Vangelo e Chiesa tra finanza e poteri occulti

L’economia mondiale, cosí com’è, cosí come funziona adesso, non va bene per niente. Non è possibile continuare a pensare che essa possa sussistere e produrre ricchezza in conformità al principio del profitto illimitato e comunque del massimo guadagno possibile e in costante violazione di elementari princípi di umanità e di giustizia sociale, che è spesso ciò che passa completamente sotto silenzio nelle ricorrenti analisi di tanti dotti ma ciechi economisti. Se l’attività economica viene fondata essenzialmente sull’avidità, essa non può che dar luogo a comportamenti «in cui il conflitto di interessi è prassi quotidiana». Per troppo tempo è accaduto che «la cultura del conflitto di interessi» fosse tollerata quasi si trattasse di un dato ineluttabile e che essa tentasse di nascondersi o camuffarsi attraverso un uso strumentale dell’etica, della filosofia, dell’antropologia, «mediante discorsi pomposi e retorici, codici etici e di responsabilità sociale quasi sempre teorici, forti solo della gran cassa mediatica. Ma un tale sistema che mortificava e strumentalizzava l’etica della virtù, la filosofia del bene comune, l’antropologia umanizzante non poteva reggere a lungo» (C. Tabarro, Crisi finanziaria e conflitto di interessi – prima parte –, La proposta della Dottrina sociale della Chiesa, in “Zenit” del 23 agosto 2012).

Questo veniva evidenziando nella sua enciclica “Caritas in Veritate” Benedetto XVI, che criticava anche l’abuso dell’aggettivo “etico”, adoperato troppo spesso in modo generico e quindi in modo tale da prestarsi «a  designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo», in evidente contrasto con ciò che insegna la dottrina sociale della Chiesa che ha i suoi due punti fermi «nell’inviolabile dignità della persona umana» e «nel valore trascendente delle norme morali naturali». Per cui, «un’etica economica che prescindesse da  questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Tra l’altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono», come recita testualmente l’enciclica “Caritas in Veritate” , n. 45.

Sta di fatto che, ad un certo punto, la cultura del conflitto di interessi con tutte le conseguenze che ne sono derivate, ha prodotto la situazione disastrosa che tutti, e in particolare i ceti e gli individui più poveri o meno abbienti, stiamo vivendo. Il neoliberismo utilitarista che, specialmente nell’ultimo decennio, è diventato il credo indiscusso di una cospicua pluralità di responsabili della politica, dell’economia e della finanza, della stessa cultura, non solo si è dimostrato totalmente fallimentare ma, per mezzo di un sistematico e assordante bombardamento mediatico, ha indotto anche la gran parte delle masse lavoratrici ad un atteggiamento tendenzialmente passivo e rinunciatario nonché troppo condizionato dal timore di poter solo danneggiare il proprio stato di vita con una diversa condotta politica. Le diseguaglianze sono cosí aumentate sia in quantità che in qualità e, in luogo di un’era di maggior sviluppo e di maggior benessere per tutti come falsamente avevano profetizzato i moltissimi corifei del liberismo economico, è venuta ultimamente affermandosi una politica dell’austerità «verso le classi più deboli dalle quali si vorrebbe far dipendere la crescita, mentre ha l’unico effetto di aumentare la depressione e di rendere impossibile la crescita e quindi le future possibilità di pagamento del debito» (C. Tabarro, Crisi finanziaria e conflitto di interessi – prima parte –, La proposta della Dottrina sociale della Chiesa, in “Zenit” del 23 agosto 2012).

Tutto questo è venuto pensando ed elaborando intelligentemente e responsabilmente la Chiesa istituzionale e almeno una parte della Chiesa tout court intorno all’angosciosa crisi finanziaria ed economica in atto. Il papa ha sottolineato l’urgenza di una riforma radicale tanto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite quanto della stessa “architettura economica e finanziaria internazionale”. Ove non si proceda in tale direzione, non si capisce come «sia possibile combattere il conflitto di interessi che “regola” i rapporti tra grande finanza e politica», essendo ben noto che quest’ultima è abbondantemente finanziata e dunque negativamente condizionata dalla prima. Non è forse vero, per esempio, che persino la Corte Suprema americana, con la decisione Citizen United, ha legalizzato nel 2010 la possibilità dei candidati politici di ricevere “donazioni” illimitate? Dov’è la morale, dov’è l’etica pubblica, se persino coloro che dovrebbero custodire gelosamente il diritto in assoluto spirito di indipendenza si prestano a favorire istanze particolaristiche di individui e gruppi?

L’8 maggio 2012, il presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, mons. Mario Toso, ha tenuto una lectio magistralis dal titolo “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”, affermando chiaramente che la causa primaria della crisi finanziaria dovesse essere individuata in «un liberismo economico senza regole e senza controlli». E l’analisi, sempre centrata su quest’ultimo, cosí proseguiva e veniva significativamente articolandosi: «Si tratta di una ideologia, di una forma di “apriorismo economico”, che pretende di prendere dalla teoria le leggi di funzionamento del mercato e le cosiddette leggi dello sviluppo capitalistico esasperandone alcuni aspetti. Un’ideologia economica che stabilisca a priori le leggi del funzionamento del mercato e dello sviluppo economico, senza confrontarsi con la realtà, rischia di diventare uno strumento subordinato agli interessi dei Paesi che godono di fatto di una posizione di vantaggio economico e finanziario».

La Nota del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace del 24 ottobre 2011 affermava «l’esistenza di istituzioni ed imprese che, grazie al loro potere e alle informazioni asimmetriche di cui “godono” (o che “costruiscono”), assumono di fatto una posizione di vantaggio economico e finanziario, alias conflitto di interessi. È il conflitto di interessi che ha permesso alla più grande banca d’affari, la Goldman Sachs, di passare indenne dai processi per i drammi sociali, economici e finanziari provocati con i mutui subprime, per le manipolazioni del mercato mondiale, per le responsabilità nell’aver provocato la nazionalizzazione dell’Aig (con i soldi dei contribuenti), per aver stipulato polizze assicurative speculative a copertura di titoli finanziari falliti.

È il conflitto di interessi che ha dato vita al recente scandalo del LIBOR (London inter bank offered rate), il più importante tasso d’interesse interbancario che ogni mattina diciannove banche globali concordano stabilendo i tassi sui prestiti alle imprese e famiglie.

Nonostante tutti questi scandali e tutte queste rovine materiali e morali, per i responsabili non ci sarà nessuna conseguenza giuridica (al massimo una “piccola” sanzione economica), perché le grandi banche sono too big to fail (troppo grandi per fallire) e a loro non si applica il diritto vigente, quindi sarà sempre loro permesso un salvacondotto a causa del conflitto di interessi in gioco.

Abbiamo visto il declino morale delle elargizioni di cospicui bonus a manager anche quando questi hanno distrutto il tessuto economico delle società da loro guidate. Il conflitto di interesse, con l’ausilio dei grandi media (anche loro controllati nella proprietà dalla grande finanza), provoca il sonno della ragione e della morale, e spinge gli animal spirit (nel senso keynesiano) ad emergere contro il bene comune.

Quel che più impressiona è come non ci si accorga che insieme all’elementare ed errata ideologia che vede nel ‘mercatismo’ la risoluzione di tutti i problemi, non si comprenda come l’utilitarismo filosofico di Jeremy Bentham non sia la risposta al problema della crisi ma è piuttosto la causa della crisi.

Si è affermata la convinzione che la massimizzazione dell’utilità non valga soltanto per chi detiene poteri piccoli e grandi, ma addirittura che la logica del conflitto di interessi sia “normale” anche per i legislatori, i quali dovrebbero non pensare al proprio tornaconto ma al bene comune, sulla scia di quanto affermava De Gasperi: “il politico è quello che guarda alle prossime elezioni, lo statista è quello che guarda alle prossime generazioni”» (Crisi finanziaria e conflitto di interessi – seconda parte –, pubblicata sempre in “Zenit”, il 30 agosto 2012).

Che è un’analisi impeccabile anche se ancora caratterizzata dalla tacita convinzione che il capitalismo sia riformabile e non debba essere necessariamente “superato”, e un’analisi implicitamente e fortemente critica, specialmente nella sua parte conclusiva, nei confronti del governo italiano in carica e del suo presidente, prof. Mario Monti, che però ha fatto finta di non sentire e ha pertanto rinunciato a replicare in modo diretto a mons. Toso. Ma resta comunque significativa ed altamente apprezzabile questa presa di posizione della Chiesa cattolica, nella quale tuttavia soprattutto in materia economica e sociale non sussiste una unanimità di punti di vista (e questo spiega la discontinuità dei suoi stessi vertici nello stigmatizzare le severe ma spesso dissennate politiche di revisione della spesa e dei conti pubblici dello Stato italiano che dovrebbero aiutare a superare la crisi ma che in realtà l’aggravano ulteriormente), contro l’ideologia mercatistica, che, muovendo da Jeremy Bentham, è venuta sempre più radicalizzandosi nel secolo scorso in alcuni teorici conservatori, e per aspetti non inessenziali decisamente reazionari, quali Hayek e Friedman (esponenti della cosiddetta “scuola austriaca”), e infine in Robert Nozick, che ne ha ripreso e sviluppato le tesi fondamentali giungendo ad elaborare una critica micidiale del concetto di giustizia distributiva. Sono proprio le politiche ispirate alle teorie di costoro che «giustificano la centralità del conflitto di interessi, oltre a distruggere i diritti e i valori fondamentali della civiltà occidentale fondata sui valori ebraico-cristiani» (ivi).

Tuttavia, questa combattività critico-evangelica sembra appannarsi ed arenarsi leggermente là dove si passa dalla pars destruens alla pars construens, perché è senz’altro opportuno il richiamarsi della Chiesa all’etica del bene comune e il proporre nuove istituzioni politiche, finanziarie e monetarie fondate su tale etica, ed è altrettanto comprensibile che essa, nell’intervenire su questioni economiche e sociali, debba muoversi solo sul piano della sua competenza etica e religiosa, per cui non le è consentito di «entrare nell’agone “politico-partitico” o dare risposte specificatamente tecniche, pur non ignorandole» (Crisi finanziaria e conflitto di interessi – parte terza – in “Zenit” del 6 settembre 2012), ma quel che appare obiettivamente mancante o almeno insufficiente, non già su un piano politico, bensí proprio sul terreno della testimonianza apostolica e del magistero ecclesiale contemporaneo è una chiara e perentoria traduzione e comunicazione dei valori evangelici di condivisione, di comunione, di giustizia sociale oltre che di giustizia tout court in un linguaggio e in un discorso non ovattato o addolcito ma fermo e imperioso come quello con cui Gesù disse: “Beati i poveri, gli umili, gli affamati, gli onesti, i perseguitati…perché essi andranno in cielo e vivranno gioiosamente per l’eternità” e “Guai a voi ricchi, a voi potenti, a voi avidi e incapaci di vera carità, a voi superbi che vorreste caricare gli altri di pesi insopportabili che non toccate neppure con un dito (Lc 11, 46) perché, persistendo il vostro stato di peccato, andrete dritti all’inferno dove sperimenterete per sempre la lontananza da Dio”.

Qui, insomma, la Chiesa è chiamata “a portare la spada”, la stessa spada portata da Cristo, e quindi a portare la divisione, il conflitto, la lotta nelle coscienze di tutti e di ciascuno, prima di portare pace e riconciliazione non già in senso generico e aprioristico ma solo in quanto ci si voglia pacificare e riconciliare con Dio e con gli uomini sul terreno appunto della condivisione, di un’equa distribuzione di beni materiali e spirituali, di una volontà di servire prima gli ultimi e i più bisognosi e poi via via tutti gli altri. Non sta forse scritto che misericordia e verità devono incontrarsi e che giustizia e pace devono baciarsi (Salmo 85, 11)?

E’ senz’altro utile porre in evidenza che a determinare la crisi economica e finanziaria internazionale di questo tempo sono state «le ideologie neoliberiste, neo-utilitariste e tecnocratiche che strumentalizzano il bene comune, affermando che quest’ultimo coincide con la massimizzazione delle utilità economiche, finanziarie e tecniche, non accorgendosi o sottostimando il rischio presente e futuro delle stesse istituzioni democratiche» (ivi), ma non è sufficiente affermare che la Dottrina sociale della Chiesa, «per superare questo impianto ideologico e le sue prassi distorte, propone di partire da un nuovo umanesimo globale, aperto alla trascendenza, fondato sull’etica della fraternità e della solidarietà, nonché subordinando l’economia e la finanza alla politica, responsabile del bene comune», e che solo in questo modo «si possono vincere le idolatrie del ‘mercatismo’ e del conflitto di interessi, aventi come unico fine l’utilitarismo spacciato per felicità, ignorando quell’etica della virtù che li dovrebbe permeare intimamente» (ivi).

Non è sufficiente perché il problema della testimonianza evangelica non è quello di una semplice e distaccata critica dell’esistente ma quello di turbare le menti e scuotere le coscienze di credenti e non credenti per mezzo di forme e di tonalità espressive e concettuali, per l’appunto evangeliche, che, senza altre preoccupazioni che non siano quelle di annunciare fedelmente il Regno di Dio, facciano comprendere inequivocabilmente a chi ascolta il senso più profondo e anche più severo o scomodo della Parola di Dio costringendolo a rivedere le sue idee, le sue teorie, le sue valutazioni, anche ove fossero frutto di anni e anni di studio e di apprendimento accademico, e i suoi stessi atteggiamenti spirituali e pratici soprattutto rispetto ai bisogni dei più poveri, dei più sfortunati, dei più anonimi: la luce evangelica che deve illuminare il mondo non può stare “sopra un monte” né può essere nascosta “sotto il moggio”, il sale evangelico che deve dare sapore alle cose della terra non può essere insipido, perché in tal caso “a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini”.

Che la Chiesa cattolica abbia allora la prontezza e l’audacia evangelica di denunciare la falsità, la risibilità, l’inverificabilità più assoluta e anche l’evidente contraddittorietà di talune affermazioni dell’attuale presidente del Consiglio, Mario Monti, purtroppo egregiamente coadiuvato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: gli si sente dire infatti che, se non fosse subentrato il  governo Monti alla guida dell’Italia, lo spread sarebbe salito a molto più di 1000 punti; che comunque lo spread registrato, prima dell’annuncio dello “scudo” annunciato e varato da Mario Draghi in qualità di presidente della BCE, sarebbe stato “ingiustificato” rispetto ai “fondamentali” o alle “leggi dell’economia”; che, grazie all’attuale politica governativa, sia la situazione economico-finanziaria italiana sia l’euro sarebbero stati salvati dal “baratro” anche se adesso, dopo il gigantesco riordino dei conti pubblici dal governo operato per mezzo di inauditi e vessatori tagli sociali, toccherebbe alle aziende, al mondo imprenditoriale in genere, salvare l’Italia con comportamenti “virtuosi”! Tutte cose in parte pensabili ma assolutamente non dimostrabili e francamente indegne di uno scienziato dell’economia, tutte cose dette pubblicamente con una sicumera non sorretta né da prove, né da riscontri empirici di alcun genere, e basata esclusivamente su congetture tanto dogmatiche quanto arroganti e ingannevoli.

