L’intellettuale intelligente. Tra identità globale e identità locale.

Può sembrare un’espressione pleonastica ma non lo è. Parlare di intellettuali intelligenti non è affatto pleonastico, non è affatto un’affermazione scontata, ovvia, magari banale, perché l’intelligenza degli intellettuali non sempre ha a che fare con l’intelligenza critica, anzi con l’intelligenza tout court. Non si intende dire, naturalmente, che gli intellettuali sono intelligenti solo in quanto non commettano errori e non abbiano limiti, non assumano posizioni discutibili o atteggiamenti provocatori e irrazionali, ma semplicemente che non sono intelligenti tutti quegli intellettuali che, pur dediti ad innalzare torri di pensiero apparentemente possenti e impenetrabili, siano inclini a ridurre e a risolvere la ricerca dei significati e dei valori di una realtà e di una vita multidimensionali e complesse, che si tratta appunto di indagare con tutti gli strumenti e le facoltà di cui dispone l’umana razionalità, in un cumulo meramente o prevalentemente logico-linguistico di costruzioni, segni, simboli di natura teoricistica che dovrebbero poi fungere da fonte di legittimità conoscitiva per qualsivoglia genere di tematica affrontata.

Ma il teoricismo, per quanto epistemologicamente importante, è intrinsecamente contraddittorio e ambiguo, in quanto, come argomentava un autorevole studioso italiano già nel 1951, «teoricismo … si avrà ogni qual volta si indicherà, una volta per tutte, il valore dell’essere facendolo coincidere con un dato conoscitivo e si penserà di fondare la validità di quel dato sulla validità assoluta del processo conoscitivo che ad esso conduce. La fiducia del teoricista è quella d’aver colto il senso assoluto delle cose mediante un atto conoscitivo autogarantito; l’auto-garanzia fonda l’assolutezza del dato e questa fonda quella», dove emerge molto chiaramente «la sostanziale circolarità in cui il teoricismo si muove, tra una validità della conoscenza che sarebbe garantita dall’esistenza d’un dato assoluto e la validità del dato assoluto che sarebbe garantita dalla validità della conoscenza»1

Il teoricismo è una chiara manifestazione di intellettualismo e Dal Pra polemizzava contro qualsiasi forma di intellettualismo, vale a dire di invito a contemplare una realtà presupposta piuttosto che all’azione e alla prassi. Teoricismi assoluti sono quelli che derivano dall’assolutizzazione di determinati dati del reale e della vita: lo storicismo «che fa dell’immanenza storica il dato assoluto»; l’esistenzialismo che trasforma l’esistenza in un’entità astratta e metafisica, priva di concrete differenziazioni; il marxismo che assolutizza l’economico ponendolo come criterio unico di interpretazione del reale; il pragmatismo che riduce tanto il mondo materiale che il mondo immateriale a pura fattualità, ad un insieme di atti pratici; lo stesso problematicismo, pur così fecondo nell’investigazione della struttura antinomica e oltremodo articolata del sapere e del reale2. Nulla è assolutizzabile nel tempo e nella storia, il cui scorrere, il cui fluire rende tutto instabile e precario, ivi compresa la stessa relatività delle cose e delle conquiste culturali. Resta solo la possibilità di ascoltare i fenomeni e le voci del mondo e della vita, di decifrarli alla meno peggio ma con tutta l’attenzione e l’impegno necessari, di coglierne volta a volta almeno una parte di senso, con connessi segnali, risposte, istanze o esigenze anche semplicemente inespressi, e di comprendere ogni fatto, fenomeno, aspetto della complessiva vicenda cosmica e umana non a prescindere dal contesto, dalla totalità di relazioni o interconnessioni di varia natura esistenti tra tutti gli elementi, noti e ignoti, di essa, ma all’interno e alla luce di tale medesima totalità.

