Un vescovo di altri tempi! Cipriano e la peste di Cartagine.

Vescovo di Cartagine, intorno al 250 d. C. Tascio Cecilio Cipriano  si trovò a fronteggiare una terribile epidemia di peste che avrebbe mietuto un notevole numero di vittime, ad aiutare e ad assistere spiritualmente e materialmente tutti i suoi fratelli e sorelle di fede ma anche i non cristiani e persino i persecutori dei credenti in Cristo. Quel terribile morbo pestilenziale avrebbe subito assunto agli occhi di Cipriano il significato di una prova da Dio consentita per saggiare l’integrità e la coerenza della fede dei suoi presunti seguaci cartaginesi e africani, e di una prova che in realtà avrebbe fatto emergere la pochezza di spirito, la pavidità, la viltà e la codardìa di molti di essi, per cui egli si sarebbe prodigato non solo al fine di onorare al meglio il suo compito ministeriale e di essere un degno, fedele e militante testimone di Cristo, ma anche al fine di risollevare dalla paura e dallo sconforto le anime di quanti cominciavano a disperare di non poter più sopravvivere e di dover chiudere gli occhi per sempre. Ma, egli scriveva nella sua lettera pastorale De mortalitate (Sulla morte), il Signore non aveva forse preannunciato per tempo il verificarsi di guerre, catastrofi, malattie e pestilenze? Perché dunque tanto spavento e tanta preoccupazione? Chi poteva spaventarsi realmente se non chi fosse completamente «privo di speranza e di fede»? Infatti, benché sia umano temere la morte, non si può dire veramente cristiano chi non sia disposto ad andare verso Cristo e a regnare con lui anche attraverso la morte. Non è solo vincendo questa morte terrena che si può giungere all’immortalità?

Mentre gran parte del popolo a lui affidato si lasciava attanagliare dal terrore per il rapido diffondersi del mortale contagio sentendosi svuotato di ogni capacità di reazione psicologica e morale e ripiegandosi ormai rassegnato e disperato su se stesso, il vescovo africano lo spronava a resistere alla tentazione di non vedere altro, in quello scatenamento di forze malefiche, se non la fine di ogni speranza di vita. Non perché non ne capisse le umane sofferenze, le intime afflizioni e una particolare angoscia che anche Cristo aveva in sé sperimentato, ma perché non gli sembrava comprensibile e giustificabile che la fede tante volte pubblicamente professata da tutta quella gente si rivelasse, nel momento della difficoltà e della tribolazione, così fragile, debole, inconsistente, sino a non consentire più di avvertire la presenza di Cristo nella propria esistenza. Come poteva accadere una cosa del genere se non per il fatto che la parola, le promesse, l’intera predicazione salvifica del Signore, fossero in realtà percepite come non abbastanza veridiche e non realisticamente rassicuranti?

  Ma, argomentava Cipriano nel rivolgersi agli «amati fratelli», «se un uomo influente e rispettabile ti promettesse qualcosa, avresti fiducia nella sua promessa e non penseresti di essere ingannato o imbrogliato da un uomo che conosci per le sue parole e azioni. Ora Dio ti sta parlando e tu vacilli senza fede nella tua mente di non credente? Dio ti promette l’immortalità e l’eternità quando lascerai questo mondo, e tu dubiti? Questo significa non conoscere Dio! Questo significa offendere Cristo, Maestro della nostra fede, con il peccato dell’incredulità! Questo significa, pur appartenendo alla Chiesa, non avere fede nella Casa della Fede» (De mortalitate). Non ci si dovrebbe sentire sollevati dalla concreta possibilità di liberarsi finalmente dalle angustie, dalle catene e dalle iniquità del mondo, dai peccati e dai vizi della carne, dalle velenose tentazioni del diavolo, e per contro dalla opportunità ancor più concreta di andare incontro a una gioia senza fine in Cristo Gesù? 