La stessa euforia creatasi in Europa e in Italia dopo il varo dello “scudo antispread” è totalmente ingiustificata e rientra nelle mistificazioni dei grandi banchieri a cui è stoltamente affidata in questo momento storico, da parte delle diverse politiche nazionali, la guida economico-finanziaria del mondo. Perché? Ma perché è evidente che, come si legge su un quotidiano italiano noto per la sua faziosità ma talvolta preciso e puntuale, «il denaro necessario alla BCE per acquistare i titoli di stato sarà rastrellato dalle vostre pensioni, dai vostri salari, dalla vendita delle vostre case. Ottenuto attraverso il vostro licenziamento, l’aumento delle tasse e quello dei prezzi al consumo. Raggranellato privandovi progressivamente di tutti i servizi al cittadino, dalla sanità alla scuola, passando attraverso tutti gli altri» (“Il Giornale”, 7 settembre 2012).

E’ davvero abnorme il fatto che, nella grande stampa e nelle televisioni pubbliche e private del nostro Paese, passino sostanzialmente sotto silenzio l’origine e la provenienza di tecnocrati quali Monti e Draghi (insieme a tanti altri noti esponenti della politica e dell’economia italiane), la loro appartenenza ai clubs economico-finanziari più esclusivi del mondo riconducibili al “Bilderberg Group” e al “Council on Foreign Relations”. Come scriveva sul “New York Times”  William Shannon, ambasciatore in Italia del presidente americano Carter e membro del Bilderberg, «i Bilderbergers sono in cerca dell’era del post-nazionalismo: quando non avremo più paesi, ma piuttosto regioni della terra circondate da valori universali. Sarebbe a dire, un’economia globale; un governo mondiale (selezionato piuttosto che eletto) e una religione universale. Per essere sicuri di raggiungere questi obiettivi, i Bilderbergers si concentrano su di un “approccio maggiormente tecnico” e su di una minore consapevolezza da parte del pubblico in generale».

Il giornalista spagnolo Daniel Estulin, autore di un libro molto informato e intitolato “The true story of the Bilderberg Group”, ha scritto che «le idee e la linea politica che vengono fuori dagli incontri annuali del Gruppo Bilderberg sono poi usate per creare le notizie di cui si occuperanno le maggiori riviste e i maggiori gruppi editoriali del mondo. Lo scopo è quello di dare alle opinioni prevalenti dei Bilderbergers una certa attrattiva per poterle poi trasformare in politiche attuabili e di far pressione sui capi di stato mondiali per sottometterli alle “esigenze dei padroni del mondo”. La cosiddetta “stampa libera mondiale” è alla completa mercè del gruppo e dissemina propaganda da esso concordata».

Quanto al “Council on Foreign Relations”, sorto nel 1921, pochi sanno che anche questo selettivo e potentissimo organismo, di cui oggi fanno parte molti capi di Stato e personalità dell’economia e della cultura di tutti i paesi del mondo, muove i fili di un disegno mondiale (d’onde  l’ideologia mondialista) che da poco meno di 90 anni decide le sorti, l’evoluzione e gli eventi del nostro pianeta e che è puntualmente all’origine di tutte le crisi economiche o politiche e alla base di ogni dissesto nazionale. Il disegno prevede che il mondo debba essere controllato dall’alto ovvero dalle posizioni più alte dei vertici economico-finanziari internazionali e che la volontà democratica dei popoli debba essere quanto più possibile limitata o contenuta.

Oggi Mario Draghi, presidente della BCE, continua ad esser membro anche del cosiddetto “Gruppo dei Trenta” (G30), un organismo internazionale di finanzieri leaders e accademici finalizzato ad approfondire la comprensione delle questioni economiche e finanziarie e ad esaminare le conseguenze delle decisioni prese nei settori pubblici e privati correlati a tali problematiche. Esso è composto di trenta membri e comprende sia i titolari delle principali banche private e banche centrali, sia esponenti particolarmente influenti del mondo accademico e delle istituzioni internazionali. Per questo motivo, alcuni mesi or sono Draghi ha dovuto subire una dura contestazione (di cui ancora nessuno parla) in sede europea per conflitto di interessi, essendo egli infatti, tra l’altro, uno dei principali proprietari della Banca d’Italia che, diversamente da quel che di solito si pensa, non è una banca pubblica ma privata.

Ora, che il destino dei popoli sia e debba rimanere nelle mani di questi lobbisti e di questi potenti organismi decisionali è ciò che può essere auspicato solo da masse popolari inconsapevoli e da gente sprovveduta. Ma almeno la Chiesa di Cristo non può permettersi né di essere inconsapevole né tanto meno di essere sprovveduta e di venire a patti con certi malefici poteri occulti presenti in ogni angolo della terra, perché essa non potrà continuare ad evangelizzare il mondo e non potrà esercitare efficacemente la sua opera di conversione a Cristo se non sarà capace di individuare e contrastare per tempo, con coraggio evangelico e spirito realmente combattivo, le forze sataniche che affliggono non solo i singoli nel loro privato ma interi popoli nella loro vita pubblica.

I cattolici e gli immigrati

immigratiSull’immigrato, sul forestiero, sullo straniero, sul “diverso” da noi, che decide di venire da noi in Italia o in Occidente, sussistono fondamentalmente due modi di ragionare e di argomentare. Ambedue sono equanimemente diffusi tra laici di diverso orientamento politico e religioso e i credenti cattolici. Il primo è quello di chi dice: ma cosa vengono a fare da noi se non abbiamo posti di lavoro per i nostri connazionali e i nostri stessi figli, se tanti di noi sono costretti a condurre una vita disagiata a causa di leggi finanziarie e di provvedimenti fiscali sempre più severi e pesanti, se non c’è né crescita economica né possibilità di investire capitali per attività produttive davvero proficue e tali da favorire anche una significativa e stabile assunzione di manodopera, se non esistono adeguate strutture di accoglienza?

Perché l’Europa laica e cosmopolita, tollerante e multiculturale, non destina un bel po’ di quattrini per il sostentamento almeno relativo di quei gruppi etnici come rumeni, rom, zingari, slavi, albanesi, e via dicendo, sul loro stesso territorio d’origine, anziché aspettare che buona parte dei componenti di tali gruppi si muovano verso Paesi europei, come per esempio l’Italia, ritenuti più ricchi e più capaci di soddisfare le loro necessità primarie, per poi lanciare ipocritamente accuse di xenofobia e razzismo ai Paesi ospitanti al primo insorgere di difficoltà relative a problemi di convivenza con le relative popolazioni? Perché invocare la comune cittadinanza europea solo per intimorire o tentare di costringere qualche governo europeo a non varare misure di espulsione o provvedimenti restrittivi nei confronti di tali gruppi ogni volta che si ritenga evidentemente necessario procedere in tal senso per motivi di ordine e sicurezza sociali?

Non è che per caso, dietro lo sventolío dei diritti umani e del diritto di ogni cittadino europeo a circolare liberamente in tutti i Paesi della UE, qualche nazione come la Romania o l’Albania, tanto per fare dei nomi, abbia pensato, con la complicità non necessariamente disinteressata dei responsabili del governo europeo, di favorire lo spostamento di buona parte dei propri cittadini più poveri ed indesiderati in altre aree europee come Italia, Francia, Spagna? Quanto ai gruppi etnici extraeuropei che giungono sulle coste europee e in particolare italiane, le considerazioni che generalmente vengono fatte non sono forse molto diverse trovando esse anche in questo caso il loro fulcro nella convinzione che Europa, sistema bancario occidentale, Fondo Monetario Internazionale e tutta una galassia di associazioni private finanziariamente forti, dovrebbero aiutare concretamente quanto meno i Paesi gravitanti sul bacino del Mediterraneo a sviluppare in modo autonomo la propria economia, le proprie forze produttive e le proprie strutture sociali, soprattutto in funzione della progressiva elevazione economico-sociale delle loro classi o dei loro ceti più deboli o del tutto non abbienti, proprio o anche allo scopo di ridurre fortemente le massicce ondate migratorie verso il continente europeo che periodicamente avvengono in condizioni drammatiche e molto pericolose.

Il secondo modo di pensare è generalmente quello di tanti laici e di non trascurabile parte del mondo cattolico che invocano inderogabili princípi di civiltà o motivi religiosi altrettanto cogenti per sostenere che l’ospitalità all’immigrato, quale che sia l’origine di provenienza, debba essere garantita sempre e comunque e in forme quanto più possibile civili. Qui, da una parte, a farla da padroni sono il diritto internazionale, l’etica universale del genere umano che impone un senso di solidarietà verso ogni popolo, verso ogni gruppo etnico e ogni singola persona che necessitino sotto ogni latitudine di assistenza e protezione, e naturalmente, per quanto riguarda i cattolici, il messaggio evangelico che obbliga quanti vi aderiscono ad offrire il massimo di accoglienza amorevole e di aiuto anche materiale allo “straniero”.

Tutto ciò, poi, è generalmente accompagnato da note considerazioni paternalistiche, come per esempio quella relativa al fatto che un tempo fummo noi europei ed italiani a partire per terre lontane e a chiedere colà asilo ed ospitalità, e da motivazioni apparentemente religiose, non sempre prive di evidenti usi strumentali, come per esempio quella per cui anche Gesù fu un immigrato in Egitto, oltre che da valutazioni puramente strumentali del tipo: se non ci fossero gli immigrati, certi lavori da noi non li farebbe più nessuno!

Ora, a ben esaminare queste due posizioni e i modi in cui vengono articolandosi, ragioni e torti, al di là di facili e disinvolti luoghi comuni o di valutazioni unilaterali e riduttive, possono essere equamente riconosciuti ad ognuna di esse, proprio alla luce della Bibbia e del Vangelo. Infatti, da una parte, non c’è dubbio che gli immigrati non possano e non debbano godere, soprattutto in un’epoca di grave carenza di posti di lavoro, di trattamenti “privilegiati” rispetto a cittadini, e in particolare a cittadini giovani, poveri ed emarginati, disoccupati o sottopagati, dei Paesi o delle nazioni ospitanti o in cui i primi risiedano provvisoriamente o stabilmente. Già il Deuteronomio conteneva un precetto di carattere generale, e quindi valido tanto per gli indigeni che per gli stranieri, molto saggio: «Se vi sarà qualche tuo fratello bisognoso nella tua città, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso, anzi gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova» (15, 7-8), ove ovviamente il “fratello bisognoso” è biblicamente non il vagabondo o il nullafacente ma colui che si trovi in difficoltà pur facendo tutto il possibile per procurarsi lecitamente un vitto e un alloggio. E non c’è dubbio che, date le dimensioni crescenti del fenomeno immigratorio, la stessa Unione Europea se ne dovrebbe fare direttamente carico come un problema politico ed economico europeo dei prossimi decenni invece di esortare  ipocritamente e contraddittoriamente i vari Stati europei, e in particolare quelli finanziariamente più a rischio come Grecia Italia Spagna, a provvedere in proprio e in forme adeguate alle necessità materiali e civili degli immigrati bisognosi.

Per contro, in un momento storico in cui troppo spesso la figura dello straniero è oggetto di scontro ideologico tra i pro e i contro, non appare né ragionevole né evangelico negare aiuto all’immigrato operoso o volenteroso solo per un malinteso e nazionalistico senso di solidarietà verso i propri conterranei specialmente se essi non siano dotati di altrettanta buona volontà e nutrano aspirazioni irrealistiche o velleitarie.

Dall’altra parte, anche un abbraccio laico e/o religioso multiculturale e multirazziale aprioristico e indiscriminato, e perciò ideologico e astratto, verso gli immigrati, non appare per niente apprezzabile e giustificato, a dispetto di quel che vorrebbero dare ad intendere tante anime “candide” di credenti e non credenti molto più capaci di solidarietà a parole e lontani da concrete situazioni di disagio personale che non nei fatti e a stretto contatto di gomito con stranieri che non riescono ad inserirsi o non vogliono proprio inserirsi nel tessuto sociale del territorio che li ospita né interagire in alcun modo con la sua cultura e le sue stesse strutture produttive. Specialmente sgradevoli  quanto ipocriti o infondati sono al riguardo certi apparenti o presunti slanci ecumenici di tanti cattolici, il cui spirito di carità risiede spesso molto più nelle intenzioni che nelle opere, e certi plateali “attacchi” rivolti alla stessa comunità cristiana da parte di alcuni vescovi abituati a schierarsi dalla parte di zingari e rom, a prescindere da analisi oggettive e realistiche, e quasi sempre a favore di stampa e televisione.

Non ci si riferisce di certo a tanta parte di volontariato cattolico (da intendere nell’accezione più larga del termine) che lavora sempre seriamente e senza clamore, insieme a generose associazioni di volontari laici, accanto ai bisognosi di qualunque etnia e spesso proprio in mezzo ad essi e che merita pertanto il plauso e la gratitudine della stessa Chiesa di cui fa parte, la quale senza il suo qualificato e preziosissimo apporto rischierebbe di essere poco più di una comunità di credenti “tiepidi” e di testimoni senza testimonianza, di burocrati della fede, di ministri non particolarmente credibili del culto, di accademici della Parola di Dio abbastanza lontani dai tumulti della vita reale.

Già: zingari e rom, cui si può aggiungere un non trascurabile numero di sbandati albanesi, rumeni, slavi, i cui stili di vita differiscono spesso profondamente dalla stragrande maggioranza dei componenti di altri gruppi etnici come cinesi, russi, polacchi, filippini, pakistani e via dicendo, sempre regolarmente in grado di procurarsi un lavoro o di avviare un’attività commerciale e produttiva o quanto meno di darsi da fare per non campare solo di elemosina. Ci sono immigrati ed immigrati e il giudizio morale, comunque lo si voglia articolare, non può non tenerne conto. Alcuni, è vero, come rom o zingari, si portano spesso dentro una storia ultrasecolare di persecuzione e di emarginazione, a causa della quale molti loro limiti non possono non essere compresi e scusati, ma anche una cultura di esasperata chiusura etnica, di sospetto atavico verso gli “altri”, di vita nomade e parassitaria ad un tempo, più che una cultura di relazione e di lavoro operoso, di sia pur faticosa apertura a forme lecite e legittime di guadagno come a forme non meramente fisiologiche di sopravvivenza e a pratiche di vita non volte al soddisfacimento immediato ed esclusivo di bisogni istintivi: tutte cose che rendono obiettivamente e umanamente difficile la convivenza o una vita di relazione con le popolazioni con cui taluni di quegli immigrati vengono volta a volta in contatto.

A certi nostri fratelli immigrati, generalmente parlando, è molto difficile far capire (e in tal senso i cattolici si impegnano ben poco o si impegnano solo polemicamente) il valore di un lavoro umile ma onesto, poco redditizio ma più dignitoso del mero accattonaggio, l’importanza del fatto che i loro bambini imparino a frequentare la scuola anche al fine di poter sperare concretamente nella possibilità di mutare un giorno il loro destino di povertà e di abbandono, l’interesse per certi beni immateriali come lo studio o la preghiera oltre che ovviamente per quelli materiali tante volte decisivi per poter sopravvivere.

