Un enigma chiamato Unione Europea

Dopo vent’anni dalla sua nascita, è molto difficile sostenere che l’Unione Europea contenga, sia pure embrionalmente, una nuova forma di statualità, di società o comunità politica. E se ci si chiede quale sia realmente l’originalità e la funzione politica di questa complicata forma di governo, la risposta appare molto difficoltosa e incerta, giacchè la prassi ha dimostrato chiaramente che essa, lungi dal rappresentare lo strumento ideale dell’unificazione e del progresso economico, sociale e culturale di tutti i paesi europei, è stata e continua ad essere principalmente fonte di divisione, di conflittualità, oltre che di sostanziale regresso economico e finanziario per la maggior parte di essi. Qualcosa di analogo era accaduto nell’epoca primonovecentesca dei totalitarismi europei, quando, al loro sorgere, furono molti a pensare che essi avrebbero introdotto in un’era storica di ordine, di prosperità e di pace su tutto il continente europeo, mentre poi, come subito ebbe a temere i loro più convinti oppositori, avrebbero presto mostrato il loro volto di violenza organizzata, di repressione di tutte le libertà civili, politiche e religiose, di ferocia militarista e guerresca.

Anche oggi, infatti, l’Unione Europea appare più come una solenne ma non mantenuta promessa di un radioso futuro che come una rigogliosa realtà geopolitica in grado di garantire lavoro, benessere, sicurezza, emancipazione civile e culturale a tutti i popoli che ne fanno parte. La stessa centralità che essa, secondo le previsioni più entusiastiche, avrebbe dovuto assumere nello scacchiere mondiale al fine di riorientare, a livello planetario, i processi decisionali ed economico-finanziari, di rilanciare i programmi ambientalistici, di combattere in modo risolutivo la piaga ancora esistente del sottosviluppo e di ridurre le distanze informatiche e tecnologiche tra le diverse aree del mondo, si è dimostrato nient’altro che un mero postulato disatteso, a giudicare dal netto e costante prevalere di altre leaderships internazionali, come quella asiatica e cinese, come quella statunitense e quella russa, tanto che, avvilita anche sotto questo aspetto, la Gran Bretagna ha optato alla fine per l’uscita dalla UE.

Ora, bisognerà pur chiedersi come si svilupperà il profilo politico di questa governance europea, al momento molto ambigua e difettosa: se in direzione di una democrazia sempre più autoritaria, plutocratica, burocratica e centralizzata, volta a restringere il tenore di vita e gli spazi di libertà dei cittadini europei, oppure in direzione di una vera e matura democrazia federativa e rappresentativa, pluralista e partecipativa, in cui i rappresentanti eletti di ciascun popolo non abbiano facoltà di deliberare e legiferare a proprio piacimento e in modo difforme dalla reale volontà dei propri rappresentati, ma siano obbligati a non svincolare le proprie proposte, le proprie decisioni e i propri voti dalle esigenze, dalle reali priorità e dalle aspettative sostanziali di quest’ultimi. Sarebbe certamente possibile individuare meccanismi e procedure idonei a garantire che ciò risulti fattibile.

Non è che si voglia diffidare dei tecnocrati e defenestrarli da ruoli di responsabilità politica, ma si tratta ormai di capire che i tecnocrati non possono scavalcare gli indirizzi, gli orientamenti, le prospettive generali che vengono prendendo spontaneamente forma nel quadro di convincimenti e opzioni ben radicati nel tessuto sociale e nella cultura di un popolo o di una nazione, e che devono al contrario esercitare il loro estro, il loro genio propositivo e creativo, pur sempre all’interno delle coordinate generali di una volontà popolare che, per quanto appaia non priva di un’interna relativa conflittualità e  formalmente sfaccettata, variegata, differenziata, può e deve essere interpretata in modo corretto e rigoroso, a prescindere dagli umori politici provenienti dai poteri forti costituiti in Europa e nel mondo.

Ma, sin quando la storia e la cultura migliori, e direi anche la specificità nazionale di ogni singolo popolo non sarà riconosciuta, accettata, rispettata e valorizzata, l’idea di nazione e di nazionalità, non certo di nazionalismo che è cosa profondamente diversa, potrà continuare ad ergersi validamente e in modo del tutto legittimo contro ogni tentativo o processo transnazionale e meramente tecnocratico volto a rendere anonimi e insignificanti sia i popoli che gli individui, irreggimentandone la vita e i destini negli angusti e oppressivi schemi di una demoniaca volontà di potenza sempre storicamente risorgente e contro cui un’umanità che non si stanchi mai di pensare e di sentire dovrà continuare a lottare fino alla fine dei tempi. Il conflitto attraverserà sempre la storia degli uomini, ma chi si illude di poterlo superare con un’omogeneizzazione forzata dei modi o degli stili di vita, dei modelli culturali e delle fedi religiose, ha già condannato il genere umano ad una conflittualità sempre più violenta e distruttiva.

Francesco di Maria

Lascia un commento