Forse la debole fede di alcuni credenti, era la riflessione del vescovo di Cartagine, era dovuta alle loro false aspettative, al fatto cioè che si sarebbero aspettati da Dio di essere, se non completamente risparmiati, almeno più protetti dalla peste e dai mali della terra rispetto a non credenti e a pagani. Invece, vedendosi trattati come gli altri o peggio degli altri, si scoprivano molto più vulnerabili di quel che potessero supporre e quindi anche disillusi e quasi ingannati dalla loro stessa fede. Ma quella, in vero, era solo una falsa fede, una fede immatura o male assimilata, non la fede che il Salvatore aveva inteso trasmettere agli apostoli e a tutti i suoi seguaci. Ed essendo una fede fasulla non poteva che produrre comportamenti di vita altrettanto fasulli, anche se pur sempre bisognosi di compatimento, solidarietà e accorata preghiera. In realtà, il cristiano consapevole della vera e più profonda natura della sua fede, sa bene che «deve soffrire di più rispetto agli altri nel mondo, che deve combattere di più contro gli assalti del diavolo. La scrittura divina insegna e ammonisce dicendo: «“Figlio, quando ti avvicini a servire Dio, resta nella giustizia e nel timore e prepara l’anima tua alla tentazione” (Sir 2, 1) e di nuovo: “Sii forte nel dolore e sii paziente nell’umiliazione, perché l’oro e l’argento si provano nel fuoco” (Sir 2, 4-5)»  (ivi).

Prototipi di vera e ammirevole fede sono figure bibliche come Giobbe, Tobia, gli apostoli storici di Gesù, ad eccezione di Giuda, e più in generale tutti quei giusti che, sulle orme di Gesù crocifisso, pur soffrendo molto sia per le calamità e le sventure del mondo sia per gli eventi dolorosi della propria vita, non ebbero mai a lamentarsi o a mormorare contro Dio, ma seppero accogliere e tollerare sempre con coraggio e pazienza persino le più drammatiche contrarietà. I cristiani non devono temere la morte, né devono disperarsi per la morte di familiari ed amici, anche se non è umanamente ed emotivamente possibile restare indifferenti o imperturbabili di fronte ad essa, in quanto la morte è necessaria per essere introdotti alla vita eterna e immortale del Regno dei cieli.

Sin dai tempi di Mosè, lo Spirito Santo ammonisce i suoi figli, soggetti all’errore e al peccato, e li sottopone a prove difficili per verificare la consistenza e la sincerità della loro fede, affermando: «Il Signore Dio tuo ti colpirà con delle tribolazioni e ti farà soffrire la fame e si saprà se hai ben custodito i suoi comandamenti nel tuo cuore oppure no (Dt 8, 2)», e anche: «Il Signore Dio vostro vi tenta, per sapere se amate il Signore Dio vostro con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima (Dt 13, 4)». Ecco: contrariamente a quanto oggi la Chiesa viene stabilendo con i suoi teologi, con le sue commissioni di esperti, con il non molto ispirato impulso pontificio, il Signore tenta, può tentare, può indurre in tentazione, come ebbe a recitare giustamente lo stesso Gesù, per saggiare la fede dei suoi figli, dei suoi giusti, dei suoi stessi ministri, per consentire a costoro di essere consapevoli dei propri limiti, delle proprie forze, come anche dei doni ricevuti dall’alto.

Non ci sono errori di traduzione, insufficienze ermeneutiche, ambiguità teologiche nel continuare a pregare il Signore con la frase “non indurci in tentazione”: gli errori, le insufficienze, la presunzione e le ambiguità, sono tutte interne alla testa degli innovatori ecclesiastici di oggi, che non sanno o non vogliono capire che, se a Dio nulla è impossibile, Egli può evidentemente qualunque cosa, può concedere dei beni così come può inviare o consentire dei mali, elargire grazie o comminare pene e castighi, può anche spingere verso una prova molto difficile, verso una verifica spirituale particolarmente impegnativa, e dunque può anche indurre in tentazione al fine di trarne del bene anche se la creatura dovesse uscire dalla tentazione subìta piuttosto malconcia o sconfitta. D’altra parte, non è forse scritto, a proposito di Salomone che peccava e si allontanava dalle vie del Signore: il Signore suscitò Satana contro di lui (Cfr. 2 Re 12)? Bisogna altresì precisare che, mentre le tentazioni di Satana sono tutte indistintamente malefiche e funzionali alla dannazione delle anime, le tentazioni di Dio sono tutte benefiche e funzionali alla salvezza delle anime o almeno al loro progresso spirituale, e noi imploriamo il Signore di non indurci in tentazione solo per umiltà, solo perché coscienti della nostra fragilità e delle nostre debolezze, e quindi implicitamente per chiedere la sua compassione paterna e la sua particolare benevolenza, non certo perché dimentichi che Egli non possa essere minimamente equiparato al demonio. Infine, lo stesso Cipriano precisa: «il nemico non può fare niente contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore e devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre tentazioni niente è lecito al Maligno, se non gliene vien data di là la facoltà» (De dominica oratione, or. 25).