Bisogna capire, in altri termini, che l’accoglienza, l’amicizia, si costruiscono non da una sola parte, dalla parte di chi riceve e ospita, ma da ambo le parti, anche se l’accogliente ha una responsabilità certamente maggiore di quella di chi viene accolto. La carità non è tanto questione di continua elargizione di denaro o di caseggiati sotto forma di elemosina, pur doverosa nei limiti delle effettive possibilità di ognuno, la quale in ogni caso sarebbe assolutamente inadeguata a risolvere il problema, quanto questione di seria e fattiva volontà di promuovere graduali e intelligenti forme di inserimento umano, morale, economico-produttivo, culturale e sociale a favore di immigrati non dotati di spiccata capacità di iniziativa o non capaci di interagire autonomamente e proficuamente con il circostante ambiente sociale. Ma la carità, sia detto chiaramente, non può essere neppure il trattamento di favore che venga concesso all’immigrato solo perché immigrato, e quindi politicamente redditizio per qualche partito, piuttosto che all’indigeno che abbia più titoli di lui per esercitare una determinata attività lavorativa o per abitare in una casa decente.

La carità si esercita non a dispetto dei diritti, delle leggi e delle ordinarie opportunità presenti in una società, a meno di clamorose violazioni politiche di fondamentali diritti naturali, ma nel rispetto di leggi, diritti, normali opportunità sociali, e soprattutto nel rispetto di un universale principio etico egualitario di origine biblico-evangelica secondo cui tutti devono avere secondo le proprie necessità ma anche secondo le proprie capacità e i propri meriti, anche se un’applicazione coerente e radicale di tale principio verrebbe implicando un notevole mutamento degli stessi sistemi economici e sociali occidentali tutt’ora esistenti. E in effetti la carità cristiana, che è frutto di cuore e di intelligenza ad un tempo, non ha nulla di paternalistico, nulla di retorico o di appariscente, nulla di luminosamente mediatico, ma è un modo rigoroso, riservato e silenzioso, talvolta scomodo o compromettente, e sicuramente efficace se non vincente di stare dalla parte di chi ha meno di noi o è meno fortunato di noi, tenendo sempre presente che ognuno di noi è “un mendicante” nei confronti di Dio.

E anche lo straniero, biblicamente ed evangelicamente parlando, deve essere accolto, vestito e sfamato, ove egli sia o si sforzi almeno a sua volta di essere rispettoso delle leggi e delle regole civili vigenti nel paese cui sia approdato e non pretenda di ottenere a tutti i costi, ovvero senza dover faticare o senza doversi sottoporre a trafile asfissianti cui in molte parti del mondo si sottopongono ogni giorno milioni di persone di tutte le razze e di tutte le aree geografiche, quello che non aveva potuto, saputo o voluto ottenere in patria. Dio protegge sempre lo straniero: con la stessa misericordia e la stessa giustizia con cui protegge in genere i più poveri e i più deboli, come i bambini e le vedove. E questo è uno dei punti focali su cui ognuno di noi sarà tenuto a rendergli conto.

Il rapporto con l’altro, con l’estraneo, con il diverso, pur oggetto di sofisticate e a volte oscure e involute teorizzazioni filosofiche (si pensi a quelle di Buber e Levinas, Ricoeur e Derrida, Cacciari e Kristeva, solo per fare dei nomi), continua ad avere nel contesto biblico-evangelico, opportunamente studiato e approfondito, la sua fonte primaria di comprensione conoscitiva e di esplicazione critico-concettuale. Laddove però è il caso di citare e ricordare la giusta avvertenza di un fine teologo quale il gesuita Pietro Bovati: «Il ricorso alla Scrittura non deve comunque essere falsato dal desiderio di trovarvi delle ‘soluzioni’ ai nostri problemi, nel senso di leggervi risposte pre-confezionate ai quesiti odierni. La Bibbia non vuole come lettori dei bambini, a cui sarebbe semplicemente chiesto di ripetere quanto è scritto e di eseguire alla lettera il suo dettato normativo; essa si rivolge invece a degli adulti, che hanno il dovere di interpretare le potenti suggestioni che vengono dai suoi racconti e dalle sue pagine normative, cosí da favorire orizzonti di accoglienza, prima di tutto come apertura mentale e poi come ospitalità nei confronti di chi si presenta, appunto, come straniero» (Lo straniero nella Bibbia, immesso in rete l’8 settembre 2011).

Niente di scolastico e di scontato, insomma, ma una ricerca ancora e sempre aperta di verità e umanità, una ricerca continua e assillante di cosa sia giusto fare o non fare ogni volta che si abbia a che fare con il prossimo, sia esso il connazionale bisognoso cui siamo accomunati magari dalla stessa fede, sia esso lo straniero di qualunque fede e di qualunque etnia che sia in attesa di essere aiutato a superare le sue difficoltà e le sue problematiche quotidiane.

I cattolici e l’omosessualità

Pare che anche tra i cattolici stiano crescendo rapidamente coloro che vorrebbero che la Chiesa cambiasse il suo tradizionale insegnamento sull’omosessualità. Questi sprovveduti ed insani sedicenti cattolici che dicono di non capire perché mai il matrimonio debba essere fondato esclusivamente sull’unione di un uomo e una donna e non su persone dello stesso sesso, vorrebbero poter conciliare nella loro vita l’inconciliabile: ovvero Cristo e il suo benedicente “crescete e moltiplicatevi” con il demonio e il suo primordiale ed atavico invito ad assecondare i propri desideri nel segno di una ineliminabile libertà personale.

Molti di questi cattolici “disubbidienti” ostentano una convinzione: che la gerarchia ecclesiastica abusi del suo potere religioso per imporre norme comportamentali che sarebbero lontane dalla logica evangelica. “Noi siamo credenti, non creduloni”: sembra vogliano dire! Su un noto giornale religioso (‘Toscana Oggi’) una certa Cinzia di Milano ha scritto recentemente: «Ma perché i cattolici quando si sfiora l’argomento omosessualità diventano incapaci di ragionare e di argomentare?…Sono convinta che viviamo in un tempo di grande oscurantismo in cui alla caduta vertiginosa delle istituzioni e dei poteri religiosi corrisponde un crescendo di fanatismo, che sostituisce l’idolatria verso la famiglia e il papa alla fede in Cristo e nella Pasqua».

In fin dei conti, continua questa lettrice, la stessa Chiesa non è stata forse oscurantista non troppo tempo fa quando in Paesi molto evoluti dal punto di vista civile essa si irrigidiva paranoicamente «se si metteva in discussione il diritto divino a possedere schiavi, o la parità di diritti delle donne rispetto agli uomini, ed altre situazioni meramente culturali, soggette al mutamento del tempo e dei costumi, e, grazie a Dio, alla sempre maggiore comprensione di ciò che lo Spirito non smette di dire alle Chiese»? Capite la grande pertinenza di questo paragone? Capite che è solo per bigottismo che la Chiesa ancor oggi non riesce a comprendere che l’omosessualità è una situazione meramente culturale destinata, come tante altre cose del passato, a mutare? Ma soprattutto bisogna rendersi conto, secondo Cinzia di Milano, che è lo Spirito a dire alle Chiese, pur se inascoltato, che la loro posizione in fatto di omosessualità è falsa e dispotica.

Davanti a posizioni, pare molto diffuse, come questa, è assolutamente inutile tentare di osservare «come i media manipolano l’opinione pubblica fornendo un’immagine “normalizzata” dei rapporti omosessuali, dipingendo i gay come vittime, demonizzando chi si oppone alle unioni tra persone dello stesso sesso». Anche perché, nel frattempo, accorrono a dare man forte a questi eroici fratelli e sorelle cattolici alcuni laici sempre pronti ad intervenire dovunque ci sia bisogno del loro acume per far progredire la verità, il senso di umanità e il diritto. Un certo Luca di Bologna, per esempio, sempre sulla rivista sopra citata, scrive di essere «davvero stanco di ascoltare queste litanie vuote da persone che hanno scelto liberamente la via della castità, poi magari non la praticano neppure loro, ma la impongono come giogo a tutti gli altri», come se ci fosse un nesso logico sia pure solo embrionale tra l’ipocrisia di chi per motivi religiosi o esistenziali avrebbe scelto la via della castità senza peraltro praticarla e il fatto auspicato che per questo stesso motivo il matrimonio non dovrebbe essere applicato solo agli eterosessuali ma esteso anche agli omosessuali.

Se uno è ipocrita, tale è e deve risponderne a Dio e alla sua coscienza. Ma perché mai la doverosa lotta alla ipocrisia dovrebbe implicare la legittimazione di pratiche omosessuali che vorrebbero spingersi sino al loro inquadramento in un rapporto di tipo matrimoniale? Logica proprio non ce n’é. Alla base di siffatti modi di ragionare o sragionare c’è invece un’evidentissima intenzione perversa volta a intorbidire le acque, conferendo legittimità morale ad abitudini di vita, a pratiche comportamentali, a teorizzazioni politiche e pseudoculturali, che in nessun’altra categoria possono essere annoverate se non in quella classica delle più antiche e funeste turpitudini dell’umanità.

Che è ciò che non potrà essere certo smentito dall’ardore “scientifico” con cui un altro laico o laica come Patti scaglia la sua invettiva contro i ciechi pastori cattolici: «Perché continuate a parlare di ciò che non conoscete? Perché continuate a tenervi incatenati ad argomentazione insufficienti, demagogiche, non scientifiche per dimostrare che il vostro fastidio viscerale e irrazionale per altri diversi da voi è giustificabile? Siete ciechi, guide di ciechi, conducete il gregge che vi è affidato verso il baratro».

Purtroppo, quello che tanti cattolici à la page e tanti laici illuminati fanno molta fatica ad ammettere è che l’ipocrisia potrebbe riguardare anche loro, ovvero la loro incapacità morale di rendere conto rigorosamente a se stessi e agli altri delle vere ed inconfessate ragioni che probabilmente stanno alla base delle loro presunte battaglie civili. Malvagi sarebbero, secondo loro, quei cattolici che si ostinano a giudicare l’omosessualità come malattia e il cosiddetto matrimonio omosessuale come aberrazione, mentre quest’ultimi non ritengono vi sia nulla di malvagio nel ricordare vigorosamente e onestamente che il modo migliore per valere umanamente e spiritualmente non è di razionalizzare le proprie debolezze dicendo che non lo sono ma di accettarle come tali senza assurde rivendicazioni etico-giuridiche e di vivere il più dignitosamente possibile quale che sia la nostra specifica condizione psico-fisica.

Quanto poi alla “scientificità” invocata dai teorici della natura non patologica della omosessualità e della legittimità morale delle pratiche omosessuali, è del tutto evidente come essi parlino a vampera dal momento che l’omosessualità rientra tra quelle numerose materie che si prestano ad essere facilmente manipolate e strumentalizzate, per cui obiettivamente non ci si può molto fidare degli scienziati e delle associazioni scientifiche da essi invocati. A ciò si deve aggiungere che ormai, dopo secoli di progressi scientifici ma anche di disillusioni scientifiche, risulta semplicemente irragionevole e quasi ridicola una fede assoluta nelle scienze, comprese ovviamente quelle non esatte, tant’è vero che persino su argomenti meno opinabili di quello relativo all’omosessualità si sentono luminari o presunti tali affermare cose totalmente diverse. Cosí come, va precisato, irragionevole e talvolta patetico è il richiamarsi di quelle menti evolute, che mettono in discussione e anzi irridono testi sacri e credenze religiose, a tutte quelle pompose istituzioni ufficiali internazionali o sovranazionali che sono in realtà ambienti molto meno “puri e incontaminati” di quanto si potrebbe pensare ovvero centri di studio e di ricerca ma soprattutto di potere “con finalità tutt’altro che commendevoli”.

Se si vuole, è altrettanto vero, a prescindere dalla spiritualità di ciascuno, che non poca parte delle istituzioni religiose, ufficiali e non, esistenti al mondo, rientrano nella categoria della “impostura”, ma “una cosa non esclude l’altra”. E, dunque, a tutti coloro, ivi inclusi purtroppo molti nostri fratelli e sorelle cattolici, che, in buona o in cattiva fede, ma alla fine pur sempre irresponsabilmente e colpevolmente, danno sostegno, con argomentazioni pseudocaritatevoli e pseudoumanitarie, a idee tanto fallaci quanto dannose alla società umana oltre che alla salute spirituale di tanti singoli individui, i cattolici che ogni giorno si rivolgono a Gesù e a Maria per il bene del mondo e per il bene proprio, i cattolici che amano la Chiesa di Cristo anche o soprattutto quando essa è in difficoltà per sue proprie debolezze e responsabilità, non devono stancarsi di ripetere, pur senza mai perdere di vista la distinzione tra l’errore e l’errante, che una perversione è una perversione e il Signore non consentirà a nessuno di conseguire impunemente fini perversi! Ove, naturalmente, non si intende alludere a tanti fratelli e sorelle omosessuali che riconoscono onestamente il loro handicap e sanno affrontare ugualmente la loro vita con tanta serenità e dignità.

I cattolici non hanno bisogno di discorsi troppo complicati per capire che gli esseri umani non si amano per categorie ma nella loro concreta e inconfondibile individualità. Essi ritengono quindi un non senso il voler parlare di omosessuali ed eterosessuali per rilasciare in astratto patenti di normalità ai secondi e di anormalità ai primi, perché in realtà esistono tanti eterosessuali anormali e tanti omosessuali normali quanto a vita morale e a capacità di esercitare correttamente e proficuamente le proprie qualità intellettive e morali. I cattolici possono sentirsi spiritualmente più vicini a un omosessuale piuttosto che ad un eterosessuale se il primo, diversamente dal secondo, è una persona sensibile, onesta e capace di distinguere tra vero e falso, tra la virtù e il vizio. Tutto dipende da chi abbiamo davanti, da colui o da colei con cui concretamente entriamo in relazione. Detto questo, i cattolici degni di questo nome hanno una certezza: quella non già semplicemente di pensare ma di sapere che esiste una Verità con la V maiuscola di cui le verità scientifiche (quelle reali e non spacciate per tali), pur importantissime, sono frammenti, frammenti significativi e oltremodo utili alla nostra vita, ma pur sempre frammenti, per cui i beneficiari di un incontro non fugace o occasionale ma stabile e reiterato con quella Verità non possono non essere immuni da dubbi e perplessità su questioni umanamente, moralmente e socialmente cosí rilevanti come quella qui discussa.

Ci sono, tra i cattolici, alcuni che contrappongono la Chiesa alle singole chiese, per sottolineare la ipotetica sordità della prima e lo spirito profetico e solidale delle seconde. E’ sperabile che, entro certi limiti, Chiesa centrale e chiese territoriali stiano fra esse in un fecondo rapporto dialettico, anche se, da quel che si legge e si esperisce quotidianamente, non di rado le chiese locali si prestano ad interpretazioni sentimentalistiche e riduttive quando non manifestamente gratuite ed arbitrarie del vangelo che possono risultare ora troppo repressive, ora troppo permissive. Come avviene, per esempio, nel caso di quelle strane e non episodiche richieste di fedeli tendenti ad ottenere dai propri parroci la celebrazione della Santa Messa esclusivamente per omosessuali.

Dovrebbe essere chiaro che la Santa Messa si celebra sempre per tutti, non per qualcuno in particolare. Di certo, non può essere celebrata per chi, attraverso essa, vorrebbe acquisire maggiore visibilità sociale per sé e le proprie perversioni. In quest’ultimo caso, quei sacerdoti che accettassero di celebrarla, sarebbero semplicemente da espellere dalla comunità ecclesiale, la quale dev’essere misericordiosa verso coloro che riconoscono i propri peccati ma non verso coloro che ai propri peccati vorrebbero si riconoscesse carattere di “normalità”.

