Poverino! Qualcuno c’è rimasto male: papa Francesco ha denunciato pubblicamente il genocidio armeno attuato nel 1915 dalla Turchia islamica e molti di quei siti che fino all’altro ieri lo avevano elogiato per la sua apertura al dialogo interreligioso, adesso si dicono stupiti e delusi. In uno di questi siti si legge: «Suscita cosí non poca preoccupazione la “guerra” diplomatica scoppiata fra Santa Sede e Turchia sulla questione del cosiddetto “genocidio Armeno”. Perchè una diplomazia vaticana sempre attenta proprio nell’uso delle parole ha scelto la via dello scontro con un paese come la Turchia che ha un ruolo certamente non secondario in Medio Oriente? Perchè esporre la comunità cristiana della Turchia ad eventuali rappresaglie per l’uso di una parola, per quanto giusta essa possa essere? Non pensiamo che in Vaticano mancassero i dizionari, ed il fatto che i nostri guerrafondai siano tutti contenti di tale scelta, vedi Il Foglio di Ferrara, ci lascia particolarmente preoccupati». Continua a leggere
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Il governo Renzi tra critiche ed elogi
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La tulipana fiorentina
In Italia i molti critici del governo Renzi continuano a dire che il premier è uno che dice bugie, è uno che dice e non fa, è solo un grande affabulatore privo di contenuti politici di sinistra o di contenuti politici tout court, un illusionista che manipola la realtà a proprio piacimento, un politico insomma che inganna il popolo introducendo riforme apparentemente corrispondenti ma sostanzialmente contrarie ai suoi interessi. Tuttavia, all’estero pare che i giudizi su di lui e sul suo operato siano molto diversi da quelli espressi dall’intelighentia politica italiota, ovvero da quelli che qui gli vanno sistematicamente contro soprattutto perché, pur ambiziosissimi come o più di Renzi, non sarebbero capaci di conseguire neppure un quinto dei risultati e della popolarità sinora da lui conseguiti. Continua a leggere
Cattolici di tutto il mondo uniamoci!
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Molti di noi cattolici hanno atteso con ansia negli ultimi mesi che papa Francesco cominciasse a prendere più nettamente posizione sui sempre più efferati crimini che i feroci e sanguinari militanti del Califfato nero stanno attuando, ormai da troppo tempo quasi impunemente, soprattutto contro le comunità cristiane del Medioriente e dell’Africa nord-orientale. Lo scorso lunedì dell’angelo, le parole e i moniti del papa sono apparsi molto meno blandi e sereni del solito, perché volti a stigmatizzare il comportamento di una comunità internazionale che, dinanzi ai ripetuti e sempre più atroci crimini anticristiani dei jihadisti, sembra volgere «lo sguardo dall’altra parte» e assistere «muta e inerte» a pratiche di morte inaccettabili e persino più disumane, se possibile, di quelle poste in essere dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Il papa ha altresì chiesto pubblicamente che gli organismi politici internazionali provvedano immediatamente ad assicurare «difesa e protezione» a tutti i «nostri fratelli e sorelle, perseguitati, esiliati, uccisi, decapitati per il solo fatto di essere cristiani», facendo peraltro notare che «la loro persecuzione costituisce una preoccupante deriva dei diritti umani più elementari». Continua a leggere
USA-IRAN e il nucleare, c’eravamo tanto armati
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di Francesco Volpi
(pubblicato in “In Terris” il 4 aprile 2015)
L’accordo sul nucleare raggiunto dopo una lunga maratona può rappresentare una svolta nei rapporti tra Usa e Iran in un momento critico per il Medio Oriente. Il Paese degli ayatollah è stato per decenni un rivale duro con cui confrontarsi ma con il quale Washigton ha dovuto, suo malgrado confrontarsi. I rapporti si erano fatti tesi dopo che il progetto per l’arricchimento dell’uranio era stato lanciato da Mahmud Ahmadinejad. A tenere sul filo l’amministrazione Usa, specie quella repubblicana, era il rischio di una corsa all’atomica da parte del regime di Teheran, una spada di Damocle sospesa su Israele che avrebbe potuto stravolgere gli equilibri di una regione già calda di suo. Non è un caso, allora, che a protestare contro l’intesa siglata giovedì sia stato proprio Bibi Netanyahu. Il premier dello Stato ebraico si è sentito nuovamente tradito da Barack Obama; i rapporti fra i due non sono mai decollati e si sono fatti gelidi quando Tel Aviv, nel lugio 2014, ha deciso di lanciare una vasta operazione nella striscia di Gaza con lo scopo di ridurre le capacità militari di Hamas e vendicare la morte di tre adolescenti israeliani.
