Mario Draghi e la politica come dogma

Cosa ci si poteva aspettare dal primo discorso di Draghi in parlamento se non quello che si poteva già prima preventivare? Si dovranno fare le riforme ancora una volta strutturali tanto attese dall’Unione Europea, e quindi riforma del fisco e delle pensioni, della sanità e delle telecomunicazioni, della giustizia e della pubblica amministrazione, oltre che naturalmente della scuola, e poi bisognerà adottare piani strategici per il futuro, a cominciare da un piano di grandi investimenti pubblici volto a ricreare lavoro e occupazione, produttività e sviluppo, nonché riacquistata capacità di interagire e competere sui mercati internazionali con le grandi realtà economico-finanziarie del mondo. In particolare, si tratterà di varare tutta una serie di opportunità imprenditoriali capaci di attrarre ingenti investimenti privati nazionali ed internazionali, al fine di generare reddito, creare lavoro, e di arrestare o rallentare il declino demografico e lo spopolamento delle zone più interne ed estranee ai grandi processi di industrializzazione e di modernizzazione tecnologica, occupazionale e salariale: il tutto, naturalmente, in un ambiente da risanare profondamente sotto il profilo legale e securitario, se possibile avvalendosi anche del credito d’imposta e di altri strumenti o interventi da concordare pur sempre in sede europea.  

Ma, a ben intendere il discorso di Draghi, tutto il bene possibile del futuro economico e sociale dell’Italia resta strettamente subordinato alla sua volontà di cedere una cospicua parte di sovranità nazionale all’Europa per poter partecipare a pieno titolo, è sempre l’ipotesi del nuovo presidente del Consiglio, ad una più ampia e vantaggiosa realtà politica ed economico-finanziaria internazionale, nella quale gli interessi dei singoli popoli e Stati vengano ad essere assorbiti o se si vuole a fondersi con gli interessi di un grande Stato sovranazionale senza confini e senza particolarismi statuali: anche beninteso sul piano civile, culturale e religioso. Comuni o comunitarie dovranno essere, altresì, la politica economica, la politica estera, la politica giudiziaria e carceraria, la politica agricola e ambientale, la politica migratoria e sanitaria, dove beninteso l’Italia non potrà fare a meno di raccordare le sue complessive misure governative con partners di assoluto rilievo internazionale quali Germania e Francia, e qui si capisce chiaramente che l’intera politica riformatrice draghiana sia organica, in modo sostanziale, a realtà nazionali altre che non siano affatto “neutrali”, “equidistanti”, e compatibili con gli specifici interessi della realtà nazionale italiana.

Ora, che da una siffatta ammucchiata di stati, specialmente alla luce di una asserita centralità progettuale e decisionale in essa di paesi tradizionalmente potenti e influenti come la Germania e la Francia e di una reiterata volontà di escludere da essa una compagine politica e culturale così rilevante del continente europeo come la Federazione russa, debba derivare un maggior benessere, una maggiore sicurezza, una maggiore stabilità anche geopolitica, per ogni singolo stato membro, appare francamente molto problematico e discutibile sia in sede teorica, sia soprattutto in sede pratica, come stanno a dimostrare il costante rapporto di latente conflittualità intercorrente tra le diverse delegazioni governative che siedono ai tavoli della Unione Europea e fatti eclatanti come la recente fuoriuscita unilaterale da quest’ultima della Gran Bretagna.

Sembrerebbe, in sostanza, che quel Draghi, tanto esaltato dai “poteri forti” di tutto il mondo soprattutto per le sue grandi capacità strategiche e il suo pragmatismo politico-finanziario, appaia in questo caso molto lontano da un rigoroso approccio empirico-fattuale ai problemi della politica e della complessiva vita associata dei singoli popoli e dei popoli considerati nella loro reciproca interdipendenza, e molto più vicino invece ad una teorizzazione dogmatica, pregiudiziale, unilaterale, aprioristica e chiusa ad un elementare principio storico-metodologico di possibilità, di verifica, di controllabilità appunto pragmatica di quanto si viene sostenendo in un ambito non già scientifico ma politico, che è l’ambito del mutevole e del relativo per eccellenza. Anche perchè lo stesso Draghi, da qui a poco, potrebbe trovarsi a dover operare in uno scenario planetario  reso dalla pandemia in corso molto più sconvolgente e deprimente di quanto i suoi pur robusti e flessibili modelli economico-previsionali non consentano di immaginare, anche in relazione alla presunta “irreversibilità” dell’euro e all’auspicata scomparsa di ogni traccia di sovranismo.

Ora, se questo giudizio non è erroneo (e se lo è saranno i prossimi sei mesi a dimostrarlo), invitare i membri del parlamento italiano, come ha fatto il banchiere Draghi, a superare le proprie differenze politiche e a stringersi in una doverosa e patriottica unità di intenti, nel segno dell’europeismo, dell’atlantismo e dell’ambientalismo sostenibile, e persino di una religiosità di incerta o non chiara matrice, per consentire all’Italia di uscire dalle secche di una prolungata crisi storica che finirebbe per condannare le giovani generazioni ad una disperante disoccupazione o sottoccupazione, era ed è quanto di più generico, astratto e ambiguo, ci si potesse aspettare dal suo discorso d’insediamento. Chi vivrà, vedrà, naturalmente! E sarò pronto a ricredermi su Draghi, come ho già fatto su Renzi e sto cominciando a fare su Salvini, ma nel frattempo, poiché nel suo primo discorso politico ha parlato di “spirito repubblicano del suo governo” e di “fratellanza nazionale”, l’augurio è che queste espressioni non siano un riecheggiamento, magari inconsapevole, del credo repubblicano e della fratellanza universale di ascendenza massonica.

Francesco di Maria

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