Una volta, proprio nell’esprimere questo concetto in un pubblico dibattito, mi sono sentito rispondere, non saprei se da un laico o da un credente, che “quando leggo commenti come il tuo mi vengono i brividi, la nausea; il solo pensiero che esista gente esaltata come te che in nome di una religione mette mano alla torcia e al forcone per infilzare il prossimo per poi vomitare parole come pace e fratellanza mi fa venire il voltastomaco. Duemila anni di medioevo”.

La mia risposta, che estendo qui a tutti quei lettori che dovessero dissentire da ciò che si è venuto fin qui sostenendo, fu ed è la seguente: fatevi pure venire i brividi, la nausea e il voltastomaco: può darsi che siano sintomi della vostra possibile guarigione, sperando che non siano invece sintomi della vostra inguaribile malattia. Se i miei commenti vi suscitano queste reazioni, è evidente che non siete preparati a commenti di questa natura. Ma se siete allergici a certi commenti, non è detto che la colpa sia di chi li fa, perché può anche darsi che sia di chi non è in grado di capirli e di assimilarli. Però, con un pò di pazienza si può cercare di migliorarsi. Duemila anni di medioevo? Non sapete che anche il Medioevo ha prodotto grandi opere di civiltà e di pensiero?

D’altra parte, teorici oltranzisti e violenti dell’omosessualismo come per esempio Franco Grillini e Paola Concia, non concedono neppure che, contrariamente a quanto ammesso dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, l’omosessualità non sia immutabile, condannando la libertà di scelta di quei soggetti  omosessuali che domandano un aiuto per mettere ordine nella loro vita sessuale, ritrovando magari una identità personale che si credeva perduta. Questi personaggi, rappresentativi di tutta un’umanità non solo frustrata ma violenta, tentano di intimidire non solo quegli omosessuali che desiderano guarire dalla loro omosessualità ma anche coloro che sono disposti ad aiutarli. Ed è questo clima violento che lo psicologo Robert Perloff, un ex presidente della famosa APA (American Psycological Association), ovvero della Mecca o della Bibbia scientifica di tutti gli omosessuali fanatici del pianeta, ha inteso stigmatizzare con la sua adesione nel 2004 alla Narth, associazione di psicologi che si prende cura di persone con omosessualità indesiderata.

Nel 2011 un altro ex presidente dell’APA, e ancora più noto e influente di Perloff, cioè il dott. Nicholas Cummings, ha preso posizione proprio contro l’associazione di cui è stato presidente accusandola di posizioni politiche e non scientifiche. Dalla sua relazione ufficiale apparsa sul sito www.narth.com, ovvero la Società psichiatrica cui anche Cummings ha aderito, si apprende che egli dubitava da diverso tempo, come scienziato, della correttezza del gruppo direttivo dell’APA, influenzata più dalla politica, e dal politicamente corretto cosí caro a talune potenti lobbies americane, che dalla scienza. Insomma, anche dal punto di vista scientifico non pare proprio che gli omosessualisti possano rallegrarsi.

Infine, un’ultima precisazione. E’ invalsa la singolare abitudine di considerare sempre e comunque di destra, cioè un retrogrado e un reazionario, quel cattolico che dice no a divorzio, aborto, unioni omosessuali, e via dicendo. Non che abbiano importanza certe definizioni e certe categorie culturali, dal valore pur sempre relativo, di questo nostro mondo, ma è solo per rilevare il semplicismo estremo di determinati giudizi e valutazioni, per sfatare la banalità di taluni luoghi comuni, che è qui opportuno aggiungere quanto segue. Chi scrive, posto che ci si possa in qualche modo intendere attraverso l’uso delle etichette di cui sopra, non si è mai sentito di destra quanto piuttosto di sinistra, anche se di una sinistra cristiana che non ha mai visto compiutamente rappresentata né nel cattolicesimo politico e istituzionale, né nei movimenti cattolici di sinistra né nelle formazioni tradizionali e canoniche della sinistra politica.

Come uomo di sinistra che trova oggi il suo principale punto di riferimento nel Vangelo di Cristo, penso che le pratiche omosessuali non siano né normali né legittime, pur esprimendo ferma riprovazione verso coloro che usano violenza privatamente o pubblicamente verso gli omosessuali, specie ove si tratti di omosessuali civili e non provocatoriamente esibizionisti.

Non di sola economia vivrà l’uomo

Citazione

Può darsi che mi sbagli, ma forse nella storia dell’umanità non era mai successo che a dominare ossessivamente o paranoicamente sul piano culturale fosse un pensiero unico come quello odierno, ovvero un pensiero e un sapere economici che non si preoccupano minimamente di interagire con altri ambiti fondamentali della cultura ma che ignorano completamente e la cultura e le persone. Qui ormai si ha a che fare con un sapere economico di tipo tecnicistico completamente avulso da qualsivoglia concezione filosofica e religiosa della vita e del mondo, e che questo sapere sia non solo predominante ma quasi legittimato a farla da padrone e ad esercitare una vera e propria dittatura su ogni ragionamento o argomentazione extraeconomici è dimostrato dal fatto che gli stessi partiti della sinistra, un tempo vere e proprie fucine di idee e progetti alternativi all’“ordine di cose esistente”, sembrano ormai segnati indelebilmente da una sorta di deficit permanente di riflessione teorica, diciamo pure di analisi e proposte filosofiche capaci di fronteggiare il momento presente e di imboccare coraggiosamente delle strade nuove o antiche, se si vuole, ma tali da sbarrare il passo, costi quel che costi, ad ingordi potentati finanziari e a logiche economiche semplicemente aberranti che rischiano a questo punto di prendere il posto dei meccanismi biologici della teoria darwiniana della selezione naturale.

D’altra parte, tutti quei grandi economisti che ormai fanno sempre parlare di sé, procedendo il più delle volte a tentoni, spesso o quasi sempre sbagliando previsioni, e mai o quasi mai ammettendo i propri errori che tendono anzi a giustificare nei modi più bizzarri o strampalati, sono gli ideologi di un nuovo sistema internazionale e sovranazionale di potere non solo economico ma decisamente politico che ha deciso di creare un nuovo ordine mondiale a struttura rigidamente finanziaria e classista attraverso una progressiva riduzione delle tradizionali prerogative degli Stati, a cominciare da quelle della loro indipendenza e sovranità. Si sente infatti sempre più insistentemente parlare di cessioni di sovranità nazionale senza che peraltro i partiti politici avvertano la necessità morale e politica di opporsi in modo indignato e risoluto a questa tragica se non addirittura imminente eventualità.

Non ci sono intellettuali, non ci sono filosofi, non ci sono giuristi capaci di dimostrare che ci stiamo avvicinando ad una catastrofe sociale, morale, politica, oltre che economica e finanziaria, di proporzioni inaudite che rischierebbe di mettere in discussione persino la struttura antropologica dell’umanità, alterandone irrimediabilmente sentimenti e princípi di convivenza e di socialità. Come ha detto bene la filosofa Francesca R. Recchia Luciani, nella crisi che stiamo attraversando l’essere umano, ed è la prima volta che ciò accade storicamente, non conta assolutamente nulla, perché quel che conta sono l’inflessibilità dei numeri e delle cifre non importa se calcolati correttamente o scorrettamente, l’assoluta ineludibilità del debito pubblico non importa se derivante da criteri contabili morali e giuridici legittimi o arbitrari, l’inevitabile commissariamento ovvero asservimento delle nazioni inadempienti e insolventi: «Le persone, oggi ridotte alle categorie di produttori e consumatori, sono stritolate dal meccanismo letale dei grandi poteri finanziari e non è un caso che nei diversi Paesi si salvino le banche e non le persone. Quello che vige è un sistema veterocapitalista di controllo degli esseri umani che non lascia respiro. Per questo Marx risulta più attuale che mai, e oggi può a ragione essere considerato il più grande rivoluzionario di tutti i tempi» (intervista di Virginia Perini in “Affaritaliani.it”, 4 maggio 2012).

E quel che qui non si può e non si deve mancare di sottolineare è che responsabili di questa situazione non sono solo le destre ma anche le sinistre le quali «hanno avuto un progetto che poteva sembrare anticapitalistico, ma che di fatto non lo è stato mai», perché mai esse hanno dichiarato guerra sul serio ad un sistema fortemente privatistico, fondato sul profitto illimitato o indeterminato e sullo sfruttamento della forza lavoro in molti campi produttivi e di natura sia tecnica e manuale che intellettuale, come anche sulla produzione ad oltranza di merci e sulla contemporanea mercificazione di ogni più intimo aspetto della vita morale delle persone: «Porre gli esseri umani davanti al sistema economico», osserva polemicamente e giustamente la professoressa Recchia Luciani, docente di filosofia ed epistemologia del Novecento presso l’università di Bari, «non è un progetto utopico, è una rivoluzione concettuale fattibile». Ma le sinistre hanno fatto finta di non saperlo, pur tra proteste e contestazioni ipocrite antisistema, non tanto per cecità teorica quanto soprattutto per inerzia morale e compromissorio opportunismo politico.

Spiace peraltro constatare che anche nelle file cattoliche, dove dovrebbe essere ancora vivo il ricordo del comunitarismo economico e sociale delle più antiche comunità cristiane, e ancora presente un senso non meramente formale o giuridico dell’eguaglianza tra gli uomini, nonché una capacità morale di promuovere la valorizzazione delle capacità e dei meriti personali in funzione del bene e del benessere collettivi e infine una sincera e granitica fede religiosa nell’avvento di un mondo più giusto e più libero e quindi meno inquinato da egoismi e prepotenze di ogni genere, non ci siano forse personalità capaci di organizzare un movimento culturale e politico che, nell’esplicito nome del Cristo delle beatitudini, scenda risolutamente nell’arena politica per riorientare radicalmente i processi politici in atto e la stessa mentalità politica dominante.

Per la studiosa citata, in un contesto cosí disastrato sarebbe indispensabile il ritorno di un sapere filosofico aggressivo sia dal punto di vista critico che dal punto di vista etico e morale: «la filosofia è fondamentale perché solo il suo sguardo complessivo può aiutare a riflettere in maniera completa e sensata su quella realtà che deve essere trasformata dalle idee, sui meccanismi reali di funzionamento della vita sociale, portando al centro del cambiamento l’essere umano, i suoi bisogni e le sue necessità». Ma per i credenti non può non accompagnarsi ad una vigorosa rinascita dell’impegno filosofico un nuovo modo di intendere e praticare la fede in Cristo: un nuovo modo rispetto ad una corrente prassi spirituale e religiosa troppo abitudinaria e particolarmente flemmatica in ordine a questioni divenute cruciali della vita economica e sociale e della vita tout court; ma un modo sempre antico in quanto sia conforme o più conforme alla fede dei nostri più antichi padri per i quali tanto gli spazi privati quanto gli spazi pubblici furono ambiti in cui venne esercitandosi con identica passione la loro fede.

Anzi, per i credenti che ritengono giustamente ed evangelicamente innaturale vivere di sola economia e che percepiscono il “regno di Dio” non solo come una realtà metastorica ma anche come un urgente e indifferibile compito di umanizzazione di questo mondo, il destino della ricerca filosofica della verità, dell’amore e della giustizia tra gli uomini e per gli uomini non potrà rivelarsi proficuo al di fuori di un rapporto sempre più stretto di collaborazione con la fede in Colui che solo potrà salvarci da tutte le patologie della vita e della storia.

Filippo Trignani

Il Vangelo e la politica

img1Quando si sente dire, anche in ambito cattolico, che Dio con la politica non c’entra niente, che il suo messaggio di salvezza riguarda l’uomo nella sua realtà integrale e non questo o quel determinato aspetto della sua esistenza, che il mondo come la politica passano mentre la Parola di Dio rimane, non sempre forse ci si rende conto che, contrariamente all’intenzione di magnificare il divino e il suo universale piano di salvezza, il rischio è proprio o ancora quello di vanificare o di ridurre la portata dell’incarnazione e della risurrezione di Dio in Cristo. Perché è vero che Cristo non è venuto a salvare l’uomo sotto l’aspetto politico o quello economico o quello sociale ma ben al di là di ogni sua particolare condizione umana sia dal punto di vista politico che economico e sociale e via dicendo, e tuttavia è del tutto evidente che questo non implica affatto che la sua opera salvifica non riguardi e non comporti un mutamento qualitativo e liberante, una progressiva trasfigurazione spirituale di tutte le dimensioni essenziali in cui la stessa vita umana e per l’appunto nella sua interezza viene manifestandosi e svolgendosi.

E’ semplicemente errato pensare che, siccome quel che conta alla fine è la salvezza eminentemente spirituale dell’uomo, allora l’impegno degli uomini non debba esercitarsi anche in tutti i campi della sua vita spirituale ma fondamentalmente sul piano religioso, come se la religiosità significasse disinteresse o tiepidezza per tutto ciò che è costitutivamente umano. Al contrario, proprio perché il nostro compito dev’essere quello di trasformare profondamente la nostra vita personale, non potremo sottrarci, ognuno s’intende nei limiti delle sue possibilità e delle sue attitudini, al dovere di tendere ad una progressiva trasformazione della nostra vita interiore in rapporto a tutti i particolari contesti della nostra complessiva esperienza di vita.

Ancora tanta gente pensa che il vangelo non abbia una sostanziale incidenza sulla politica e che dal vangelo non derivino specifiche opzioni politiche in quanto esso sarebbe funzionale alla salvezza di ciascuno indipendentemente dalle sue scelte e dai suoi atti politici ed in quanto è funzionale a quel Regno di Dio di cui possono far parte tutti coloro che sinceramente avranno cercato di rivedere continuamente la propria vita in direzione dell’amore e della giustizia verso tutti e verso i nostri stessi nemici. Certo: è cosí.

Ma, appunto, il Vangelo, in quanto insieme degli insegnamenti di Gesù, non è equidistante, non è neutrale rispetto alle scelte che ognuno di noi compie non solo ma anche in sede politica. Il Vangelo predica il perdono incondizionato e dunque, a prescindere dalla correttezza del nostro modo di credere in Dio e di operare in società, predica la divina disponibilità a riabbracciare quanti si siano onestamente sforzati di convertire la propria vita alla parola di Verità del Cristo, laddove questa parola viene altresì articolandosi in uno spirito molto esigente ed  inesauribile di carità e di giustizia. Dunque, il Vangelo indica una precisa direzione di marcia da cui non sarà possibile derogare a colpi di sottili argomentazioni dialettiche o di mistificanti razionalizzazioni.

Evangelicamente, uno può essere monarchico ma a condizione che la sua fede monarchica non si traduca poi in una esaltazione indiscriminata del monarca e in una difesa ad oltranza dei diritti di Cesare contro i diritti del supremo e trascendente Monarca e contro i diritti del popolo; un altro può essere conservatore ma a condizione che la difesa della tradizione e di determinati assetti politici e sociali di potere non coincida con una rimozione dell’obbligo morale di favorire innovazioni necessarie al bene comune e cambiamenti richiesti da una legittima volontà popolare di maggiore partecipazione decisionale alla gestione del bene e dei beni pubblici; un altro può essere progressista, ma senza pretendere di violare, nel nome dell’emancipazione sociale, princípi naturali ed etici di comprovata e consolidata validità biblico-evangelica come la sacralità della vita umana in tutte le sue forme e le sue fasi, l’indissolubilità del matrimonio e la difesa della famiglia nella sua unica ed esclusiva struttura eterosessuale, un diritto sia pure relativo a possedere beni privati, un rispetto non idolatrico verso qualsivoglia forma di Stato, una ricerca onesta e permanente di forme non demagogiche e sempre migliori di uguaglianza giuridica e giustizia sociale. E via dicendo.