E’ la lezione che, in modo sempre più chiaro e preciso, sembra stia scaturendo dalla scienza e dal pensiero della complessità. Ora, proprio quella possibilità, per quanto limitata e difficoltosa, di ascolto e di comprensione (concetto che viene evocando una frase, ricca di significato, del filosofo comunista Antonio Banfi, il quale parlava della capacità di ascoltare come di un’arte difficile e della capacità di comprendere come di un dono raro) può legittimare un’ulteriore opzione plausibile e interna alla stessa razionalità teorica e pratica dell’uomo di ragione: quella di un duplice ma contrapposto atto di fede, vale a dire o un atto di fede nella struttura razionale e solo per questo oggettivamente, anche se relativamente e imperfettamente, conoscibile dell’universo fisico e storico, oppure un atto di fede in un principio esplicativo di ordine religioso e trascendente che dia ragione sia della impervia, tortuosa e complessa trama della verità delle cose di fronte a cui viene a trovarsi il debole e finito, seppur “prodigioso”, intelletto dell’uomo, sia anche di un superiore ordine assoluto e definitivo di verità che, nel rifrangersi in forme apparentemente frammentarie, dispersive e contraddittorie, nell’ambito del mondo fisico-fenomenico e di quello storico-umano, potrà risultare accessibile all’uomo nuovo, all’uomo risorto, liberato dai suoi limiti terreni, potenziato spiritualmente e finalmente capace di penetrare, sia pure attraverso un processo di infinito approfondimento, nelle cose stesse di Dio, nei profondi misteri della sapienza divina.   

Un uomo, di grande tempra morale e intellettuale, come Antonio Gramsci, avrebbe fondato la sua ricerca, per quanto è dato sapere dai suoi scritti ufficiali, su un atto di fede storico-immanentistico e, per mezzo di una scrittura sempre chiara e precisa, del tutto priva di complicate elucubrazioni teoricistiche oggi molto di moda ma non certo del senso della complessità delle questioni di cui si sarebbe occupato nel corso della sua breve ma eroica esistenza, avrebbe impersonato quella figura di “intellettuale intelligente” cui si sarebbe sempre sforzato di attenersi con coerenza e senso di responsabilità. Gramsci non distingueva solo tra “intellettuali tradizionali” e “intellettuali organici” ma anche tra “intellettuali intelligenti” e “intellettuali non intelligenti”, gli uni e gli altri presenti tanto tra i tradizionalisti quanto tra i rivoluzionari organici, oggi si direbbe tra i conservatori e i democratico-progressisti, ed erano distinzioni che trovavano la loro premessa nel riconoscimento gramsciano, formulato compiutamente nel Quaderno 12, che, se «tutti gli uomini sono intellettuali … non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali».   

Già il giovane Gramsci aveva ben caratterizzato gli “intellettuali intelligenti” come coloro che non possono essere semplicemente dei “contemplativi”, degli “eruditi”, degli “estranei alla vita sociale”, degli “indifferenti” ai valori morali e alle vicende collettive del mondo, ai drammi di una moltitudine di poveri, oppressi, discriminati, emarginati, ma li aveva caratterizzati anche come coloro che, pur dediti ad attività professionali intellettualmente, teoricamente, scientificamente impegnative, non pecchino poi in realtà di disinteresse, di abulìa, di parassitismo, di vigliaccheria in rapporto ad immani problemi di libertà morale e civile, di giustizia sociale e politica, a laceranti conflitti economici esistenti tra diverse classi sociali e categorie lavoratrici, a diffusi e allarmanti fenomeni di violenza o delinquenza organizzata. Gli “intellettuali intelligenti”, al contrario della maggioranza degli uomini, non abdicavano alla loro volontà, non lasciavano fare ai prepotenti o agli usurpatori, ma tentavano di fare tutto quel che si sentiva doveroso fare per evitare il trionfo di pratiche immorali e inique, reso possibile dalla complicità di quanti non avessero ritenuto o non ritengano di dover vivere da partigiani della verità e della giustizia.

Il problema di una intellettualità intelligente, per Gramsci, era che essa fosse tale solo se capace di “sapere” razionalmente ma anche di “comprendere e sentire” moralmente, là dove il popolo certamente “sente” ma “non sempre comprende o sa”, mentre l’intellettuale “sa” ma, di fatto, “non sempre comprende e soprattutto sente”. D’onde anche il pericolo, da una parte, della pedanteria intellettualistica e del filisteismo moralistico, e dall’altra quello dello spontaneismo irrazionale e del populismo demagogico. Il sapere intellettuale che non sia intriso di profonda consapevolezza morale delle passioni elementari e vitali ma non puramente pulsionali ed egoistiche del popolo, è destinato a risultare astratto, arido, privo di vita. L’intellettuale che, di fatto, non solo per via di quel che dice ed elabora sul piano teorico, ma soprattutto per via di quel che realmente riesce a comprendere in sede critico-razionale e a sentire in sede etico-sentimentale, non appaia diviso o staccato dal popolo-nazione, dall’anima stessa del suo popolo e della sua nazione, merita di essere annoverato nella categoria dell’intellettuale intelligente, mentre non intelligente è l’intellettuale che presuma di sapere pur essendo privo di connessione morale e sentimentale con le necessità più basilari e vitali, pur se implicite o inespresse, delle masse popolari.