Quello sul nucleare resta, in ogni caso, un significativo avvicinamento tra Usa e Iran e l’esito di un percorso travagliato. Le relazioni diplomatiche fra i due Paesi hanno cominciato a essere tesi con il golpe del 1953, che fu visto come il “peccato originale” degli Stati Uniti, i quali insieme al Regno Unito sostennero un piano per destituire il primo ministro democraticamente eletto Mohammed Mossadegh e per instaurare la monarchia dello shah. Mossadegh fu messo fuori gioco perché voleva nazionalizzare il petrolio iraniano, risorsa fino a quel momento imprescindibile per l’anglo-iraniana Oil Co., oggi BP. In questo quadro pochi anni dopo Washington firmò un accordo di cooperazione con Teheran per la cooperazione nel campo del nucleare civile. L’accordo gettò le basi del programma atomico iraniano che prevedeva l’assistenza tecnica americana e la consegna all’ex Persia di uranio arricchito per i suoi impianti. L’equilibrio raggiunto subì uno scossone nel 1979, quando la rivoluzione avviata dalle forze di sinistra e presto fatta propria dagli islamici pose fine al regime dello shah, accusato di corruzione.
Le nuove autorità iraniane stracciarono l’accordo con gli Usa per la costruzione dei reattori. Nel successivo novembre alcuni studenti occuparono l’ambasciata stelle e strisce e tennero in ostaggio per 444 giorni alcuni cittadini americani. Ma la vera crisi nei rapporti fra i due Stati si verificò nel 1980 quando l’amministrazione statunitense decise di sostenere la sanguinaria guerra condotta dal dittatore iracheno Saddam Hussein contro l’Iran. Un massacro durato otto anni durante il quale il signore di Baghdad non esitò a usare armi chimiche per annientare gli avversari. Altro passaggio fondamentale fu l’attentato del 1983 contro una base dei Marine a Beirut, nel quale rimasero uccise 241 persone. L’attacco venne attribuito agli sciiti di Hezbollah, sostenuti dall’Iran; come reazione il presidente Ronald Reagan incluse la Repubblica islamica nella black list dei Paesi sponsor del terrorismo. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 i nervi si fecero sempre più tesi e il rischio di uno scontro militare divenne elevato. Basti pensare alla tragedia dell’aereo passeggeri iraniano abbattuto dalla nave da guerra USS Vincennes, una tragedia che costò la vita a 290 innocenti.
La possibilità di riaprire il dialogo arrivò nel ’97 con l’elezione del presidente riformista Mohammad Khatami. In un’intervista alla Cnn il neo capo di Stato invitò Washington ad “abbattere il muro di diffidenza” tra i due Paesi. Mentre pochi anni dopo l’allora segretario di Stato Madeline Albright riconobbe il danno allo sviluppo politico dell’Iran generato da golpe del 1953. Una presa di coscienza importante che tuttavia non consente di riallacciare completamente i rapporti. Tanto che nel 2003 George W. Bush annoverò Teheran tra i Paesi de “l’Asse del male” insieme a Iraq e Corea del Nord, nemici storici degli Stati Uniti. Nel 2005 Il conservatore Mahmoud Ahmadinejad viene eletto presidente dell’Iran e segna il suo governo con una retorica fortemente anti-americana e anti-israeliana. Il nuovo presidente è un fervente negazionista e auspica la distruzione di Tel Aviv. E’ in questa fase che il dibattito sul nucleare diventa critico. Per mesi si parla di un possibile intervento americano in Siria proprio per indebolire l’Iran. Con Obama e il nuovo presidente Rouhani il clima si fa meno rovente e il dialogo torna d’attualità. Un passo in avanti verso la pace.