In altri termini, aver fede nel vangelo significa credere che in ogni cosa che facciamo, in ogni nostro pensiero e in ogni nostro atto, quali che siano gli ambiti in cui ci troviamo ad operare (familiare, sociale, economico, politico, ecclesiale, monastico, genericamente interpersonale, strettamente intimo e personale, ecc.), non possiamo fare a meno di chiederci senza infingimenti di sorta e in modo assolutamente rigoroso: qui ed ora, al posto mio, che farebbe o come farebbe nostro Signore Gesù? E, se anche a volte non è affatto facile discernere tra giusto ed ingiusto, ciò non ci esime in nessun caso dall’assumerci precise responsabilità al cospetto di Dio.

Bisogna dire con molta franchezza che qui il problema non sarà quello di stabilire in astratto se i cristiani debbano essere tradizionalisti o progressisti e se la Chiesa debba o non debba allearsi con il mondo moderno. I cristiani invece saranno tradizionalisti o progressisti a seconda dei casi e quindi non acriticamente. Da un punto di vista politico, per esempio, saremo cristiani tradizionalisti o progressisti nel ritenere che la comunione dei beni materiali e spirituali debba essere, come evangelicamente è, un principio fondante di una comunità e di una società cristiane? Direi che saremo sia tradizionalisti, perché si tratta di un oggettivo principio evangelico assai ricorrente seppure con diverse tonalità nella santa tradizione della Chiesa, sia progressisti perché farsi fautori di questo principio significa entrare il più delle volte in rotta di collisione con molteplici forze sociali e politiche di segno non di rado anche cristiano e cattolico che resistono all’idea e al progetto di una equa divisione dei beni in uno spirito di fraterna e caritatevole condivisione.

Siamo sicuri, per esempio, che proprio su questo terreno la modernità, per quanto disseminata di errori e di giudizi fallaci, non possa offrire contributi più precisi, qualificati e attendibili anche in sede religiosa, di quelli spesso forniti da prese di posizione prevalentemente propagandistiche e demonizzanti della Chiesa cattolica in genere? Avrà avuto ragione l’insigne studioso e sacerdote cattolico argentino padre Julio Meinvielle nell’accusare il mondo moderno di essere morto «da laicista e da ateo» e di avere «le sue radici nel fatto che cerca in primo luogo la realtà temporale, e così rimane senza la realtà eterna e finisce addirittura per perdere la realtà temporale» (Si allude alla sua ponderosa opera su “Concezione cattolica della politica” pubblicata recentemente da Edizione Settecolori 2011, curata da padre Arturo A. Ruiz Freites e molto considerata in parte del mondo cattolico); ma, parliamoci chiaramente e senza ipocrisia, questa stessa considerazione non può valere anche per la stessa prassi storica della Chiesa e del mondo religioso in genere? E’ solo la rivoluzione borghese-capitalista e la rivoluzione proletaria-comunista che hanno corrotto la politica e l’economia, come sostiene Meinvielle, o lo stesso effetto non è stato per caso prodotto da tante stagioni reazionarie della storia umana e della nostra stessa contemporaneità magari nel nome della democrazia, del moderatismo e della pace sociale?

Si comprende bene che specialmente un uomo di Chiesa sia portato ad accentuare molto la centralità di Dio nella vita e nella storia degli uomini; quello che si comprende meno è che lo si voglia fare assolutizzando il valore dei propri strumenti di analisi e di giudizio e lasciandosi andare a generalizzazioni e colpevolizzazioni francamente unilaterali o arbitrarie. Come la seguente: «Il problema primo dell’uomo è il destino eterno dell’uomo. Il problema primo dell’uomo è la situazione dell’uomo verso Dio. E’ un problema interiore, un problema che si trova entro l’anima, che non si risolve dandogli da mangiare, ma si risolve dandogli Dio». Bene, ma non sarà forse un modo per dire ancora una volta che l’uomo che ama Dio non deve vivere anche di pane e non deve pensare tanto a come procurarselo sia pure con l’aiuto di Dio stesso?

Maurizio Tenuta

Governo tecnico e fede cattolica

George Orwell, lo scrittore britannico che ha lanciato il concetto di “grande fratello”, scriveva: «Sottraete alla Libertà il Senso e avrete in pugno un concetto da poter utilizzare per asservire nazioni e popoli a vostro gradimento». Nella nostra epoca è venuto imponendosi una concezione paradossale della libertà, secondo cui quest’ultima è un concetto legale, puramente “tecnico”, avulso da ogni concreto e specifico contesto esistenziale. Oggi viviamo in una società formalmente e istituzionalmente libera ma anche in una società in cui tra la libertà e il suo senso e quindi il suo stesso significato viene producendosi un crescente e cosí rilevante divorzio da imbrigliare e depotenziare un numero sempre più alto di possibili o reali manifestazioni umane e civili di libertà.  A cominciare dalla tanto decantata “libertà di stampa” che, come è a tutti noto, può essere usata per dare notizie o anche per nasconderle, per informare o anche per disinformare, per potenziare la capacità individuale e collettiva di giudizio o anche per indebolirla e impedirla, per favorire effettivi processi di emancipazione sociale ed economico-finanziaria oppure per bloccare ogni possibile moto di liberazione e per subordinare i legittimi interessi delle persone e dei popoli agli interessi illegittimi ed arbitrari di potenti e cinici gruppi finanziari disseminati in tutte le parti del mondo. 

Oggi, per limitarci a questo nostro sgangherato Paese, quanti e quali sono i giornali o i radiotelegionali, tra quelli che a ragione o a torto contano a livello nazionale, che fanno opera di intelligente e responsabile critica demistificante, che aprono veramente gli occhi alla popolazione con dati veri e non falsi o parziali, con diagnosi rigorose ed obiettive e non asservite a logiche e manovre governative di molto dubbia utilità economica e sociale? Per esempio, chi si è preoccupato in Italia di confutare e stigmatizzare l’affermazione palesemente falsa del prof. Mario Monti rilasciata a Pechino assai di recente, ovvero in data 1 aprile 2012: «Credo che questa crisi, cioè quella economica europea,  sia quasi finita, forse c’è solo una piccola componente psicologica. Ero molto preoccupato quando sono arrivato che l’Italia potesse essere un nuovo focolaio di crisi. Ma non è successo e non succederà. Permettetemi di dire che siamo sollevati. Soprattutto nell’essere consapevoli che non soltanto la crisi è superata, ma è stato grazie all’Italia che l’Europa sta uscendo fuori dalla crisi economica, ormai abbondantemente alle spalle»? Per Monti, appena due mesi or sono, la crisi economica europea era “quasi finita” e anzi poteva considerarsi ormai superata grazie all’Italia, grazie cioè all’eccellente lavoro svolto dallo stesso governo Monti!

Dove sono coloro che hanno posto in risalto la colossale falsità di tale dichiarazione, pur potendo disporre del giudizio esattamente opposto che quasi contemporaneamente è venuto formulando l’OCSE, secondo cui l’Italia nel 2012, davanti solo alla Grecia e al Portogallo, avrà molto probabilmente la peggiore performance economica nella zona euro con un prodotto interno lordo in forte riduzione, con una disoccupazione in forte crescita, con una forte contrazione del consumo interno, con una netta diminuzione delle esportazioni e un consistente aumento delle importazioni dai Paesi extracomunitari, con una spesa pubblica in aumento e quindi con un pareggio di bilancio che contrariamente a quanto garantisce Monti sarà molto difficilmente raggiungibile nel 2013, per cui con ogni probabilità si renderà necessaria un’ulteriore manovra integrativa ai danni delle fasce sociali più deboli della popolazione? D’altra parte, ci si chiede come potrebbero andare diversamente le cose con un governo Monti che ritiene di versare immediatamente i soldi incassati dallo Stato con le tasse per il pagamento di stratosferici “interessi passivi”, con conseguente impossibilità di espansione economico-finanziaria e di riduzione della spesa pubblica che aumenta a causa della stretta creditizia.

Tutto questo non significa che “il governo tecnico”, come minimo, ha sbagliato completamente i conti e che probabilmente un tradizionale e sia pure scalcinato governo politico avrebbe fatto meno danni? Ma tutto questo non potrebbe anche significare che questo governo tecnico, in realtà, non ha affatto sbagliato i suoi conti ma, sia pure tra promesse non mantenute e mistificazioni di ogni genere ammantate di competenza professorale e persuasività tutta accademica, ha sinora egregiamente eseguito il suo compito primario, affidatogli dalle potenti lobbies finanziarie mondiali di cui è il reale mandatario: quello di smantellare lo Stato Sociale e di rastrellare denaro in ogni comparto del lavoro pubblico e privato con conseguente drastica riduzione dei redditi personali, familiari e in buona parte aziendali, proprio al fine di favorire e non certo disinteressatamente quelle lobbies criminali determinandone il maggiore arricchimento possibile? Ma chi le dice, chi le denuncia, chi le grida queste cose? O almeno, chi le prospetta nel quadro di uno spregiudicato dibattito etico-politico?

Non c’è atto politico, economico, finanziario di questo governo che non possa essere analizzato, demistificato e smontato pezzo per pezzo, e con argomentazioni ben più numerose ed incisive, diciamo pure più “scientifiche” e analitiche, di quelle pure abbastanza significative e precise che qui si possono dare. Gli stessi trascorsi scientifici e professionali del prof. Monti, a giudicare dalle molteplici e particolareggiate informazioni fornite dal web, appaiono molto meno lusinghieri e brillanti di quanto generalmente si crede, anche se tutti sanno che egli ha sempre assiduamente frequentato i personaggi più altolocati della finanza mondiale. Eppure in Italia a sentire il bisogno di smascherare quella che per molti è solo un’accolita governativa di faccendieri dalla faccia pulita sono ancora in pochi, mentre le masse mormorano con giusta ragione ma senza disporre di tutte quelle conoscenze che potrebbero metterle nella condizione di rivoltarsi per tempo, democraticamente ma energicamente, contro questi “sepolcri imbiancati”, come appare a qualcuno, che, nel nome degli interessi nazionali, indefessamente perseguono gli interessi di quelle ricche e opulente cricche internazionali nel cui ambito sembrano sentirsi davvero a casa propria. 

Non che non si debba risparmiare, che non si debbano mettere in ordine i conti dello Stato, non si debbano fare tagli alla spesa pubblica e ridurre drasticamente sprechi e spese superflue, o non si debba riformare il mondo del lavoro e la pubblica amministrazione. Nessuno nega che la politica debba tendere a modernizzare lo Stato e a renderlo quindi più efficiente e produttivo anche attraverso riforme di carattere economico e finanziario; nessuno ritiene che essa non debba occuparsi anche di debito pubblico.

Ma qui si tratta di intendersi. Risparmiare: certo, ma in che modo, su che cosa, e a danno principalmente di quali soggetti sociali? I conti dello Stato: certo, non possono che essere riportati in ordine con misure adeguate e rigorose, ma togliendo o aggiungendo a quali voci di spesa e, ancora una volta, a detrimento di quali ceti e soprattutto in funzione di quali obiettivi sociali? Se la spesa pubblica è eccessiva, va ridimensionata, ma anche in questo caso non è ragionevole interrogarsi sui modi, sui tempi e sugli specifici oggetti di questo ridimensionamento? E cosí anche per il mondo del lavoro e la pubblica amministrazione sarà senz’altro vero che bisognerà cambiare le cose, ma non è del tutto sensato chiedere ed esigere che qualsiasi programma riformatore sia realmente coerente con quelle finalità di maggiore produttività, di maggiore occupazione lavorativa, di crescita e di sviluppo, nonché di maggiore valorizzazione dei meriti professionali, che si dice continuamente di voler perseguire? E, quanto al debito pubblico, è giusto che, ove sia stato contratto, in linea di principio debba essere onorato: tuttavia anche qui sarà consentito di sapere esattamente che cos’è questo debito pubblico, le specifiche ragioni finanziarie della sua entità, le sue interne articolazioni, e di eccepire eventualmente che non c’è comunque debito pubblico che possa sfociare nell’imposizione a chi l’abbia contratto di politiche economiche e fiscali talmente coercitive e vessatorie da produrre l’assoluto impoverimento di intere popolazioni?

In altri termini, se si vuole uscire dal modo per più aspetti irrazionale in cui oggi viene usata la politica, nel mondo in genere e anche nel nostro Paese, e dall’uso spesso distorto o unilaterale che i “tecnici” governativi fanno di parole come “razionalità” o “oggettività”, bisogna ripristinare un antico ed universale principio di razionalità: che non l’economia né la finanza dettino le regole alla politica ma la politica detti o torni a dettare le regole all’economia e alla finanza. Sí, nuove regole, nuove norme che impediscano ai controllori e agli esattori dei cosiddetti “debiti sovrani” di fare puro e semplice terrorismo finanziario che inevitabilmente provocherebbe e già sta provocando un terrorismo politico che sarebbe inutile demonizzare dopo aver fatto di tutto per innescarlo e farlo tragicamente divampare. Tutti sanno che la violenza genera violenza e che non c’è violenza peggiore di quella che pretende di gettare intere famiglie e una moltitudine di individui in uno stato di fame e di schiavitù.

E, poiché la politica e una politica democratica devono preoccuparsi innanzitutto, quale che sia la specifica situazione economico-finanziaria del momento, di soddisfare le necessità primarie e talune legittime aspettative di vita dei cittadini, esse saranno una buona politica e una sana politica democratica, anche se severe e rigorose, se non maneggerà la crisi pure oggettiva in modo fraudolento e quindi tale da assicurare non tanto il “risanamento” dello Stato quanto un massiccio e pressoché indefinito trasferimento di ricchezza nazionale ai vari e inappagabili centri internazionali di potere finanziario.

Tutto ciò dovrebbe essere nitidamente percepito dai cattolici che spesso amano parlare di bene comune più che dei modi specifici in cui lo si possa davvero perseguire specialmente nei momenti più critici e più che degli stessi strumenti per mezzo dei quali sia possibile evitare, al di là delle parole e delle buone intenzioni, forme gravi e diffuse di iniquità umana e sociale. Anche Monti, come ognuno di noi, renderà conto a Dio delle sue opere: da questo punto di vista nessuno di noi ha il diritto di giudicarne la fede e l’integrità spirituale. Ma un cristiano ha anche il dovere di parlare con franchezza e di dire quello che non lo persuade a proposito di determinati comportamenti e dunque non ci si può qui esimere dal rivolgergli almeno questa domanda: è proprio sicuro il fratello cattolico Monti che il suo modo di lavorare per i suoi connazionali sia anche il modo più proficuo ed onesto di lavorare per la costruzione e l’avvento del Regno di Dio?

Cosa abbiamo, chiese Gesù ai suoi discepoli: qualche pane e qualche pesce? Bene, bisogna che bastino per sfamare tutta questa gente. Se utilizzerete al meglio il vostro intelletto e il vostro cuore, ci riuscirete. E a quell’uomo che, dopo avergli condonato il suo cospicuo debito, pretendeva che altri estinguessero  sino all’ultimo spicciolo i debiti contratti verso di lui, Gesù dice: uomo malvagio, non meriti alcuna compassione. Questo è il nocciolo di una scienza economica non asservita ideologicamente e ispirata dalla fede in Cristo: anche se le risorse sono scarse devono essere divise e condivise in modo equo ed equanime perché nessuno muoia di fame e perda la sua dignità, e, laddove vi siano debiti piccoli o grandi da saldare, bisogna tener sempre presente che la loro pur doverosa estinzione rimane subordinata alla tutela della vita materiale e spirituale delle comunità nazionali e di ogni essere umano.