Da questo punto di vista, non è che ogni studioso, ogni letterato, ogni filosofo, ogni scienziato, ogni giornalista, ogni esperto o tecnico specializzato in determinate discipline umanistiche e scientifiche, debba essere o sia necessariamente un intellettuale nel senso più pieno della parola, giacché l’orizzonte di studio e di indagine dell’intellettuale non è mai semplicemente settoriale, specialistico, unilaterale e delimitato in uno stretto senso disciplinare, ma deve essere più ampio e articolato dovendo le sue specifiche competenze innestarsi e innescarsi criticamente nell’intero corpo esistenziale, morale e sociale dell’umano, nella dimensione tanto soggettiva quanto oggettiva della vita spirituale dell’uomo. Gramsci definiva l’intellettuale come sintesi dello specialista e del politico, ma era solo una delle tante definizioni possibili di intellettuale integrale3. Peraltro, per Gramsci l’intellettuale doveva essere anche “organico” al partito e fungere da elemento di congiunzione-mediazione tra i suoi vertici e le masse.

Dopodiché la suddetta qualifica gramsciana di intellettuale intelligente può essere applicata, anche al di là delle intenzioni gramsciane, sia nell’accezione più ristretta di intellettualità circoscritta a specifici ed esclusivi interessi culturali, dove in ogni caso, con maggiore o minore consapevolezza critico-partecipativa, il tema dell’umano risulti imprescindibile, sia soprattutto e in modo più appropriato in quella più estesa di intellettualità incentrata sul rapporto tra sfera conoscitiva, filosofico-culturale, teorica e scientifica, e sfera psicologica e morale, politico-sociale e storico-esistenziale, economico-comunitaria e spirituale o religiosa. Specialmente in un’epoca come l’attuale in cui la cultura non gode più della legittimazione sociale di cui godeva in passato e in cui anzi appare crescente il discredito del ruolo tradizionale di coscienza critica, pur declinabile in molteplici forme, che essa, in quanto portatrice di istanze e valori universali, dovrebbe svolgere nella comunità di appartenenza, e in cui una siffatta delegittimazione va a tutto beneficio di una nuova  e non di rado bizzarra tipologia di soggetti culturali qual è quella che viene impersonata da un folto gruppo di professionisti della comunicazione, di volta in volta denominati opinionisti, osservatori, interpreti, molto più duttili e più adattabili alle cangianti mode del momento di quanto non fosse il vecchio, più solido e meno accomodante, intellettuale del passato, sarebbe quanto mai necessario lavorare, in opposizione all’imperante clima di incultura e ad una vera e propria “dittatura dell’ignoranza”, ad un recupero, ad una riabilitazione di modalità del pensare e ragionare meno approssimative e avventate, più ordinate e rigorose4.

Bisogna pur riconoscere, tuttavia, che l’odierno revanchismo plebeo contro gli uomini di pensiero e soprattutto contro le élites accademiche e professorali non è certo casuale ma dovuto da una parte alla rivoluzione provocata dalla impetuosa crescita mediatica nella comunicazione sociale, dall’altra però anche alla crescente e sussiegosa rinuncia del ceto intellettuale in genere, delle caste accademiche e delle professioni intellettuali vocazionalmente più portate ad incentivare studi e dibattiti pubblici di particolare rilievo speculativo e di notevole valore etico-civile, ad un aperto e combattivo impegno critico-culturale, oltre che verso l’ordine costituito, anche nei confronti di tanta pubblica opinione letteralmente contaminata da vuote chiacchiere o dicerìe, da banalissimi luoghi comuni, da incontrollati e generici paradigmi cognitivi e valoriali. Anzi, per dirla tutta, strada facendo è accaduto che si venisse assistendo ad una graduale e sempre più odiosa proletarizzazione della vita intellettuale nazionale, tanto nel campo degli stessi saperi specialistici, universitari e postuniversitari, quanto sul piano di auspicati ma mai avviati programmi politici di socializzazione e democratizzazione di forme alte, qualificate e autorevoli di sapere ed educazione etico-civile.

