sulla società; guarda che non puoi permetterti cose del genere, anche se i tuoi avversari sono degli ipocriti matricolati”. Ma, al contrario, avallando tutte le sue porcherie (che tali restano anche se lo scrivente malauguratamente dovesse essere peggiore di Berlusconi), ha trasformato la penna in una pistola sparando contro i molestatori più diretti del suo potente amico, senza preoccuparsi che, a causa di questi molestatori finisse per trovarsi coinvolta tutta la Chiesa.

E questo sarebbe giornalismo, questa sarebbe colta e intelligente laicità, questo sarebbe puro servizio al dovere di informazione e alla verità? Non so se abbiano torto coloro che non vedono alcuna sostanziale differenza tra questo comportamento, tra questo modo di intendere la propria professione e un generico comportamento delinquenziale. Ma non è da escludere che, se Feltri avesse potuto esercitare l’attività giornalistica ai tempi del tetrarca Erode, un altro che di “festini” se ne intendeva, non avrebbe tardato a chiedere e ad ottenere, prima della giovane e conturbante Salomé, la testa di Giovanni Battista, che ad Erode chiedeva non di lasciare il potere ma di non condurre una vita immorale.

Ma, intendiamoci: non è che, dall’altra parte, si sia fatto molto meglio. Anche se Dino Boffo fosse un omosessuale, e al momento non risulta, ciò non sarebbe in sé qualcosa di incompatibile con il mestiere che fa e con la carica di direttore di un giornale cattolico. La difficoltà, molto grave, sussisterebbe solo nel caso in cui egli sia stato dedito a pratiche omosessuali e anzi, se si vuole essere coerentemente cristiani, solo nel caso in cui, prima di ricoprire la carica di direttore di “Avvenire” e ancora ignaro dell’incarico che avrebbe ricoperto, non si sia sinceramente pentito davanti a Dio della sua condotta e abbia continuato a fare quel che faceva prima.

Per quanto possa sembrare cavillosa e capziosa, questa argomentazione in realtà è perfettamente in linea con l’esigenza cristiana di accogliere e non discriminare tutti quei fratelli peccatori ma capaci che abbiano tagliato onestamente i ponti con la loro storia di peccato e si siano messi anima e corpo al servizio della causa di Cristo e della Chiesa. Non so se ciò valga realmente per Boffo, ma questa possibilità riguarda anche lui. Se non fosse cosí, a molti cristiani riconosciuti santi bisognerebbe togliere la qualifica di santità. D’altra parte, anche l’eventualità che la Chiesa potesse essere informata delle ipotetiche inclinazioni personali di Boffo non è qualcosa che possa essere usato come capo di accusa contro la Chiesa stessa, perché questa non è affatto tenuta a divulgare o a rendere pubbliche questioni che riguardano l’intimità delle persone.

Il problema è un altro: che, nella Chiesa cattolica, anche giornalisticamente non si parla usando lo stesso linguaggio ma linguaggi diversi e contrastanti. E’ il caso di Gian Maria Vian, direttore del giornale della Santa Sede “L’Osservatore Romano”, il quale, nel momento stesso in cui ha manifestato la sua solidarietà al collega Boffo, gli ha inflitto un colpo quasi mortale, criticandolo per l’imprudenza che lo avrebbe portato ad entrare nelle questioni private di Berlusconi e a criticare aspramente la politica del governo sull’immigrazione.

Quindi egli cosí prosegue: «E’ vero, sulle vicende private di Silvio Berlusconi non abbiamo scritto una riga. Ed è una scelta che rivendico, perché ha ottimeragioni:.; il giornalismo italiano pare diventato la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Segno che la politica, in tutti i suoi schieramenti, è piuttosto debole. Infatti da alcuni mesi la contesa tra partiti sembra svolgersi soprattutto sui giornali, che hanno assunto un ruolo non soltanto informativo, come mostrano le vicende anche degli ultimi giorni; in genere, il quotidiano della Santa Sede oggi non è solito entrare negli scontri politici interni dei diversi Stati, a cominciare dall’Italia. Preferiamo dedicarci ad analisi di ampio respiro, piuttosto che seguire vicende molto particolari, controverse e di cui spesso sfuggono i contorni precisi, come quelle italiane degli ultimi mesi:» (intervista di A. Cazzullo, Vian: rivendico di non aver scritto sulle vicende private del Cavaliere, in “Il Corriere della Sera”, 31 agosto 2009). Si preoccupa infine di precisare che «i rapporti tra l’Italia e la Santa Sede sono buoni. Berlusconi è stato il primo a chiarire che non sarebbe andato a Viterbo per la prossima visita del Papa, quando ha capito che la sua presenza avrebbe causato strumentalizzazioni: Nelle relazioni tra Repubblica Italiana e Santa Sede non cambia nulla» (ivi).

Senza entrare nel merito delle tesi e delle posizioni pur discutibili di Vian, ci si chiede: come può un cristiano esprimere pubblicamente un dissenso cosí pesante rispetto a un fratello che preferisce impostare diversamente il proprio lavoro, proprio nel momento in cui gli manifesta la propria vicinanza morale? E’ come se gli dicesse: “forza, io ti sono vicino, vai avanti”. E subito dopo aggiungesse in presenza di tutti: “però il tuo lavoro potresti farlo anche meglio, per esempio come lo faccio io; potevi pensarci a non fare danni, a non provocare l’ira dei potenti, e soprattutto a non compromettere i rapporti di amicizia e di interesse tra lo Stato e la Chiesa”. Due sono i casi: o Vian non si rende conto di quel che dice e di come lo dice, oppure confonde la perfidia e la viltà con la franchezza fraterna. Penso che, in entrambi i casi, sia censurabile moralmente ed interpreti in modo pessimo il suo ruolo di giornalista cattolico e, ancor più specificamente, di giornalista pontificio.

Il cristiano dev’essere prudente, ma dev’essere anche candido, cioè chiaro, sveglio, onesto, coraggioso. Non so se Boffo abbia queste qualità tipicamente cristiane ma, con altri giornalisti cattolici magari migliori di lui, ha certamente il diritto di esprimere il suo pensiero, le sue valutazioni, i suoi giudizi di ordine morale oltre che politico, anche se prendendo posizione sulle questioni volta a volta esaminate e non invece, come suggerisce il suo collega, astenendosi dal dire e dallo scrivere cose che potrebbero dare fastidio ai potenti di turno non necessariamente perché false ma probabilmente solo perché gravi. Vian segua la sua coscienza; alla fine, come ben sa, sarà Dio a giudicare l’operato di ognuno di noi. Vian veda di immettere un po’ più di passione nel giornale pontificio da lui diretto e non ne faccia solo una rivista bella e ordinata, formalmente irreprensibile e inattaccabile ma incapace di scaldare i cuori e di scuotere veramente le coscienze. Chi ascoltava Cristo si sentiva mettere in discussione e si sentiva riscaldare il cuore d’amore, ovvero di passione bruciante per la verità e di un incontenibile spirito di giustizia. Chi ascoltava Cristo era anche uno che proprio per questo, non amando né il rischio né la neutralità, prima o poi si trovava per forza coinvolto suo malgrado in qualche situazione sgradevole.

Il giornalismo cattolico è o dev’essere un giornalismo obiettivo, lucido e razionale, ma è e non può non essere anche un giornalismo “partigiano”, come lo è quello realmente laico rigorosamente dipendente da un principio di schietta e aperta razionalità critica, perché non è affatto vero, oggi come ieri, che essere dalla parte di Cristo significa non solo essere pronti ad amare tutti ma anche essere dalla parte di tutti.