Tra dittatura finanziaria e “rimozione” cattolica

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La Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB), autorità totalmente indipendente dal potere esecutivo ovvero dal governo, assolve oggi le stesse funzioni di vigilanza sul mercato borsistico e mobiliare in genere che, prima della sua istituzione nel giugno del 1974 per mezzo della legge n. 216, era il Ministero del Tesoro, e quindi un organo centrale dell’Esecutivo, a svolgere. Se la Consob non godesse di piena autonomia giuridico-amministrativa ed istituzionale, oggi probabilmente il suo presidente, Giuseppe Vegas, per quanto esponente del “Popolo delle Libertà” e uomo molto vicino all’on. Berlusconi che nessuno rimpiange come capo del governo ma che è costretto da diverse circostanze a lui sfavorevoli ad appoggiare a denti stretti il governo Monti, non avrebbe espresso sull’euro, sui mercati e sulle agenzie internazionali di rating, un giudizio cosí franco e severo e per larga parte del popolo italiano anche cosí obiettivo, come quello che egli ha invece espresso a Milano al cospetto della comunità finanziaria e del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Cos’ha detto Vegas?

Dopo aver esordito con una citazione di Epitteto secondo il quale «non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti», alludendo a tutti quegli uomini politici e di governo e più in generale a tutti coloro che ancora si ostinano a pensare che le politiche nazionali non possano essere elaborate se non quasi esclusivamente sulla base dei responsi giornalieri dei mercati internazionali, egli ha giustamente affermato che «lo spread attribuisce ogni potere decisionale a chi detiene il potere economico, nei fatti vanificando il principio del suffragio universale» e che ciò non può non alimentare il rischio di «una dittatura dei mercati» che alla lunga comprometta le fondamenta stesse delle democrazie europee. In realtà, i popoli manifestano un’insofferenza sempre più grande verso “la dittatura dello spread” e di quanti vorrebbero impedire ai popoli stessi di assumere delle libere decisioni. Quello che sul piano nazionale ed internazionale si fa molta fatica a comprendere, ha implicitamente inteso dire Vegas, è che non c’è “debito sovrano” che possa condannare uno o più popoli alla schiavitù.

Naturalmente il discorso di Vegas non poteva piacere, e non è infatti piaciuto, né a Monti né a Napolitano, entrambi notoriamente in profonda sintonia con le diagnosi e i programmi mondialisti di forzato e rapace risanamento elaborati dalle varie commissioni e dai più raffinati clubs politico-finanziari internazionali, ed è singolare e significativo che proprio Napolitano, mentre alla fine della relazione del presidente della Consob teneva ad osservare di aver conosciuto nella sua lunga vita “anni” più “orribili” di quello pure molto duro di questo periodo, a chi gli chiedeva di commentare l’espressione di “dittatura dello spread” egli  abbia ritenuto di dover laconicamente rispondere: “è solo un modo di dire”. Una importantissima autorità dello Stato parla di “dittatura dei mercati” e il presidente della Repubblica si concede il lusso di interpretare semironicamente o di banalizzare tale espressione parlando di “semplice luogo comune”! Ci si chiede se anche un siffatto atteggiamento possa rientrare nella proverbiale saggezza del nostro Capo dello Stato.

Quanto alla prima parte delle sue dichiarazioni è invece verissimo che la storia del ’900 sia stata segnata spesso da “anni orribili”. Il 1956, per esempio, fu davvero un “anno orribile” perché in quell’anno l’esercito sovietico invadeva l’Ungheria anche se il comunista Napolitano, a differenza di tanti altri comunisti che avrebbero abbandonato il partito di Togliatti, elogiava l’intervento sovietico dicendo che l’URSS non solo «in Ungheria porta la pace» ma contribuiva «a salvare la pace nel mondo». Ieri Napolitano, nel nome della pace in Ungheria e nel mondo, tesseva lodi sperticate per la repressione militare sovietica; oggi, mutatis mutandis, egli, nel nome dello sviluppo e della libertà del popolo italiano e dei popoli europei, tesse lodi sperticate per la repressione finanziaria nazionale ed internazionale. Ieri si batteva a favore dell’ordine comunista credendo che quell’ordine violento fosse un ordine di civiltà e di pace, oggi si batte a favore dell’ordine finanziario e mondialista credendo che quest’ordine altrettanto violento ma molto più esteso sia un ordine di progresso economico e di progresso civile e un importante tramite verso un’era di prosperità e di pace per tutto il genere umano.

Sembra che tra il giovane e il vecchio Napolitano non ci sia soluzione di continuità: sbagliava 56 anni or sono quando pensava che da un’ingiustificata violenza politica e militare potesse scaturire libertà e pace, continua a sbagliare oggi nel pensare che da un forsennato attacco di gruppi plutocratici internazionali alla libertà e alla dignità dei popoli e dei loro cittadini più poveri possa derivare un sicuro futuro di stabilità economica e di benessere per tutti. Sembra proprio che questo “saggio” Capo di Stato sia stato e continui ad essere succube o vittima di una vera e propria mistica della potenza: della potenza politica e militare ieri, della potenza politica e finanziaria oggi. A cosa è servito, ci si chiede, che Napolitano abbia chiesto scusa, sia pure molto tardivamente, a quell’Antonio Giolitti che nel ’56 aveva bollato come una specie di traditore per aver protestato contro la brutale invasione sovietica ed essere uscito dal PCI?

Vegas chiede giustamente alla politica di reagire e di fare in modo che ad essere o a restare in campo non sia semplicemente la politica dei mercati e delle semiocculte forze finanziarie che la ispirano e la alimentano ma la politica dei governi che dovrebbero sentire il dovere di contrastare responsabilmente ed energicamente tutte quelle politiche interne ed esterne volte non a tutelare ma a distruggere i veri interessi dei loro popoli. Vegas, a prescindere dalle sue personali posizioni partitiche e politiche, chiede qualcosa che in generale non può non essere condiviso e sostenuto da chiunque abbia veramente nel cuore la patria, la nazione, e si preoccupi di rendere quanto più possibile serena la vita popolare e sociale che non può rimanere perennemente sottoposta ai violenti e spesso gratuiti o umorali scossoni dei mercati e dei mercanti del mondo intero. Se si è stati capaci di liberarsi della follia nazista, non si vede perché oggi non si potrebbe e dovrebbe essere capaci di liberarsi della follia di mercati e mercanti non solo esigenti ma ormai sempre più manifestamente criminali. A volte ci si chiede sgomenti quale differenza ci sia, a parte i modi dei processi estorsivi, tra l’estorsione creditizia e mercatista, avallata dalla politica ordinaria degli Stati, e forme più comuni e più note di estorsione criminale.

Tuttavia qui il problema è più complicato di quel che si potrebbe pensare: perché coloro che continuano a credere nei mercati come in un vincolo obbligato e imprescindibile di ogni seria politica governativa sono anche coloro che vorrebbero rimettere a posto le cose e risanare in toto la società lasciandone sostanzialmente immutati gli assetti fortemente privatistici e anzi potenziandone ulteriormente, al più con qualche cambiamento legislativo del tutto insignificante, fondamentali strutture di potere come istituti di credito o banche, società multinazionali, enti come per esempio le fondazioni o libere associazioni come per esempio i partiti,  e poi naturalmente redditi o patrimoni ingentissimi di singoli privati, per rovesciare quindi quasi tutto il peso del “risanamento” sui ceti medio-bassi con riforme mortali più che strutturali, mentre coloro che si oppongono alla dittatura dei mercati e a politiche fiscali particolarmente esose non appaiono generalmente propensi a prendere in seria considerazione l’idea di origine evangelica che ogni guadagno, ogni profitto, ogni accumulazione di denaro o di capitale debba servire esclusivamente a soddisfare le prioritarie necessità materiali e morali o spirituali della società e i bisogni specifici e reali di ogni suo cittadino attivo ovvero capace di produrre, oltre che quelli di chi non può produrre non per sua responsabilità ma per pura e semplice impossibilità, indipendentemente dalla ricchezza complessiva che la società stessa produce o è capace di produrre. Dove si intende sottolineare con forza che il soddisfacimento delle istanze vitali della popolazione non deve affatto dipendere dal cosiddetto “sviluppo” o dal mitico concetto di una crescita economica necessaria o indefinita e che deve essere invece possibile non solo sopravvivere ma vivere dignitosamente con i beni e i mezzi di cui volta a volta si dispone e attraverso regole o provvedimenti realmente equi ed equanimi per tutti e per ciascuno.

Alle pretese di quanti, invocando sempre rigore e razionalizzazione, sviluppo e crescita, lavorano in realtà e unicamente (non importa se in buona o cattiva fede), sul piano nazionale ed internazionale, per l’incremento illimitato di determinate ricchezze personali o individuali e per il benessere di pochi contro il malessere dei più, sarebbe tempo di opporre risolutamente la prospettiva morale, economica e finanziaria, in cui certi diritti privati alla proprietà e al possesso di qualunque genere non abbiano più un valore giuridico assoluto ma siano suscettibili di adeguata revisione o rinegoziazione a seconda delle specifiche e concrete condizioni dei popoli e dei loro cittadini. Purtroppo, sono pochi anche i cattolici che si fanno realmente fautori di quello spirito evangelico di radicale condivisione materiale e spirituale che sarebbe stato alla base delle prime comunità cristiane in cui si era capaci di vivere in modo sobrio ma dignitoso e in cui non esistevano né ricchi né poveri. La stessa Chiesa cattolica, generalmente parlando, pur facendosi portatrice di istanze comunitarie solidaristiche e giustamente non pauperistiche, forse non sta facendo abbastanza per rendere chiara e inequivocabile la volontà di Cristo che può riassumersi cosí: qualunque cosa abbiate, dividetela e condividetela fraternamente dando ciascuno secondo le sue risorse e a ciascuno secondo i suoi bisogni. Se avete molto, fate comunione del molto; se avete poco, fate comunione del poco e amatevi sempre gli uni gli altri come io ho amato voi. Non sprecate il molto quando c’è molto, non vi preoccupate eccessivamente del poco se avete poco perché il Padre celeste che pensa alle necessità degli animali e della natura non può dimenticarsi certo delle necessità dei suoi figli.

Non basta parlare di “opzione preferenziale per i poveri”, né è privo di ambiguità l’invito talvolta rivolto ai fedeli a “non invidiare i ricchi”, né forse è sufficiente ripetere ogni tanto che Dio ascolta la voce dei poveri senza tuttavia negare misericordia ai ricchi, perché ogni volta che Cristo ha avuto a che fare con i ricchi li ha sempre invitati a lasciare ogni ricchezza per seguirlo o a mettere la propria ricchezza a disposizione di non abbienti e bisognosi: cosí è stato con Matteo, cosí è stato con il giovane ricco, cosí è stato con Zaccheo, per non dire del celebre discorso della montagna in cui ai ricchi vengono rivolte vere e proprie minacce di condanna. Non si tratta di fare terrorismo religioso, si tratta solo, anche in questo caso, di rispettare e testimoniare il pensiero e la volontà di nostro Signore.

Per il cattolico, dunque, non può darsi altra economia più efficiente di quella che, con o senza crescita economica, punta sempre a distribuire le risorse e i beni disponibili in modo tendenzialmente egualitario anche se nel rispetto delle effettive necessità di ciascun membro della comunità. Qui non si tratta di tagliare la spesa pubblica, finalizzata al mantenimento di servizi primari dal punto di vista sociale e sanitario o di salari e pensioni decorose e del tutto legittime e indispensabili, per pagare un debito salatissimo che, contratto con investitori stranieri e multinazionali, non potrà mai essere saldato data la sua entità permanentemente irraggiungibile, ma si tratta di spiegare a quest’ultimi che nessuno ha il diritto di spogliare il prossimo perfino della sua dignità e che semmai essi, se non per fede quanto meno per semplice buon senso, dovrebbero essere pronti a rinegoziare il debito stesso per consentire a quanti già versano in uno stato grave di crisi di uscirne con il minor danno possibile. Qui si tratta di ricordare cristianamente a tutti che, specialmente in tempi di dura crisi, i ricchi per primi e poi via via quelli che possiedono di più dovrebbero mettere in senso rigorosamente proporzionale i propri averi al servizio della comunità di appartenenza, senza coinvolgere quanti non abbiano mezzi finanziari neppure per onorare i più elementari doveri civici e fiscali, e che un governo guidato da cattolici verso un siffatto obiettivo dovrebbe avere il coraggio di spingere.

Occorre pertanto che in particolare noi cattolici ci decidiamo a credere con i fatti in ciò in cui diciamo di credere, posto che almeno talvolta lo diciamo, con la bocca. Il che implica che in quanto cattolici non operiamo più “rimozioni” nei confronti di doveri morali e spirituali che, pur essendo punti centrali e qualificanti  della fede che professiamo, possono metterci in conflitto con nostri concreti interessi materiali e psicologici di vita. Proprio tali interessi acquisiti in buona o cattiva fede e con mezzi leciti o illeciti sono alla base delle nostre dolorose “rimozioni” e quindi delle nostre “dimenticanze”, per cui spesso accade, nella fenomenologia del comportamento religioso cattolico, che tutti quei precetti cristiani, come lo spirito di povertà e di comunione, l’umiltà o la stessa castità sul piano sessuale, che richiedano un sacrificio del nostro io rispetto a quanto può insinuarsi nel suo orizzonte esistenziale – ricchezza, potere, piacere, successo –, vengano a collidere appunto con i nostri desideri che, a seconda della loro intensità, si oppongono in modo più o meno forte, attraverso le relative “censure” più o meno sofisticate della nostra mente, e quindi “resistono” inconsciamente (Freud parlava di “resistenza psichica”) all’emergere cosciente o nella coscienza di verità, precetti, norme etico-religiose rimosse e quindi dimenticate.

Ma, premesso che non è certo dimenticando, sia pure inconsciamente, che potremo ogni giorno accostarci alla santa mensa eucaristica per “fare questo in memoria” di Lui, la “rimozione-dimenticanza” cattolica rende ancora più difficile la situazione che stiamo vivendo e non aiuta tanti laici, tra cui il nostro Capo dello Stato, a cambiare idea sulla finanza e sui mercati, sul neoliberismo e sullo sviluppo economico.

Ivana Barricar

I cattolici, la crisi e la “causa dei miseri”

Il capitalismo non è possibile, non può sussistere senza periodi di crisi e connesse convulsioni sociali. Esso, come ha insegnato Marx, opera sempre attraverso crisi e ristrutturazioni. E’ quel che pensa uno dei più insigni storici contemporanei e uno dei pochi rimasti di orientamento marxista, Eric Hobsbawm, che aggiunge poi a proposito della crisi attuale: «non possiamo sapere quanto sia grave, perché ci siamo ancora in mezzo» (Colloquio con Eric Hobsbawm di Wlodek Goldkorn, Hobsbawm: “Il capitalismo di Stato sostituirà quello del libero mercato” in L’Espresso n. 19, maggio 2012). Quel che si può dire è che la crisi in corso è diversa da quelle precedenti perché oggi ad essere colpiti non sono più tanto, come in passato, grandi aree e paesi extraoccidentali come India, Brasile o Argentina, Cina e Russia, ma proprio i vecchi paesi capitalisti occidentali (in generale USA e Europa). Se una crisi emblematica come quella del 1929 colpiva tutto il mondo, ad eccezione dell’URSS stalinista, oggi le maggiori ripercussioni della crisi economica in atto si hanno in Occidente più che altrove. Inoltre, se in passato le gravi crisi economiche coincidevano con un arresto generalizzato dello sviluppo economico, oggi lo sviluppo economico sembra fermarsi solo in Occidente e non altrove.