La cultura istituzionale è venuta cosí ripiegandosi su se stessa e chiudendosi in una sorta di riserva privata in cui fosse possibile amministrare a proprio piacimento, e sulla base di competenze disciplinari individuali non adeguatamente verificate o capillarmente accertate, e quindi a prescindere da qualsivoglia criterio di ordine etico e deontologico e da una pur doverosa preoccupazione di dare e assicurare risposte epistemiche adeguate agli inquietanti interrogativi emergenti dallo specifico e contestuale quadro storico di riferimento, innovative ma anche più giudiziose e meno astruse modalità della ricerca critico-scientifica, processi effettivi e non virtuali di trasmissione e di apprendimento del sapere, scelte oculate relative alla individuazione di prioritarie aree di interesse, al fine di dotare la nazione di un piano formativo unitario, seppur ampiamente articolato e differenziato, idoneo a fornire alle masse strumenti idonei di espressione, di comunicazione, di contestazione e magari di ricostruzione di un tessuto economico e sociale nazionale da troppo tempo lacerato e frammentato.

Di fatto, però, il mondo della doxa, dell’opinione, dell’incerto se non falso sapere, della chiacchiera, è rimasto ed è molto distante da quello dell’epistème, della conoscenza razionale, oggettiva, tendenzialmente scientifica o quanto meno sensata, e anzi tende a risultare socialmente, in modo non proprio infrequente, piuttosto preponderante rispetto a quest’ultimo. Accade quindi che verità apparenti vengano scambiate per verità reali e che il senso comune non di rado prevalga sul sapere critico, così come anche un agire consuetudinario ed eticamente ambiguo tenda a prevalere su princìpi e valori etici largamente e universalmente acquisiti e consolidati anche se non altrettanto praticati. Grande è infatti il grado di incertezza o di dubbio scettico sul significato di categorie e istanze culturali imprescindibili del vivere civile, come quelle che riguardano l’educazione dei bambini e dei giovani, la formazione culturale ed etico-civile degli adolescenti, la deontologia delle professioni e delle stesse pratiche istituzionali, l’avvertita esigenza di estendere la dimensione etica del diritto rispetto alla sua pur connaturata dimensione tecnicistica, il valore comunitario e spirituale oltre che contrattuale e utilitario del lavoro, la meritocrazia e insieme una politica di assistenza socio-sanitaria come criteri di eguaglianza e non di discriminazione, la rifondazione democratica dello Stato come costruzione giuridico-politica comprensiva del triplice apporto del libero consenso popolare, dei legittimi rappresentanti politici e di una ristretta aristocrazia qualificata, per usare un termine caro ad Adriano Olivetti, di competenti ed esperti democraticamente selezionati.   

Alla cultura, agli intellettuali dell’oggi e di domani, agli intellettuali intelligenti beninteso e non certo «ai dilettanti del sapere»5 spetta l’arduo compito di rimettere sulle gambe un intero mondo ancora largamente capovolto, con un sapere ignorante e spocchioso anche se colto e specializzato al posto di un sapere dotto ma umile anche se discriminato ed emarginato, con un’amministrazione statuale-burocratica di beni e servizi che restringe arbitrariamente con mille espedienti e forzature i diritti e lo stesso benessere economico dei cittadini, con un sistema fiscale sempre più esoso e iniquo, con un sistema scolastico-educativo fallimentare, con un sistema universitario per molti ed essenziali aspetti assolutamente carente e mediocre, con un sistema industriale imperniato molto più sul profitto che sul lavoro e con un sistema economico-produttivo disomogeneo e solo parzialmente sviluppato oltre che non sufficientemente competitivo sui mercati internazionali, con un sistema giuridico ancora troppo farraginoso, omissivo e corrotto, con un sistema sanitario sempre più costoso e inefficiente, con un tasso assai modesto di istruzione di base e molto più alto di analfabetismo funzionale e non, con una società poco competitiva in quanto complessivamente basata più sul privilegio e sul favoritismo che sul merito e sulle reali capacità professionali.