Dio può fare tutto quello che vuole, può aprire e chiudere il cielo, può essere misericordioso e fare giustizia, elargire grazie e doni insperati oppure scatenare sulla terra calamità, catastrofi e castighi inimmaginabili, e qualunque cosa venga facendo non può che risultare inscritta nella sua divina volontà di verità, di giustizia, di carità e di santità. Cipriano avrebbe desiderato che anche i suoi concittadini avessero pregato nello stesso modo e avessero detto: Padre, non indurci nella tentazione di pensare che tu ci abbia abbandonato, che tu ti sia stancato di noi e delle nostre persistenti fragilità, che tu voglia imporci pesi che non possiamo portare; non indurci nella tentazione di temere che tu possa lasciarci in situazioni troppo più grandi di noi, troppo seducenti o troppo pericolose per i nostri sensi e le nostre risorse morali e spirituali; non indurci nella tentazione di chiederti cose che non corrispondono alla tua volontà e ai santi decreti della tua divina legislazione; soprattutto non indurci nella tentazione di rinfacciarti qualcosa che non ci è gradito o di sospettare che il nostro sincero seppur indegno amore per te possa andare alla fine da te disconosciuto o ignorato.

Allora come oggi la salvezza era una questione di sguardo: lo sguardo della nostra fede, per cui gli occhi delle nostre anime si possono abbassare o si può provare ad alzarli. La paura costringe sempre ad abbassare lo sguardo. Così si riesce a vedere solo il morso dei serpenti che uccide. Gli ebrei spesso ribelli e ingrati, guidati da Mosè nel deserto, insegnano. La loro sciagura di essere morsi e uccisi da serpenti velenosi, come l’epidemia dilagante nella Cartagine di Cipriano, e come la pandemia che anche noi stiamo oggi sperimentando, era dovuta alla loro inclinazione a preoccuparsi di cose molto terrene piuttosto che di ben più appaganti cose celesti e a trattare Dio in un’ottica terrena piuttosto che le realtà di questa terra in un’ottica divina. Quando poi arrivano sciagure inattese, come cataclismi oltremodo distruttivi, guerre devastanti o malattie mortali e incontrollabili, un’umanità generalmente abituata a tenere basso lo sguardo per dedicarsi agli affari del mondo e a non alzarlo mai verso l’alto se non per contemplare in senso meramente paesaggistico, naturalistico o ambientalistico, la bellezza e la complessità dell’universo, tende in modo inevitabile a cercare una via d’uscita, una soluzione, un rimedio ancora una volta terreni alle sue problematiche esistenziali, forse vittima della terribile tentazione di credere che un Dio avvertito così lontano in tempi di relativa normalità e tranquillità, non possa essere che percepito ancora più estraneo alla vita degli uomini nei giorni in cui la cattiva sorte si abbatte su essi.