In questo scenario pare allo storico inglese di poter affermare che i paesi occidentali, malgrado gli sforzi di riorganizzazione economico-finanziaria, siano «in rapido declino», mentre per i cosiddetti paesi emergenti, tra cui possono essere compresi la Russia postcomunista e la Cina comunista e capitalista ad un tempo, il problema sembra essere quello di «come mantenere il ritmo di crescita senza creare problemi sociali giganteschi», problema a cui sia la Russia che la Cina sembrano voler cominciare a rispondere attraverso una totale rimozione dell’idea, ancora cosí sentita in Occidente, di Welfare State o Stato Sociale, che implica un doversi fare carico da parte degli Stati di costi finanziari molto elevati, benché poi sia molto problematico stabilire se e per quanto tempo l’assenza di Welfare possa produrre per gli Stati, anche sul piano economico, effetti realmente vantaggiosi.

La tendenza che si sta oggi delineando, anche nei paesi occidentali in crisi, è il graduale passaggio del capitalismo dal libero mercato classico, dove contavano la scommessa personale, la creatività, le capacità individuali dei borghesi, allo Stato programmatore ed efficientista che ha proprio tra i suoi obiettivi più concreti ed immediati lo smantellamento progressivo dello Stato Sociale, senza il quale però non è affatto scontato che «il capitalismo possa funzionare». Il vantaggio di un neocapitalismo di Stato rispetto al tradizionale capitalismo del libero mercato è che il primo non si deve preoccupare tanto del consumatore ma del consumo, di come limitare i costi, e d’altra parte «non è legato al dovere di una crescita senza limiti… Detto questo, il capitalismo di Stato significa la fine dell’economia liberale come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quattro decenni. Ma è la conseguenza della sconfitta storica di quello che io chiamo “la teologia del libero mercato”, la credenza, davvero religiosa, per cui il mercato appunto “si regola da sé e non ha bisogno di alcun intervento esterno”».

Il capitalismo, peraltro, ha molteplici varianti: cioè non è proprio vero che esso in tutto il mondo sia “un sistema unico e coerente”. E tuttavia è un sistema che sta conoscendo delle indubitabili difficoltà, delle battute d’arresto, delle crisi che non è detto siano ancora una volta la via obbligata di nuove “ristrutturazioni” del sistema medesimo che gli consentirebbero di sopravvivere alla sua ennesima morte apparente e di risorgere appunto nel quadro di un più efficiente, più produttivo e più competitivo mondo del lavoro che manterrebbe però i suoi elementi di continuità rispetto al o ai precedenti modi di produzione nella regola prioritaria del profitto a tutti i costi, nello sfruttamento della forza-lavoro, nella mercificazione dei bisogni morali degli individui. Qui è il caso di notare, con il sociologo polacco Zygmunt Bauman, che è certamente deprecabile e pericolosa quella recente tendenza delle società occidentali a presentare il mercato come canale sostitutivo di autentici rapporti umani per il soddisfacimento di esigenze e bisogni morali.

Ora, osserva molto criticamente Bauman, è evidente che la mercificazione e la commercializzazione dei bisogni morali degli individui sono funzionali alla riproposizione di una crescita illimitata dell’economia, che è solo una mistificazione della realtà e una mistificazione rischiosa per la sopravvivenza stessa dell’umanità, dal momento che le risorse naturali sono limitate e ormai in via di esaurimento, per cui appare semplicemente folle continuare a parlare di crescita o di sviluppo illimitati, mentre ormai sarebbe molto più saggio che la società mondiale, per non condannarsi al vicolo cieco della crescita senza freno, cominciasse ad orientarsi verso la via della sostenibilità economica, sociale e ambientale. 

Ma, al momento, continuano a pretendere rigore ad oltranza soprattutto e nuova crescita economica, come opzione ipotetica e subordinata, i banchieri centrali dell’Occidente, senza minimamente preoccuparsi di verificare se il peso finanziario e i costi sociali da essi ingiuntivamente richiesti ai popoli siano da parte di quest’ultimi e sino a che punto sostenibili, quali siano oggettivamente i margini ancora disponibili per la crescita o ricrescita economica occidentale visto che le risorse naturali (non solo come il petrolio ma come l’acqua, per esempio) non sono illimitate, e senza riflettere sul fatto che un’economia globalizzata presupporrebbe una politica globalizzata, uno Stato e una unità politica globali anche se articolati, senza cui né l’economia né la politica alla lunga potrebbero salvarsi dalla più catastrofica delle bancarotte.

Come rimediare, dunque? C’è un solo modo, dice Hobsbawm: rendersi conto per tempo che «l’economia non è fine a se stessa, ma riguarda gli esseri umani» e che pertanto economia, finanza, alta contabilità internazionale e amministrazione dello stato non possono valere per se stesse ma sempre in relazione agli obiettivi primari di vita delle popolazioni, il che implica che i  calcoli, le tabelle, i piani di rientro e riordino finanziario, i tagli alla spesa sociale e quant’altro gli “esperti” e i mercati ritengano di dover elaborare ai fini del risanamento e dei pareggi di bilancio, possono essere legittimi o necessari solo nei limiti in cui essi non risultino in parte o totalmente arbitrari e non violino due princípi essenziali della civile convivenza: la dignità delle persone e quindi il loro inalienabile diritto non solo alla sopravvivenza ma ad una vita non mutilata nelle sue essenziali necessità materiali e spirituali seppure oltremodo sobria e onesta, e poi la democrazia dei popoli al di sopra della quale non c’è “debito sovrano” che possa e debba essere “onorato”.

I banchieri, i mercati, gli esperti, i professori di cose economiche e finanziarie, e i loro sostenitori massmediali, dovrebbero comprendere facilmente che essi possono fare il bello e cattivo tempo solo fino a quando non divampano rivolte sempre più ampie e diffuse e solo fino a che i popoli non si rivoltino: quel giorno sarebbe il caos probabilmente per l’umanità intera ma essi certamente perderebbero per sempre averi e funzioni decisionali. Non è affatto chiaro dunque a chi potrebbe giovare maggiormente un eventuale braccio di ferro.

Il benessere dell’umanità non può essere legato alla semplice crescita dell’economia, «all’aumento del prodotto totale mondiale», cosí come non può essere sostenuto ed alimentato da un ossessivo richiamo alla necessità di saldare un debito pubblico molto probabilmente pompato a dismisura sulla base di parametri di misurazione o di calcolo non solo arbitrari ma demenziali. Specialmente i cattolici, che dovrebbero subordinare forse più di altri l’intera loro esistenza al culto della verità ma che spesso più di altri sono purtroppo dormienti o “tiepidi”, dovrebbero sentirsi coinvolti, dovrebbero mobilitarsi per denunciare in tutte le sedi istituzionali, culturali, economico-finanziarie e persino religiose in cui si trovino ad operare, e al di là di consuete e generiche o logore paternali sull’edonismo e sul materialismo contemporanei, il colossale e specifico imbroglio politico-finanziario a cui un’umanità superficiale e distratta ha permesso di proliferare e di minacciare il mondo civile al di là di ogni possibile immaginazione. Noi cattolici abbiamo veramente bisogno di Dio?

Ricordiamoci sempre che «il Signore difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri» (salmo 139) e che chi lo ama con cuore sincero deve difendere, ora, al meglio delle sue possibilità, senza incertezze e senza rinvii, senza ragionamenti arzigogolati o troppo sofisticati, la causa dei miseri e il diritto dei poveri, dei miseri che non abbiano mai avuto né desiderato la ricchezza e dei poveri che abbiano voluto vivere e vorrebbero continuare a vivere dignitosamente.

Rifondare l’economia secondo il vangelo

E’ sempre opportuno tentare di rifondare l’economia, che è una dimensione essenziale della vita associata, per correggerne anomalie, incongruenze, distorsioni o vere e proprie degenerazioni, e riorientarla cosí non solo verso la produzione di un benessere materiale quanto più possibile allargato o partecipato ma anche e innanzitutto verso il soddisfacimento di inderogabili priorità di ordine umano e sociale. Ma se l’economia, e in primo luogo il diritto al lavoro, vengono rifondati nel senso di un loro progressivo sganciamento e di una loro irreversibile autonomizzazione  da fondamentali vincoli etico-giuridici ai fini di un perseguimento sempre più indiscriminato della cosiddetta libertà di impresa e in ossequio ai giochi sempre più ambigui e cinici dei mercati, il risultato non può essere altro se non un irreversibile impoverimento delle masse sociali, una inevitabile riduzione del potere d’acquisto, un crescente decremento della produzione e della ricchezza, l’insorgenza di convulsioni sociali sempre più frequenti e violente, la destabilizzazione graduale ma inarrestabile di ogni ordine costituito, il crollo tombale del sistema o la fuoriuscita da esso in forme drammatiche e devastanti.

Non si può stabilire quanto tempo occorra perché tutto questo accada ma è certamente questo quel che non potrà non accadere se si continua a parlare di economia, magari anche in senso genericamente etico, ma con l’idea precisa di renderla esclusivamente funzionale a ragioni e ad interessi finanziari che, soprattutto per la loro dichiarata e pretesa entità, a molti non sembrano né comprensibili né tanto meno giustificati. Ancor meno comprensibili e giustificate, peraltro, appaiono quelle politiche economiche alla Monti che, pur fondate su premesse teoriche e promesse morali di equità, non possono non sottrarre ricchezza ai ceti meno abbienti in una misura incomparabilmente più ampia di quella riservata ai ceti più ricchi e possidenti.

Per esemplificare attraverso il riferimento alla situazione del nostro Paese, pare che le cosiddette politiche di risanamento dei conti pubblici, alla Monti appunto, abbiano una delle loro più forti motivazioni in un presupposto a tutt’oggi francamente indimostrato o inverificato: che, a fronte di servizi sociali sempre più carenti e di una situazione occupazionale sempre più critica,  le montagne di tasse dirette e indirette pur versate dal popolo italiano e largamente soverchianti quelle di qualunque altro popolo europeo, che le continue “riforme strutturali” attuate a partire dagli anni ’90, che gli ingentissimi prelievi fiscali anche in chiave antievasione effettuati ogni anno dagli organi dello Stato, che le sistematiche e molteplici inadempienze burocratiche e soprattutto fiscali e finanziarie di quest’ultimo nei confronti di imprese, aziende, privati cittadini e pubblici lavoratori, i cui diritti e le cui legittime aspettative vengono solo in parte e assai tardivamente rispettati e soddisfatti, che proprietà e beni mobili ed immobili significativamente recuperati attraverso la lotta alla criminalità organizzata, non siano stati sin qui e non siano oggettivamente sufficienti né a far fronte decorosamente al “debito pubblico”, né a finanziare adeguatamente sagge ed efficaci politiche di investimento con ricadute occupazionali stabili e proficue, né a tenere in qualche modo sotto controllo i mitici conti dello Stato, né ad assicurare un ragionevole controllo dei prezzi, e via dicendo.

Pare insomma che, per quanto inflessibile e draconiana, non ci sia misura, tra quelle numerosissime e dolorosissime adottate dalla politica governativa e statuale nazionale degli ultimi vent’anni, capace di ridare slancio all’economia, di creare veri e stabili posti di lavoro, di alleviare il bilancio delle piccole e medie imprese come quello delle famiglie e dei soggetti sociali più provati, di introdurre concreti elementi di serenità e motivi non fittizi di speranza nella vita sociale e in particolare nella vita delle giovani generazioni. Dove vanno a finire quei fiumi torrentizi di denaro destinati alle casse dello Stato? Come vengono utilizzati? Per chi e per cosa esattamente? Sono tutte lecite e prioritarie le vie che il denaro pubblico, tra un anno finanziario e l’altro, viene prendendo? Come si fa esattamente a controllare i controllori dello Stato? Ed è ragionevole pensare che una buona parte del popolo italiano debba essere eternamente condannato ad una sorta di fatica di Sisifo? Sono scontate, sono ingenue, sono troppo sospettose ed irriverenti queste domande? Non saprei: certo è che le pubbliche autorità non fanno molto obiettivamente né per rassicurare tutti coloro che individuano i principali destinatari del pubblico denaro nel complesso ed articolato arcipelago della politica istituzionale, nel non meno composito e strutturato sistema bancario e negli stati maggiori della grande industria, né per evitare che sprechi e scelte inopportune o comunque fallimentari abbiano a ripetersi in modo assolutamente indefinito.  

Ora, ha osservato Jorge Arturo Chaves Ortiz, professore emerito di Economia etica all’Universidad Nacional San José del Costa Rica, senza scomodare maestri del pensiero morale o del pensiero religioso, «basterebbe che gli economisti e il loro circondario capissero che cosa è l’economia e per che cosa è, per intraprendere subito severe rettifiche alle teorie e alle pratiche attuali», e per recuperare la dimensione intrinsecamente e costitutivamente etica dell’economia stessa (Rifondare l’economia: lo esige l’economia stessa!, in De la utopia a la politica economica. Para una ética de las políticas económicas, Editorial San Esteban, 1999). In realtà, sin dalle sue origini «la scienza economia si sviluppò come una disciplina scientifica che non soltanto si prospettava come risolvere i problemi tecnici che si presentavano nel funzionamento dell’economia reale ma che, prima e in più, si interrogava circa la stella polare della sua attività, definita da due domande chiave: per che e per chi funziona l’economia e per che e per chi si risolvono i suoi problemi, in un modo o nell’altro. Mentre la prima domanda, che sorge nella vita quotidiana, definisce la dimensione tecnica o ingegneristica dell’economia, gli altri due interrogativi esprimono il carattere etico e politico che ha ogni attività economica. Per questo motivo non occorre che autorità morali o religiose esterne vengano a indicare una direzione in senso morale, perché un’economia propriamente detta tenderà sempre a confrontarsi con questa intrinseca dimensione etica. Senza la quale l’economia perderebbe il suo carattere scientifico, sino a smarrire la sua stessa razionalità, pretendendo di convertirsi in un mero insieme di raccomandazioni tecniche per risolvere problemi, ignorando gli obiettivi per i quali lo sta risolvendo e a favore di chi lo sta facendo» (ivi).

Gli strumenti della scienza economica dunque non possono essere in alcun caso “neutrali” o puramente “tecnici”, come troppo spesso si suole ripetere, dal momento che, a seconda che si scelgano questi piuttosto che quegli altri strumenti, gli obiettivi o gli scopi economici perseguiti non possono non risultare diversi o addirittura opposti. E’ insomma evidente che tutte «le politiche economiche, gli strumenti governativi o imprenditoriali, portano sempre a costruire un certo tipo di economia e a favorire determinati gruppi sociali, per quanto non lo si dica. Gli strumenti tecnici che si escogitano per risolvere i problemi o contribuiscono a costruire una società più equa oppure rafforzano la concentrazione di ricchezze. O riescono a togliere dalla povertà gruppi sociali svantaggiati ovvero si interessano soltanto a generare profitti per i gruppi di potenti. Non esistono strumenti ‘neutri’. Lo si può vedere nelle ‘soluzioni’ previste più frequentemente per le recenti crisi: si rinvia l’aiuto ai disoccupati e alle famiglie che hanno perso la casa per rafforzare, al contrario, i gruppi finanziari che, paradossalmente, sono stati i principali responsabili della crisi. E tutto questo col pretesto di risolvere i problemi» (ivi).