Francesco Volpi
Il cristianesimo e il destino dell’Occidente
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L’Occidente è molto tollerante e benevolo verso tutte le religioni del mondo ad eccezione di quella cristiana. Solo per fare qualche esempio, i pellegrinaggi annuali di alcuni milioni di musulmani che spesso si concludono in modo drammatico per la totale mancanza di adeguate misure di sicurezza o l’immersione collettiva di milioni di indù nell’acqua sporca del fiume sacro a fini di presunta purificazione e di preghiera non sono oggetto di critica e di biasimo occidentali cosí come lo sono invece certe processioni popolari o certi riti esorcistici del mondo cattolico. Continua a leggere
I nuovi crocifissi
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di Angelo Perfetti
(pubblicato in “In Terris” il 3 aprile 2015)
In questo periodo di guerre definite impropriamente “di religione”, il simbolo della Croce torna a mostrarsi in tutta la sua forza. L’uccisione dei cristiani copti trucidati dall’Isis mentre invocavano il nome di Cristo rappresenta l’essenza stessa del martirio. Dopo duemila anni le logiche del mondo non sembrano essere cambiate.
Ma anche la nostra società, apparentemente cristiana ma spesso pervasa da idoli quali il consumismo, il materialismo e l’edonismo sfrenato, continua a provare del disagio, spesso una vera e propria ribellione, verso l’emblema più importante e noto della storia. Siamo molto lontani dalle città ideali immaginate da Tommaso Campanella, siamo distanti anni luce da quel concetto di equità e tolleranza che dovrebbe accomunare l’Uomo come appartenente allo stesso genere, al di là del censo, della casta, del colore della pelle, della religione.
Non abbiamo la consapevolezza di essere minuscoli esemplari sistemati su una palla sparata nello spazio a 108 mila chilometri l’ora, non abbiamo contezza del nostro essere poca cosa. Pretendiamo di essere come dei, gestendo le nostre vite, giudicando quelle degli altri e a volte arrogandoci anche il diritto di farle esistere o meno. Ecco allora che ogni giorno l’umanità mette in croce qualcuno. I cristiani in Siria e in Iraq, ad esempio, costretti ad abbandonare le proprie case, martirizzati dalla violenza dell’Isis; oppure tutti quei villaggi distrutti dalla furia di Boko Haram, che utilizza l’omicidio, i rapimenti, gli stupri in nome di un distorto concetto di Islam. Continua a leggere
Torna l’incubo: a febbraio disoccupazione al 12,7%
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L’Istat: vanificata la crescita di dicembre e gennaio. Non lavora il 14,6% dei giovani
(pubblicato su “IN TERRIS” a cura di Redazione in data 1 aprile 2015)
L’uscita dal tunnel della crisi procede a passo di gambero, un giorno gli indicatori dell’economia sono positivi, l’altro il trend è negativo. Accade anche nel caso dell’occupazione tornata a scendere lo scorso febbraio. Secondo l’ultima rilevazione dell’Istat il tasso di occupazione, pari al 55,7%, è sceso di 0,1% mentre le persone che non lavorano sono aumentate su base mensile dello 0,7%. Dopo il forte calo registrato a dicembre, seguito da un’ulteriore diminuzione a gennaio, a febbraio la disoccupazione è tornata al 12,7%. Nei dodici mesi il numero di disoccupati è cresciuto del 2,1% (+67 mila).Il dato degli individui inattivi tra i 15 e i 64 anni mostra un lieve incremento nell’ultimo mese (+0,1%), rimanendo su valori prossimi a quelli dei due mesi precedenti. Rispetto ai tre mesi precedenti, nel periodo dicembre-febbraio l’occupazione è rimasta sostanzialmente stabile, mentre il tasso di disoccupazione e’ diminuito di 0,4 punti percentuali. Continua a leggere
Gender: grave questione politica
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Appena papa Francesco usa termini giusti, precisi, inequivoci, per nulla concilianti e privi di possibili ambiguità, ecco che laicisti e progressisti radicali come cristiani permissivi e disposti a tollerare ogni genere di trasgressione morale nel nome dei diritti universali dell’umanità, mettono da parte il loro plauso abituale per il pontefice argentino e lo rendono bersaglio di un linguaggio caustico suscettibile di evolvere verso quelle forme di aperta ostilità che tutti coloro che non guardano al mondo con gli occhi di Cristo ma a Cristo con gli occhi del mondo prima o poi manifestano verso chiunque si trovi a guidare la Chiesa.