Talvolta, storicamente, il popolo di Dio si ammala: ieri per il morso dei serpenti o per la virulenza della peste, oggi a causa di un virus sconosciuto e difficilmente neutralizzabile. Ma si ammala non solo fisicamente, bensì anche e forse soprattutto spiritualmente, perché quel morso o quel virus avvelenano anche il cuore: sono, scrivevano don Michele Di Monte e don Simone Garavaglia alcuni mesi or sono in una loro bella introduzione proprio al De mortalitate di Cipriano, il morso e il virus della delusione, della mormorazione, dello sconforto: «il serpente, l’antico tentatore, vuole liquidare le creature di Dio dimostrandone il fallimento. Tutto è perduto, si vede solo una morte senza riscatto. Avvelenando il cuore, quel morso provoca una delusione che ristagna, e finalmente uccide. È il morso della delusione di Dio che porta gli uomini a provare a salvarsi da soli. Così anche in questi giorni, segnati dalla paura e dalla sofferenza dell’epidemia da Coronavirus, soffocati dallo smarrimento, si è tentati di abbassare lo sguardo. Si guarda solo in basso, ci si gira a destra e a sinistra, senza trovare salvezza. Allora, forse, l’unica speranza che rimane sembra essere un generico, fumoso e debole: “Andrà tutto bene!”. Non è però così! Ad alcuni non andrà bene; ad altri sta già andando male!  Questo guardare in basso consiste ultimamente nella nostra resistenza alla fede, nell’incapacità di andare fino in fondo nella nostra vita a ciò che questa fede ci domanda. In ultima analisi, questo significa che il terrore della morte domina ancora – cristiani e non cristiani –, nonostante l’esempio paradossale della morte, giustamente chiamata gloriosa, di Cristo in croce per noi».

Ma, scriveva Cipriano, morto martire, la «parola di Dio ci chiede, invece, di alzare gli occhi: “Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto” (Gv 19, 37)», perché è nell’immagine del Crocifisso innocente che sono stati crocifissi per sempre il peccato, la malattia, la disperazione, la morte. Quel serpente infilzato in un’asta è un serpente trafitto che ormai non può più nuocere ma che dobbiamo guardare verso l’alto per trasformare quella causa di morte in occasione di pentimento e di guarigione, e così bisogna fare per la peste o per il coronavirus: bisogna guardare verso l’alto, verso colui che è appeso su quella croce di sofferenza e di morte, perché proprio fissando il male che ci affligge, ci tormenta e ci uccide, nel volto umano e divino di colui che impersona l’innocenza, la purezza e il bene assoluti, possiamo trovare la forza di pentirci e di convertirci ancora e sempre alla fonte perenne di ogni vita, la giusta terapia di guarigione, la nostra definitiva salvezza. 

Il veleno, il morbo, il virus letale, sono dati come occasione di pentimento, di intima contrizione e sofferta ricerca interiore, come divina rivelazione di salvezza. Ma essi sono solo contingenze particolarmente drammatiche della vita e della storia umane che hanno tuttavia l’importantissima funzione di evidenziare in che modo debba venire esercitandosi la fede nei momenti ordinari dell’esistenza umana. Che ci siano o non ci siano pericoli o minacce imminenti, scrive Cipriano, il timor di Dio e una fede intrepida devono accompagnarci in ogni momento della nostra vita, devono sempre «renderti pronto a tutto. Si tratti pure della perdita delle tue proprietà, del tormento incessante e doloroso delle membra afflitte da un’atroce malattia, della triste e dolorosa separazione dalla moglie, dai figli e dai cari che periscono: per te tali eventi non siano disgrazie ma combattimenti; non indeboliscano e neppure infrangano la fede del cristiano, ma piuttosto mostrino nella prova il suo valore, poiché la fiducia nei beni futuri deve far disprezzare ogni sofferenza derivante dai mali presenti. Se non precede il combattimento, non può esserci vittoria! Solo quando nell’infuriare della battaglia si sia giunti alla vittoria, è donata ai vincitori anche la corona. Nella tempesta si riconosce il valore del nocchiero, sul campo di battaglia si tempra il soldato. Quando non c’è pericolo la battaglia ha poco valore. È nelle avversità che si riconosce il vero conflitto, quando il combattimento comporta dei rischi. Un albero che ha radici profonde non è scosso dalla violenza dei venti, la nave che è stata rinforzata da solide giunture è sbattuta dai flutti, ma non viene affondata; e quando nell’aia si trebbiano le messi, i grani forti e robusti disdegnano i turbini, mentre la pula è trascinata e portata via dal vento» (13, 14).

Affrontare il dolore e la morte in modo cristiano non significa recriminare, protestare contro il crudele destino, contro l’inadeguatezza degli aiuti o dei soccorsi umani, e magari contro l’indifferenza divina, ma, sebbene comprensibilmente accompagnati da un velo di mestizia, significa affrontare con coraggio, con fiducia, con speranza, la più dura e terribile prova della propria vita, significa affrontarla sollevando lo sguardo e il cuore verso il cielo e verso colui che del cielo come della terra è supremo sovrano. Le parole di Cipriano sono molto sentite, partecipate e intrise di realistica religiosità, anche se probabilmente molti nostri vescovi contemporanei avrebbero serie difficoltà a farle proprie, posto che ne siano o ne fossero spiritualmente capaci, perché prive di quella retorica dell’umano e della fede che va tanto di moda nella società globalizzata e che non prevede scenari così severi, in un certo senso inquietanti, e apparentemente indelicati e discriminatori come quello che in tali parole si viene dischiudendo: «Molti di noi stanno morendo durante questa terribile epidemia, e ciò significa che molti di noi sono liberati dal mondo. Questa mortalità è una rovina per i giudei, i pagani e per i nemici del Cristo, ma per i servi di Dio essa è una partenza salutare. Il fatto che senza alcuna distinzione tra gli uomini i giusti periscano insieme agli ingiusti, non deve farvi pensare che la morte regali un destino comune ai malvagi e ai buoni. I giusti, infatti, sono chiamati al riposo, gli ingiusti sono trascinati al supplizio: è concessa più velocemente la protezione ai credenti, il castigo ai malvagi. Amati fratelli, siamo sciocchi e irriconoscenti nei confronti dei benefici divini e non capiamo che cosa ci è concesso» (ivi). 

Immaginate cosa succederebbe oggi se un vescovo definisse pubblicamente i suoi fedeli “sciocchi e irriconoscenti”! Come minimo sarebbe costretto (da stampa, televisione, dalle sue stesse gerarchie curiali) a scusarsi con l’universo mondo, oltre che con i diretti interessati, e a fare mea culpa per essersi permesso di metterne in discussione la sensibilità spirituale. Ma, come, si direbbe, la gente muore tra atroci dolori e questo vescovo va predicando che la morte sarebbe un guadagno per chi desidera vivere eternamente con Dio e in integrale prossimità di Dio? Non solo, questo strano vescovo aggiunge pure che, dopo la morte, non tutti avranno lo stesso destino e che i credenti, non però i falsi credenti, godranno di una particolare protezione nel giudizio di Dio, e infine che i veri credenti sanno riconoscere persino nelle vicende più drammatiche e luttuose i segni della misericordia e della salvezza divine? Non sarà eccessivo tutto questo, sarebbe la sarcastica obiezione dei più? E, infatti, c’è da domandarsi seriamente se e dove esistano ancora vescovi capaci di proporre le stesse argomentazioni religiose, anzi fedelmente evangeliche, e di usare lo stesso linguaggio affettuoso, paterno, caritatevole, ma anche fermo, franco, veritiero, teologicamente e apostolicamente ineccepibile e doveroso di quel grande vescovo cartaginese del III secolo e padre venerabile dell’antica Chiesa cristiana.

Ma, in realtà, il discorso di Cipriano non possiede solo un alto significato religioso, essendo anche intriso di profondissima umanità. Certi flagelli, infatti, sono lì ad evidenziare se le persone sane si mettono realmente al servizio dei malati, se l’amore tra consanguinei sia sincero o solo di facciata, se i datori di lavoro si diano concretamente pensiero dei loro dipendenti, se i medici siano e fino a che punto inappuntabili nel loro lavoro, se coloro che di solito si comportano in modo violento riescano a reprimere la loro aggressività, se gli avidi diventino capaci di rinunciare a buona parte dei loro appetiti non foss’altro che per la paura di morire, se orgogliosi e superbi sappiano concedersi qualche utile pausa di riflessione e moderare il proprio atteggiamento sfrontato e altezzoso. E, in ogni caso, scrive Cipriano, quand’anche l’epidemia in corso non servisse a nient’altro che a seminare morte e disperazione, essa « giova moltissimo a noi cristiani e ai servi di Dio … Per noi questa epidemia è un esercizio, non uno sterminio, perché offre la corona della fermezza all’animo, preparato alla vittoria grazie al disprezzo della morte» (ivi).

Omelie e lettere come quelle di Cipriano non possono non scuotere anche la coscienza dei cattolici del terzo millennio: anzi, più ci si allontana dal tempo in cui visse Cristo, più si rende necessaria una costante e rigorosa riflessione sul nostro modo di credere, di pensare e di agire, perché con lo scorrere del tempo non c’è evento o vissuto spirituale e religioso che non tenda a perdere un po’ della sua originaria forza o densità emotiva e ad andare incontro a una sorta di rarefazione delle iniziali forme di coinvolgimento spirituale. Realisticamente ciò accade per tutto ciò che viene generandosi storicamente e persino per quanto riguarda le più alte creazioni culturali come per le più imponenti o vitali esperienze spirituali, ivi compresa quella evangelico-cristiana, non c’è dubbio che il loro significato, il loro valore, la loro attrattività, pur sedimentandosi,  conservandosi e mantenendosi sostanzialmente integri, attraverso complesse e faticose elaborazioni di studio  e impegnativi approfondimenti intergenerazionali, nella memoria storica dei popoli e dei singoli, non possono tuttavia sottrarsi del tutto a lenti ma sensibili mutamenti percettivi di natura intersoggettiva.

E’ anche per questo che Gesù avrebbe affidato alla sua Chiesa il compito di annunciare, tramandare, testimoniare la buona novella ovvero se stesso. Ma, questo è il punto, si può forse ragionevolmente sostenere che il nostro tempo sia caratterizzato dalla capacità della Chiesa cattolica di rendere abbastanza vivo, abbastanza presente, abbastanza profetico e partecipe dei reali problemi del genere umano, il Cristo storico e il suo stesso messaggio salvifico? Abbiamo sempre più a che fare con una Chiesa che insegue o è succube del “politicamente corretto”, del conformismo acritico di massa, della generica e variopinta spiritualità prodotta dalla cosiddetta “società liquida”, informe, caotica, frammentata, dispersiva, per cui, anche se formalmente essa continua a professare la sua fede, troppo spesso accade che lo faccia più pensando alle logiche e alle istanze umanitarie del mondo che non conformandosi ai pensieri, ai precetti, ai consigli, agli avvertimenti, ai moniti e insomma ai contenuti effettivi e inviolabili della Parola di Dio.

Volendo esemplificare, si può star certi che, pur disposta a sottoscrivere il paterno e accorato rimprovero espresso nel seguente brano della lettera di Cipriano, la nostra Chiesa non ne intenderebbe il reale significato, se non alterandolo o fraintendendolo in non trascurabile misura: «perché preghiamo e supplichiamo che venga il regno dei cieli, se ci piace così tanto rimanere prigionieri sulla terra? Perché preghiamo con orazioni incessanti e invochiamo ad alta voce che si affretti il giorno del Suo regno, se i nostri desideri autentici e i nostri voti più fervidi sono finalizzati a servire sulla terra il diavolo, piuttosto che a regnare nei cieli con il Cristo?» (ivi). Già, come si può invocare il Regno se a noi piace il mondo o, almeno, lo riteniamo più desiderabile di altri mondi puramente “annunciati”? Perché dovremmo desiderarne l’imminente avvento, visto che in fin dei conti ci siamo ambientati così bene in questa “valle di lacrime”, in cui gli esseri umani possono fare tutto e il contrario di tutto?

In un certo senso, né il vescovo di Roma né tutti gli altri vescovi, forse, avrebbero alcunché da ridire al riguardo, salvo poi a scoprire che essi non si pongono affatto, o se lo pongono molto marginalmente, il problema del destino ultraterreno dell’umanità, che era assolutamente centrale nel pensiero di Cipriano, e quindi il problema del giusto e insindacabile giudizio divino in relazione alla condotta che ogni essere umano avrà tenuto nel corso della sua vita terrena. Cipriano avrebbe sottoscritto ogni parola pronunciata da Gesù e da quel rocciosissimo Pietro che il divino Maestro avrebbe additato ai posteri come modello ideale di vicario di Cristo in terra. Ma è pensabile che l’odierno pontificato, fautore ad oltranza delle migrazioni di massa, delle convivenze e dei matrimoni omosessuali, della pacifica e paritaria coesistenza delle confessioni religiose nel mondo, di un ecumenismo aperto ad eretici di ogni genere e di un pauperismo ideologico e moralistico di ispirazione populistica, di interpretazioni piuttosto approssimative ed avventurose delle caratteristiche e degli attributi ontologici costitutivi dell’identità divina, sarebbe disposto a ripetere e ribadire fedelmente, parola per parola, le seguenti profetiche parole di san Pietro apostolo: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta. Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia. Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia» (2Pt 3, 10-14)?    