Purtroppo, l’odierna dinamica economica, comprensiva beninteso di tutta una serie di supporti teorici ed accademici particolarmente sofisticati ed influenti e di intenzionali esoterismi tecnici volti a confondere le idee delle popolazioni, «favorisce in misura sproporzionata piccoli gruppi con grandi poteri. Questi, e i teorici che li legittimano, si opporranno con tutte le loro forze a che l’economia cambi e ritorni a essere ciò cui è chiamata» (ivi). Ciò cui è chiamata: laicamente ed evangelicamente non ad assolvere solo in senso retorico o generico una funzione etica troppo spesso relegata nella sfera delle buone intenzioni ma ad elaborare strategie giuridico-economiche che, nel rendere impossibile il perseguimento di forme indefinite o illimitate di profitto e nell’incoraggiare apertamente forme di lavoro comunitarie tanto quanto quelle di natura privatistica, risultino coerentemente finalizzate ad un reale incremento sociale delle risorse economiche e finanziarie, ovvero un incremento non più a vantaggio dei soggetti economici più forti o già forti ma di quelli più deboli o non ancora emersi o emergenti dal punto di vista produttivo.

Ma, perché questo accada, è necessario tra l’altro che nel mondo cattolico, troppo impegnato sul fronte convegnistico e troppo poco dedito all’impegno politico diretto, si assumano presto iniziative politiche concrete, possibilmente culminanti nella costituzione di un nuovo partito politico dichiaratamente cattolico e affidato a personalità tanto nuove quanto antitetiche a quelle molli ed ambigue già presenti nella scena politica italiana, iniziative politiche concrete e coraggiose perché basate su una ricerca non approssimativa ma rigorosa della verità e in virtù delle quali, pur senza pretendere di imporre dall’alto ricette o soluzioni  indipendentemente dalla dinamica del mercato, non appaia più utopistico sperare in un mondo non ineluttabilmente votato alla catastrofe.

Senza patria e senza Dio

Alta e chiara, come sempre, la voce del vescovo mons. Giancarlo Bregantini, presidente della commissione Lavoro Giustizia e Pace della CEI, si è alzata anche sulla riforma, il cui varo parlamentare-governativo sembra ormai imminente, del tanto discusso art. 18, per dire non solo che questo articolo non dovrebbe essere abolito ma anche che «la tematica di fondo dell’articolo 18 dovrebbe coprire tutti i lavoratori, non solo quelli con più di 15 dipendenti, già garantiti. Va estesa come espressione di valori di dignità e difesa come normativa». La Chiesa, argomenta mons. Bregantini, «davanti alla questione dei licenziamenti, chiamati elegantemente, con un eufemismo, ‘flessibilità in uscita’» deve sempre tener presente che il lavoratore «è persona», non «merce», come insegna l’enciclica sociale Rerum novarum di papa Leone XIII, e in particolare in quei punti in cui sottolinea che «nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per se stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue».

Parole chiare, tassative, assolutamente indipendenti da particolari congiunture economiche, da periodiche crisi finanziarie, da nervosismi più o meno ingiustificati dei mercati: il vangelo questo suggerisce e questo uno Stato sarebbe tenuto evangelicamente a fare sempre e comunque. Ma se le risorse sono poche o scarse, come si fa? La risposta dell’enciclica: si mette in comune quel poco o quella scarsità di cui si dispone dando priorità al soddisfacimento dei bisogni primari di vita degli operai e dei lavoratori, di quelli che già ci sono beninteso e che hanno in ogni caso diritto per sé e le loro famiglie ad una vita dignitosa, e non di quelli futuribili, di quelli che eventualmente verranno, che sono generalmente oggetto non già di sincera e obiettiva preoccupazione economica morale e sociale ma di mera, strumentale e particolaristica propaganda ideologica e politica.

Fa dunque bene mons. Bregantini, ripercorrendo quei vecchi ma sempre attuali insegnamenti evangelici e pontifici, a ripetere con forza che, quali che siano le contingenze critiche dell’economia, contingenze critiche peraltro continuamente riaffioranti nella storia non certo per caso o per arcane ed incomprensibili ragioni, la «questione di fondo» è e resta quella per cui «il lavoratore non è una merce e non lo si può trattare come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto in magazzino». Da questo punto di vista, certe lezioni professorali di personaggi come Elsa Fornero, che si illude di spiegare con una gestualità tipicamente e boriosamente accademica come si possano dare situazioni occupazionali suscettibili di non essere più giustificate dalle cangianti richieste di mercato e quindi ineluttabilmente destinate ad aver termine con conseguente espulsione dai processi lavorativi ed economici dei soggetti colpiti, sono semplicemente risibili, perché è come se uno Stato dovesse rimanere necessariamente in balía di forze spesso irrazionali come banche e mercati o mercanti, senza poter assolvere alcuna funzione politica degna di questo nome e quindi anche capace di tutelare in primis, anche a costo di gravi sacrifici e rinunce fatti però nel nome della giustizia sociale e non della necessità di saldare un inintellegibile debito sovrano, i legittimi interessi delle fasce sociali più disagiate e meno abbienti della sua popolazione.

Il professor Monti, supertitolato esponente dei più forti e influenti gruppi bancari del mondo, delle più prestigiose e “segrete” organizzazioni economiche e “culturali” internazionali, i cui macrointeressi certo non può tradire dall’oggi al domani, si sforza di chiarire che, in momenti di grave difficoltà economica, ogni parte sociale deve cedere una parte dei suoi “interessi legittimi”, trascurando però di riflettere sul fatto che gli interessi legittimi di un operaio o di un impiegato non sono uguali a quelli di un imprenditore dal reddito milionario e che gli interessi legittimi di un modesto pensionato non sono minimamente paragonabili a quelli di uno strapagato professore universitario o direttore di banca che, pur dichiarando pubblicamente i loro ingentissimi redditi, sarebbero tenuti a spiegare perché essi, a differenza di certi pensionati della pubblica amministrazione e della scuola che il sistema retributivo avrebbe reso “privilegiati”, non sono invece né economicamente privilegiati né socialmente soggetti in larga misura parassitari.  

Il professor Monti è stato chiamato per salvare l’Italia dal baratro. Per ora, non si può certo dire né che l’abbia salvata, come sta ad indicare chiaramente il saliscendi di uno spread oltremodo ambiguo (che si riduce tutte le volte che Monti compie atti da cui si sente appagata la libidine finanziaria dei cosiddetti mercati, mentre aumenta non appena un sindacato italiano si mostra intransigente verso qualche misura del governo Monti), né soprattutto che ne abbia realmente favorito quella “crescita” senza la quale, come egli stesso continua a ripetere in modo disinvolto ma per noi tutti preoccupante, ogni “riforma” sarà stata inutile. Che l’Italia sia stata salvata dal governo Monti o da governi come quello di Monti proni alle esigenze non già dell’economia ma dei suoi grandi potentati, è e resta per ora un puro postulato. Se ne riparlerà fra alcuni anni e, benché speri con tutte le mie forze di sbagliarmi, vedremo allora di trarne un bilancio obiettivo.

Quel che è certo è che il governo Monti, simmetrico all’astuta e perfida opera che il dott. Draghi svolge come presidente della BCE, sta facendo esattamente quello che il mondo economico-finanziario di cui è espressione e voce autorevolissima si aspettava da lui: ovvero quell’opera raffinata ma sistematica di rapina, di espoliazione della ricchezza nazionale a tutto favore dei magnati della finanza internazionale, dell’alta imprenditoria, dei settori di punta del capitalismo mondiale e nazionale, anche attraverso un’abile ma inesorabile attività di smantellamento dello Stato Sociale e di princípi giuridici essenziali della vita civile e democratica del nostro Paese.

Ora però, ammonisce Bregantini, per un cattolico né l’aspetto economico e finanziario può prevalere su quello politico e sociale, né l’aspetto tecnico (ammesso e non concesso che di pura tecnica si tratti) può prevalere su quello etico ed umano. L’economia non è solo scienza di come si produce e si distribuisce ricchezza, ma è anche la scienza di come si amministrano con equità ed equanimità i beni disponibili e non necessariamente suscettibili di incremento a breve o lungo periodo, in tempo di crisi, di mancato sviluppo e di persistente e galoppante disoccupazione. Peraltro, proprio sotto il profilo “tecnico” il lavoro governativo montiano appare singolarmente equivoco nel fatto che esso abbia varato immediatamente delle riforme strutturali che indeboliscono e riducono in misura notevole il reddito e il potere d’acquisto di persone e famiglie normali o già disagiate ma che prescindono completamente dal perseguimento di un ordinamento giuridico-normativo non solo nuovo ma coerente rispetto a quelle finalità sociali, quindi ad obiettivi di sviluppo economico e di occupazione, che si dice e si ripete senza troppa convinzione di voler perseguire.

Qui i trucchi, in una prima fase tenuti ben coperti, cominciano a venire alla luce, e mons. Bregantini non può fare a meno di chiedersi preoccupato se la riforma governativa del mondo del lavoro, che a ben vedere ha il suo punto di attacco anche ideologico proprio nella volontà di sbarazzarsi dell’art. 18, «diminuirà o aumenterà il precariato dei nostri ragazzi», riuscirà «ad attrarre capitali ed investimenti dall’estero solo perché è più facile licenziare», riuscirà a snellire «la burocrazia» e a dare «più vigore all’esperienza imprenditoriale». Ma soprattutto, osserva l’arcivescovo di Campobasso-Bajano, «non vorremmo nemmeno che la cosa fosse schiacciata su questi temi, perché ripeto, al centro di tutto ci deve essere la dignità dell’uomo e della famiglia».

Però, bisogna riconoscere che sul governo Monti e in particolare sulla riforma complessiva del mondo del lavoro da esso voluta la Chiesa è profondamente divisa: non solo a livello gerarchico, dove le posizioni in verità non sono mai espresse in modo sufficientemente nitido e univoco, ma anche tra i cattolici laici tra cui non di rado accade che il vangelo possa interpretarsi con una certa liberalità e con ampi margini di discrezionalità soggettiva. Si legge, per esempio: «per Luca Diotallevi, vice presidente del Comitato delle Settimane Sociali (nonché ascoltato consulente del cardinale Bagnasco)», (capite: uno dei vertici delle settimane sociali e molto vicino a Bagnasco!) «le novità portate avanti dal ministro Fornero sono un passaggio necessario. Egli infatti ha detto: ‘L’accordo va in una direzione giusta per almeno due ragioni. La prima è che aumenta la flessibilità, la seconda è che non si ferma alle vecchie convenzioni della concertazione’. E pazienza per la rottura con la Cgil. Il sindacato ‘ancora una volta’ ha espresso una visione ‘fortemente conservatrice’. Intervistato dalla Radio Vaticana Diotallevi si è espresso esattamente all’opposto di Bregantini: ‘Credo che questa riforma abbia dietro un grande consenso’, inoltre ‘è positivo che si sia fatto un passo nella stessa direzione di Tarantelli, Biagi e D’Antona’» (Franca Giansoldati, La Chiesa/I vescovi: “i lavoratori non sono merce”, in “Il Mattino” del 23 marzo 2012).

Povero Bregantini che ha avuto il torto, comune a tanti di noi, di ritenere un grave errore la decisione di «lasciare fuori la Cgil dalla riforma, quasi che il primo sindacato italiano per numero di iscritti non sia una cosa preziosa per una riforma del lavoro…Dietro questa fetta di sindacato c’è tutto un mondo importante, cruciale, da coinvolgere per camminare verso il futuro. Altrimenti c’è il rischio che questa parte sociale, con i suoi milioni di iscritti, resti disillusa, arrabbiata, ripiegata su atteggiamenti difensivi, su un passato che non c’è più. Lasciare fuori la Cgil sarebbe una perdita di speranza notevole, un grave errore». Ma l’autorevole esponente Cei fa poi un altro rilievo alla riforma targata Fornero-Monti: «Ci voleva un po’ più di tempo per mettere in atto una riforma cosí importante. Non era necessaria questa fretta cosí evidente. La questione è chiusa, è stato detto da parte del premier Mario Monti. Si poteva dire: la questione è posta, ora dialoghiamo, nelle fabbriche, negli uffici, in Parlamento, nella società civile, ovunque perché il lavoro è il tema cruciale del nostro Paese».

Sí, un cattolico non può ragionare diversamente da come ragiona Bregantini, che, pur svolgendo meravigliosamente la sua opera evangelizzatrice, non è un eroe, non è un prelato dotato di particolare sensibilità sociale o di eccessivo zelo apostolico (come qualche presunto cattolico potrebbe maliziosamente etichettarlo), ma semplicemente un cristiano e un cattolico, un fedele seguace di Cristo che non può non avere la sensibilità che per l’appunto Bregantini ha verso i lavoratori e il mondo sociale. Non è dato sapere se i vari Monti, i vari Fornero, i vari Napolitano, sempre più manifestamente complici e promotori di una delle più ambigue e reazionarie manovre della storia politica italiana dal ’45 ad oggi e proprio oggi allarmati “per il crollo delle aziende” più che “per facili quanto improbabili licenziamenti” (!), siano davvero convinti di poter essere giudicati prima o poi dal “popolo” quali soggetti morali e politici dotati di elevato senso patriottico o addirittura di un afflato religioso di cui in realtà, vangeli e ultrasecolare dottrina sociale della Chiesa alla mano, sono molto carenti (anche se Napolitano non fa mistero del suo personale disimpegno quanto a fede e a religiosità in senso classico).

Cosí come non potranno coltivare questa stessa speranza tutti quei cattolici tecnocrati, burocrati, banchieri, esperti, specialisti, economisti ed intellettuali, che non siano capaci di intendere che il pane materiale come il pane della vita si spezza con tutti quelli che, anche se il primo scarseggia pur essendo prezioso quasi quanto il secondo, ne hanno comunque bisogno e diritto, non in quanto fannulloni ma in quanto persone desiderose di guadagnarselo col sudore della propria fronte. Per alcuni di noi, per nulla predisposti a sputare sentenze e ad emettere facili e definitivi giudizi moralistici sui singoli, che ovviamente regoleranno i propri conti solo con Dio e con la propria coscienza, ma solo preoccupati di testimoniare senza supponenza la loro fede nella verità e nella giustizia divine, molti, anche fra i credenti cattolici e i laici apparentemente più impegnati sotto il profilo etico-civile, sono in vero i senza patria, non nel senso che il cristiano abbia la sua unica patria nel regno dei cieli ma nel senso di un uso semplicemente territoriale e strumentale della propria patria-nazione a tutto vantaggio della patria dei propri interessi personali spesso coincidente con la patria dei grandi interessi finanziari transnazionali, e i senza Dio, incapaci cioè non già di interpretare “dialetticamente”, e quindi anche con i possibili arzigogoli esegetici che la dialettica consente, ma di aderire seriamente e intimamente alle parole del salmo 139: «So che il Signore difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri».