Per l’Italia cattolica l’euro non è un tabù

di TIZIANA FRESCOBALDI

In Italia stiamo tutti peggio di 10 anni fa. Tutti, tranne i ricchi ognuno dei quali riesce a racimolare un reddito pari a quello di 100 poveri. Una persona su 10 sta benissimo, nel senso che vive nel lusso, mentre gli altri nove, e quindi quasi tutti, pur divisi per età, sesso, area geografica, sono accomunati dal declino economico e forse non solo economico.

Questo è, senza tema di smentita, il risultato di trent’anni di liberismo che ha ben fatto il suo lavoro: trasferire ricchezza dai redditi più poveri ai redditi più ricchi e già ricchi, rendendo più deboli il lavoro e lo stesso Welfare che sul reddito di lavoro in massima parte si sostiene e il capitale e le iniquità sociali che da esso sono continuamente alimentate più forti. L’origine della crisi attuale in Italia e in Europa è tutta qui. L’unica alternativa ad una grande e molto prolungata depressione è nella volontà politica di cambiare politiche molto alla svelta per puntare ad un benessere sostenibile e ad un’economia forse non particolarmente prospera ma almeno più giusta di quella attuale.

Questo è, in sostanza, il messaggio, più che documentato e attendibile, del libro di Mario Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa, Laterza, 2012. L’incontrollata ascesa della finanza, principale responsabile delle gravi crisi del 2008 e del 2012, il perseguimento in chiave liberista di un’integrazione europea funzionale all’apertura indiscriminata dei mercati e alla circolazione della moneta unica, sono le due colonne portanti di un progetto europeo, in vero privo di progettualità sociale e capacità di investimento, che non si è mai preoccupato di considerare l’asimmetria tra le diverse economie continentali, né di come si dovessero governare i mercati, né di cosa fare per evitare che alla lunga la costruzione europea risultasse politicamente insensata e democraticamente carente.

E’ accaduto cosí che, in presenza del debito pubblico e anche privato in alcuni casi, ci si impantanasse e che paesi come la Germania, sia pure per legittimi interessi nazionali, pretendessero quelle politiche di austerità che hanno combinato e stanno combinando disastri soprattutto o prevalentemente nei paesi dell’Europa meridionale.

In Italia, nell’ultimo decennio, si è verificato un netto calo della produttività e dei salari insieme ad un significativo abbassamento degli investimenti, della ricerca e dell’innovazione, e insieme ad un vertiginoso aumento della disoccupazione. A causa del tasso fisso del cambio dell’euro, si è importato di più ed esportato di meno, e si è finanziato deficit e debito pubblico con richiesta e affluenza di capitali che ci hanno reso economicamente ancora più deboli. Tutto ciò ha fatto crescere a dismisura, più che in qualunque altra parte d’Europa, i profitti e le rendite finanziarie, tanto che alla fine la situazione nazionale, anche statisticamente, corrisponde ai dati forniti all’inizio dell’articolo.

L’essersi supinamente adeguati alle direttive miopi e vessatorie di Bruxelles ha finito per condannare all’impoverimento il nostro paese e per favorire il crescente potere di grandi imprese straniere e della aggressiva finanza globale. Era peraltro inevitabile che, in questo modo, venissero alimentati, insieme ad una più che legittima mobilitazione critica e morale di molta gente, anche nazionalismi e razzismi beceri e pericolosi. Ora è evidente che, senza  cambiare radicalmente le politiche europee e di conseguenza quelle nazionali, si muore. Bisogna cambiare subito, a cominciare dalla dipendenza unilaterale e sempre più accentuata in cui lo Stato italiano è venuto a trovarsi rispetto all’Unione Europea e al nuovo capitalismo finanziario di cui essa ha costituito e costituisce di fatto un potente e servile strumento di affermazione.

Bisogna restituire centralità agli Stati e a quello italiano in particolare in modo che essi, sempre più forti di una ritrovata autonomia decisionale, possano esercitare la funzione che loro compete, ovvero di controllo e di contenimento rispetto ad un capitalismo sempre più spregiudicato e vorace che punta direttamente al totale smantellamento dello Stato sociale e delle libertà costituzionali e democratiche.

Qui non si tratterà più semplicemente di contrastare e arginare lo strapotere di potenti gruppi bancari anche attraverso, per esempio, la pur utile costituzione di circuiti di Monete complementari regolarmente riconosciuti dallo Stato che dovrebbe garantirne il normale funzionamento per l’utilità dei cittadini necessitati a ricorrere all’intermediazione di piccoli prestiti a condizioni vantaggiose, ma il problema principale sarà quello di trovare un modo concordato tra i partners europei per smantellare le strutture autoritarie, burocratiche e dirigiste di questa Europa non solo fallimentare (perché tutto umanamente e storicamente è fallibile) ma direttamente o indirettamente criminale.

E’ sempre più difficile, infatti, non condividere l’analisi e il giudizio di Giovanni Passali, che è uno dei più valenti esperti italiani di mercati finanziari. Egli ha messo a fuoco in senso rigorosamente tecnico le principali criticità della politica monetaria europea individuandone «due elementi di fatto: il primo è il piano di politica monetaria criminale, attuato dalla BCE sin dalla nascita dell’euro nel 2001, quando divenne la moneta ufficiale nell’economia reale, un piano di distruzione dell’economia realizzato con la creazione di un eccesso spaventoso di moneta, che andava ad alimentare bolle speculative sui mercati finanziari; il secondo è il crollo repentino della massa monetaria, che ovviamente è avvenuto tutto a spese dell’economia reale (mentre nei mercati finanziari continua a permanere un eccesso di liquidità)» (Cosí euro e BCE hanno distrutto l’economia, in “Economia e Finanza” del 7 gennaio 2014).

Già nel febbraio 2013, Passali aveva sostenuto che, a cominciare da Draghi che dichiarò l’anno scorso che avrebbe fatto “di tutto per sostenere l’euro”, tutti i burocrati interessati al mantenimento e al rafforzamento dell’euro non hanno alcuna intenzione di aiutare i popoli e le loro economie, pur sforzandosi di spiegare che un euro forte è molto vantaggioso per le esportazioni e per le capacità imprenditoriali e produttive di paesi come il nostro che puntano molto sull’esportazione. In realtà, egli spiegava, «certi poteri, soprattutto tedeschi, vogliono distruggere la nostra economia reale per poter esportare qui da noi senza una concorrenza fastidiosa. E per fare questo ci caleranno nell’inferno di una Grande Depressione» (Ecco come i “poteri forti” stanno demolendo l’Italia, in “Economia e Finanza” del 5 febbraio 2013).

Ora, con l’attuale struttura finanziaria e monetaria non sarà possibile alcuna “crescita” tranne che per i mercati finanziari che seguono logiche diverse da quelle dell’economia reale, per cui anche il famigerato “debito pubblico” sarà sempre meno sostenibile, e l’euro non potrà in alcun modo sostenere la nostra economia anche perché, come detto, non è stata creata per questo. Come evitare la catastrofe? La risposta è molto chiara: «Dobbiamo riprenderci la sovranità monetaria e imporre, almeno a casa nostra, un modello completamente diverso di sistema monetario, non basato su un sistema di banche centrali. E dobbiamo farlo istituendo sistemi di Moneta complementare…Cosa stiamo aspettando?» (ivi).

E’ infatti improbabile che l’euro, una moneta creata più per le esigenze dei banchieri che per le esigenze dei popoli, possa assolvere, persino in un mutato e più lungimirante contesto politico europeo, una funzione molto diversa da quella funzione fondamentalmente tirannica e distruttiva che ha assolto fino ad oggi. Anche il mondo cattolico, specialmente quello impegnato nel sociale, comincia finalmente a percepire che sia l’euro sia l’Europa laica nell’insieme delle sue istituzioni e dei suoi modelli culturali non aiutano affatto nella ricerca del bene comune.

Rappresentative di una ritrovata sensibilità di questo mondo sono le parole scritte dal cardinale Caffarra, arcivescovo di Bologna, nella sua “lettera ai fedeli” del 16 febbraio 2013 in occasione delle elezioni di marzo dello stesso anno: «La vicenda culturale dell’Occidente è giunta al suo capolinea: una grande promessa largamente non mantenuta. I fondamenti sui quali è stata costruita vacillano, perché il paradigma antropologico secondo cui ha voluto coniugare i grandi vissuti umani [per esempio l’organizzazione del lavoro, il sistema educativo, il matrimonio e la famiglia …] è fallito, e ci ha portato dove oggi ci troviamo. Non è più questione di restaurare un edificio gravemente leso. E’ un nuovo edificio ciò di cui abbiamo bisogno. Non sarà mai perdonato ai cristiani di continuare a essere culturalmente irrilevanti».

Ed ecco la stoccata ai politici: «Il sistema economico deve avere come priorità il lavoro: l’accesso al e il mantenimento del medesimo. Esso non può essere considerato una semplice variabile del sistema. Il mercato, bene umano fondamentale, deve configurarsi sempre più come cooperazione per il mutuo vantaggio e non semplicemente come competizione di individui privi di legami comunitari» (ivi). E, dunque, se si sarà ormai certi che l’euro non favorisce né il lavoro, né una crescita di redditi e salari, né un aumento del potere d’acquisto, non potranno certo essere i cattolici a tollerare che l’euro debba continuare ad essere considerato un vero e proprio tabù. Non sta scritto da nessuna parte che non si possa fare di meglio con un’altra moneta.

Nel frattempo, non possiamo che formulare i migliori auguri di buon lavoro al nuovo presidente del Consiglio: il cattolico Matteo Renzi, che si è presentato con un programma politico assai promettente e interessante. E anche sorprendente alla luce del suo presunto “liberismo”. Con la speranza che, ove egli riesca, anche attraverso una auspicabile ritrovata autonomia politica dello Stato italiano rispetto all’Europa e in prospettiva rispetto alla stessa moneta unica, altri, cattolici e non cattolici, non vogliano compromettere, con critiche ingenerose e stolte polemiche, i suoi sforzi e la sua opera di risanamento economico e sociale nazionale.

Tiziana Frescobaldi

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