Questo è un tempo di larvata apostasia: per le nostre autorità ecclesiastiche è diventato opinabile, in certi casi, che il dover dare a Dio possa o debba minimamente collidere con il dover dare a Cesare, e sia pure con un Cesare moderno e democratico, e infatti accade, per periodi indefiniti di tempo, che chi entri oggi in chiesa per partecipare alla santa messa debba ottemperare, su categorica ingiunzione delle autorità statali, a regole sanitarie imprescindibili e prevalenti sul semplice atto di fede dei credenti e sulle tradizionali regole spirituali di compostezza interiore ed esteriore, tanto che quest’ultime possono essere anche violate o aggirate nel nome della salute corporale di ciascuno e di tutti (si pensi al modo anomalo di somministrare l’eucaristia). Quanti di noi cattolici saranno ancora così innamorati di Cristo da sottoscrivere con il cuore le magnifiche e audaci parole del vescovo Cipriano: «noi che viviamo nella speranza e crediamo in Dio e siamo certi che Cristo è morto per noi ed è risorto, confidando in Cristo e risorgendo grazie a Lui e in Lui, perché mai non vogliamo andarcene da qui, dal mondo, o piangiamo e siamo addolorati per i nostri cari che se ne sono andati come se fossero persi del tutto?» (ivi).

Ma, soprattutto, quanti di noi cattolici potranno ricevere in grazia l’opportunità di sentir parlare pubblicamente un vescovo di questo tempo come quel glorioso vescovo del III secolo dopo Cristo? E, più precisamente, in questi termini: «Amati fratelli, dobbiamo riflettere e meditare spesso sul fatto che noi abbiamo rinunciato al mondo e che viviamo sulla terra come ospiti e pellegrini temporanei. Dobbiamo abbracciare con gioia quel giorno che assegna i singoli uomini alla loro dimora. Quel giorno che riconduce al paradiso e al regno dei cieli noi che siamo stati tolti da qui e liberati dalle catene del mondo. Chi, stabilitosi in terra straniera, non anela a tornare presso nella sua patria? Chi, affrettandosi a navigare verso i suoi cari, non desidera molto ardentemente un vento favorevole, per poterli abbracciare al più presto? Noi, che consideriamo come nostra patria il paradiso e i patriarchi come i nostri parenti: perché non ci affrettiamo e corriamo, per vedere la nostra patria e salutare i nostri familiari? Lì ci attende un gran numero di persone care, una folla numerosa di genitori, fratelli, figli ci aspetta, ormai sicura della propria incolumità ma ancora preoccupata della nostra salvezza. Quanta gioia sarà in comune fra noi e loro, come sarà bello giungere di fronte a loro e abbracciarli; quale godimento del regno celeste ci sarà, senza il timore della morte! Quanto grande, enorme ed eterna felicità ci sarà, nel vivere per sempre! Lì il glorioso coro degli apostoli, lì la folla dei profeti esultanti, lì la moltitudine innumerevole dei martiri, che ha conseguito la corona e la vittoria sulle passioni, lì trionfano le vergini che sottomisero la concupiscenza della carne alla forza della continenza, lì i misericordiosi, ricompensati per i loro meriti, i quali fecero opere di giustizia, donando cibo e denaro ai poveri: tutti quelli che osservano i comandamenti del Signore, perché trasferirono i loro beni terreni nel tesoro celeste, sono lì in trionfo» (ivi).

Viva Cipriano, grande e vero apostolo di nostro Signore Gesù Cristo! Se fosse ancora tra noi, organizzerebbe una grande processione popolare e nazionale con la quale proporrebbe sapientemente di elevare a Dio una corale supplica di perdono per i nostri peccati e la durezza della nostra cervice. Probabilmente, il coronavirus, per essere debellato, non avrebbe bisogno dei molti imperfetti vaccini che la scienza sta approntando, perché ne basterebbe uno, il più potente e risolutivo di tutti: Cristo!

Francesco di Maria

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