Per esempio, sul blog di Beppe Severgnini, si può leggere una testimonianza molto significativa: «anche una persona buona e intelligente può dire assurdità. Buono questo Papa, intelligente questo Papa, simpatico da morire questo Papa, ma si dà il caso che anche una persona buona, intelligente, simpatica da morire, qualche volta possa dire assurdità. Durante la sua visita a Napoli, Papa Francesco, a proposito della famiglia ha detto che tra le minacce più insidiose c’è “la teoria del gender, uno sbaglio della mente umana che fa tanta confusione”.
In realtà, la confusione la fa il Papa e tutti coloro che parlano di “teoria gender” o di “ideologia gender”. Esistono la teoria della relatività, la teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie, la teoria psicanalitica, le teorie dell’apprendimento, e via di seguito per un bel pezzo, ma non esiste nessuna teoria gender. Esistono gli studi di genere (gender studies). Essi sostengono che fino ad oggi la società si è strutturata sulla prevalenza di un genere su un altro. Il maschilismo, attraverso il patriarcato, ha imposto per millenni il controllo sociale su donne e infanzia, reprimendo le diversità e segnatamente l’omosessualità. Qualche anima saggia e buona tenta di evitare che questo “sbaglio della mente umana” persista. Tutto qua. Come si può arrivare ad affermare che tipi diversi di famiglie possano costituire un pericolo per la famiglia tradizionale? Sarebbe come affermare che materiali diversi dai mattoni, per la costruzione di una casa, vadano a scapito della casa e dei mattoni. Solo la mancanza d’amore, solo l’odio può distruggere una famiglia, e la mancanza d’amore e l’odio hanno poco da spartire con gli studi gender, e con le buone intenzioni di coloro che lottano contro le discriminazioni in base al sesso e all’orientamento sessuale».
E invece, no, cari intelligentoni alla Beppe Severgnini o alla Daria Bignardi; perché parlare del gender come di una semplice e perniciosa teoria non è affatto un’assurdità; perché i gender studies, come qualunque tipo di studi o di indagini, sono necessariamente finalizzati ad elaborare o a giustificare una determinata teoria; perché, poiché tutto ciò che la natura produce non è sempre e necessariamente “normale”, l’omosessualità non è affatto un fenomeno che abbia a che fare con la diversità ma piuttosto con una realtà psico-fisica alterata o anomala; perché la distinzione biologica dei sessi e la famiglia tradizionale possono essere messe in discussione solo da un arbitrario e insano uso della mente; perché la teoria gender è al tempo stesso un’ideologia che nega, sulla base di interessi psicologici precostituiti e di un’analisi distorta di elementari realtà naturali, la differenza ontologica tra genere maschile e genere femminile facendone un semplice prodotto culturale; perché paragonare la famiglia umana al mattone è indice di profonda stupidità, perché il significato di parole come amore e odio è molto più complesso di quanto non riescano ad immaginare certi loro presunti paladini, perché la lotta alle discriminazioni umane non può essere intrapresa in un’ottica di menzogna e di mistificazione com’è certamente quella in cui si muovono questi profanatori dell’umano e del religioso.
In realtà, quella del gender non è una questione da sottovalutare perché essa costituisce una rilevante questione politica e culturale, in quanto l’ideologia gender si prefigge fondamentalmente di decostruire tutti quelli che sono pilastri insostituibili della civiltà umana: la maternità, la paternità, la filialità, la nuzialità, la complementarietà uomo-donna. Tutto ciò, in altri termini, viene interpretato arbitrariamente come semplice costruzione culturale e sociale e non come un dato costitutivo originario. E si comprende bene come, in questo modo, potenti lobbies omosessualiste e non omosessualiste, richiamandosi in modo volgarmente strumentale alla dignità e ai diritti inalienabili di ogni individuo, tentino di scardinare in Occidente, sul piano culturale come su quello politico-legislativo, una società fondata essenzialmente sul matrimonio e sulla famiglia tradizionali.
Purtroppo, il gender, parola volutamente ambigua che sta sostituendo soprattutto nei principali organismi internazionali la parola “sesso”, è sempre più di moda tanto che, sin dalla “Conferenza mondiale delle donne” di Pechino del 1995, esso è diventato il cuore della strategia di azione delle Nazioni Unite, le quali, come qualcuno ha scritto giustamente, promuovono ormai ufficialmente il “gender-diktat”. Perciò, non sarà mai inutile lavorare, anche o soprattutto in sede politica, ad una mobilitazione volta a neutralizzare un sempre più massiccio fronte gender che avanza dietro una maschera di parole dal sapore altruistico e umanitario come uguaglianza, dignità, parità di genere, libertà di scelta, diritti, progresso, autonomia e emancipazione, salute riproduttiva, sviluppo sostenibile (tutti termini ed espressioni contenuti appunto nei documenti ONU) ma che si propone solo di favorire quella “prospettiva di genere” che dovrebbe rimuovere gli stereotipi di maschio e femmina, considerati superati e inadatti a rappresentare la complessità sociale contemporanea.
Soprattutto i cattolici non possono non capire che è in atto un grave attentato all’essenza stessa dell’umanità: non opporre resistenza a tale attentato significherebbe rendersi complici del progetto satanico di dar luogo ad un uomo senza identità.
Russia e Cina, il cappio all’Europa
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(pubblicato nel sito “In Terris” il 28 marzo 2015)
“Un’entità autonoma, molto ambiziosa con velleità imperiali”. Non usa mezzi termini Fabrizio Cicchitto, Presidente della III Commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera dei deputati, per definire il nuovo corso dettato da Vladimir Putin, quello per intenderci di annettere la Crimea, tagliare il gas all’Ucraina e tornare a evocare scenari nucleari che fanno ripiombare il mondo nell’epoca della guerra fredda. Ma dato che ogni “guerra” prende corpo da motivi esclusivamente economici, c’è da capire cosa stia accadendo nello scenario globale. Continua a leggere
Scuola, limiti e demagogia della riforma
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(articolo pubblicato in “Micromega” il 16 marzo 2015 e qui riproposto non perché interamente condivisibile, soprattutto per ciò che concerne i giudizi politici troppo prevenuti e non adeguatamente soppesati sul premier Renzi, ma perché ricco di spunti e di considerazioni certamente meritevoli di essere segnalati alla pubblica attenzione)
C’era una volta un Paese dove l’insegnante faceva lezione, dialogava, valutava. Latino, greco, filosofia, matematica, fisica… si studiavano con passione e sudore: “Niente si conquista senz’amore e fatica”, ripeteva il mio Prof. Era la buona scuola del passato. Formava persone. E, naturalmente, professionisti. I migliori medici, ingegneri, fisici, giuristi, filosofi, giornalisti, che occupano posizioni di rilievo nell’Italia di oggi, hanno fatto il liceo nella vecchia scuola di una volta. Insegnare. Una missione, prima che una professione.
Sono passati trent’anni: guidano reparti di cardiologia o laboratori d’analisi, sono avvocati e matematici e ricercatori, gli studenti di allora, ma ricordano gli anni del liceo: la severità e la comprensione (indispensabili per una valutazione non idiotamente numerica); la disponibilità all’ascolto; il silenzio, quando a parlare erano i classici, mediati dalla voce dell’insegnante. Ricordo il timbro, l’intercalare, le pause, puntuali, precise del mio professore d’italiano. Ancora oggi, lontanissima vicinanza, rammento quella voce. Una presenza che ha avuto un ruolo nella mia vita.Quella scuola, oggi, non c’è più. Decine di ministri della pubblica istruzione l’hanno distrutta. Dominano corsi e progetti: corsi di aggiornamento sulla sicurezza (senza mettere in sicurezza gli istituti); corsi sull’ambiente; la legalità; la violenza; la droga; e naturalmente progetti: sulla cittadinanza; l’altruismo; l’educazione stradale; il clima… Mi fermo. L’elenco è infinito. La scuola ha cambiato verso. Ma il cambiamento non è di per sé progresso. Lunghe riunioni pomeridiane, dove si produce carta e si discute sul nulla, sono la negazione della buona scuola: ore ed ore per programmare lezioni su slide con schemi e riassuntini annessi; filmati; valutazioni su griglie cosiddette “oggettive”; interrogazioni scritte, “con risposta vero/falso” anche in filosofia come se l’elogio socratico del dialogo fosse passato in vano. Non va bene. La scuola ha cambiato verso, ma nella direzione sbagliata.
La tecnologia domina e, continuamente, chiede d’essere rinnovata. E’ un business. Adesso sembra che le lavagne multimediali siano obsolete: “sono strumenti costosi superati dai proiettori di ultima generazione”. S’insegue l’ultima moda e l’ultima innovazione didattica, dimenticando che la lezione è, soprattutto, parola, voce, empatia: un insegnante che trasmette un’emozione, non solo nozioni. Altrimenti, meglio sostituire il docente col computer. Google fornisce informazioni più precise di quelle di qualsiasi Prof. Se si dimentica che insegnare è, anzitutto, educare a porsi delle domande la scuola è finita.
Insomma. Più ore d’informatica: giusto. Lasciando, però, alla letteratura italiana, latina, greca… alla filosofia, alla storia… il compito di trasmettere un sapere fatto di concetti, idee, visione; carico di senso; veicolato da una passione. Un sapere critico. Capace di vedere, per esempio, la demagogia di Renzi, che parla di migliorare la scuola pubblica, mentre sposta denaro verso quella privata.
Renzi è un demagogo. E un pericolo. Mette gli insegnanti gli uni contro gli altri: ha stabilito a-priori che solo il 5 % dei docenti di ogni scuola è meritevole di un premio, un incentivo economico. Com’è arrivato a “questa” soglia? Con quali criteri? Soprattutto: quali docenti verranno premiati? Deciderà il preside. Sembra già di vederli i portaborse, i leccaculo, i maratoneti dei “progetti-a-pagamento-sull’acqua-calda”, quelli che hanno sempre le carte a posto – le carte -, il registro in ordine, ma, poveretti, appena aprono bocca per fare lezione non sanno di cosa parlano. E non li ascolta nessuno. Questi, fatte le necessarie eccezioni, verranno incentivati.
Il disegno di legge concede troppo potere ai presidi. Ai dirigenti manager. Secondo uno schema aziendalistico: efficienza, profitto. Dimenticando che la scuola non è – non deve essere – una fabbrica; che gli alunni non sono una merce; che i risultati maturano nei tempi lunghi e quanti incespicano all’inizio, danno buoni risultati, spesso, alla fine del processo formativo. “Più inglese, economia, arte, e 500 euro per l’aggiornamento culturale”, dice Renzi. D’accordo. Ma non basta.
Troppe risorse sono indirizzate verso le scuole private: è un privilegio lo sconto fiscale “fino a 400 euro” per chi iscrive i figli alle scuole paritarie, si calpesta volutamente la Costituzione. Di più: “l’autonomia scolastica” consentirà di raccogliere fondi e donazioni: lascia troppo spazio agli interventi esterni nella scuola pubblica. Il rischio è che il “sostegno economico” influenzi, orienti, condizioni. Non distinguere (nettamente) le competenze dello Stato da quelle dei privati è un errore, trasforma la scuola in impresa, in fabbrica. La snatura.
C’era una volta un Paese dove il docente insegnava e dialogava e la scuola era pubblica e le finalità, gli obiettivi, li decideva lo Stato, nell’interesse di tutti, non del mercato. Quella scuola non c’è più. Ha cambiato verso, ed anche anima. Riusciremo a formare (ancora) cittadini dotati di spirito critico? Ha (ancora) questo obiettivo la nostra scuola? “Gli studi devono essere funzionali all’immissione nel mercato del lavoro.” Funzionalità e mercato. Il Dio denaro anzitutto. Non va bene. Se non educa l’istruzione pubblica alla critica dell’esistente, quale altra agenzia educativa lo farà?
Renzi non sta cambiando verso, alla scuola. La indirizza verso lidi cari alla Confindustria e alla borghesia imprenditrice di riferimento.
Angelo Cannatà