Se poi si allarga il discorso all’ambito dei rapporti internazionali, sarà possibile e necessario verificare meglio di quanto, a fronte di una narrazione ufficiale alquanto apologetica, non sia sinora accaduto, quali siano i veri punti di forza e i vantaggi di una entità economica ma non politica come l’Unione Europea e se i guadagni per i Paesi membri siano davvero superiori alle perdite e, soprattutto, se gli ipotetici guadagni e gli eventuali o reali svantaggi siano equanimemente distribuiti tra essi, così come bisognerà ridefinire in profondità i criteri logici ed etico-giuridici di suddivisione e distribuzione nei vari Stati europei delle migliaia e migliaia di migranti che approdano senza soluzione di continuità alle coste prevalentemente italiane del continente europeo.

Ma un ulteriore sforzo di razionalizzazione e moralizzazione occorrerà fare anche sui temi della guerra e della pace, della globalizzazione e delle esperienze economiche e culturali di tipo localistico e federativo-autonomistico, del pensiero debole e relativistico e del pensiero forte e religioso. Anche la Chiesa cattolica, che è struttura integrante dell’intera storia planetaria, non può restare immune da un’interrogazione critica quanto più fedelmente possibile esercitata, dal suo interno, nel nome di una razionalità non aprioristica, non preconcetta o ideologica, e in rapporto a taluni recenti e significativi ma non sempre ineccepibili e comprensibili mutamenti che si riferiscono principalmente alla sua struttura dogmatica e dottrinaria.

Non si può più essere, insomma, cittadini e intellettuali del villaggio senza essere anche cittadini e intellettuali del mondo e di un mondo in continua evoluzione, così come non si può pretendere di appartenere al mondo globale e di acquisire una mentalità planetaria attraverso uno sradicamento dai luoghi, dalle tradizioni e dai costumi, dalla cultura e dagli affetti delle origini, cioè sbarazzandosi della o delle proprie strutture identitarie, perché il problema, per l’intellettuale intelligente del prossimo futuro sarà piuttosto quello di mitigare, conciliare, armonizzare le differenze, le antinomie storico-culturali emergenti dagli oggettivi processi storici di sviluppo, non già di esasperarli e di accentuarne improvvidamente la conflittualità6.

Questo è lo scenario che le prossime generazioni verranno sperimentando su tutti i piani della loro esistenza storica: su quello economico e politico come su quello etnico-antropologico e psicologico-relazionale, su quello sociale e culturale come su quello etico e giuridico e, infine, spirituale e religioso, fermo tuttavia restando che, quali che potranno essere i processi di razionalizzazione e di unificazione critico-razionale delle molteplici e contrapposte polarità tematiche, filosofiche, politiche ed etico-valoriali sempre risorgenti nella storia collettiva del mondo, il genere umano non potrà mai pervenire, persino nella più ottimistica delle ipotesi, ad un completo azzeramento di tutte le forme di alterità, eterogeneità, difformità, inevitabilmente e perennemente destinate a riprodursi nel quadro della coesistenza in parte collaborativa e pacificante ma in parte anche competitiva e conflittuale che, nel bene e/o nel male, necessariamente e ontologicamente inerisce la struttura antropica di individui e popoli ad un tempo uguali e diversi.

Particolarmente decisive, da questo punto di vista, potranno essere probabilmente le convinzioni morali, i valori spirituali, le fedi religiose trasversalmente presenti tra tutti gli esseri umani e i popoli del mondo, e poi soprattutto il loro confronto, la loro capacità di resistenza agli urti violenti e inesorabili della loro stessa storia, la loro capacità di egemonizzare non tanto sotto il profilo numerico quanto sotto quello qualitativo le migliori manifestazioni della intelligenza e della coscienza collettive del genere umano: saranno decisive ai fini del senso prevalente che, impercettibilmente, quest’ultimo vedrà assegnarsi dalla storia nel corso del suo cammino verso l’ignoto.

Gli intellettuali intelligenti della contemporaneità attuale e di quella che verrà saranno quelli che non smetteranno di interrogarsi, con uno sguardo critico multilaterale, distaccato ideologicamente e partecipe moralmente, pur senza rinnegare nulla dei propri onesti percorsi di vita e di pensiero, sulle dimensioni essenziali e obiettivamente costitutive dell’esperienza in generale e della vita spirituale dell’umanità, ivi compresa quella specificamente religiosa e più segnatamente cattolica.

Qui, bisognerà capire in particolare che la Chiesa, che non è una semplice agenzia etico-umanitaria, non potrà derogare dai suoi princìpi statutari e dagli obblighi imposti dalla sua fede anche in un mondo sempre più lontano dal senso del sacro e del peccato, sempre in apparenza meno bisognoso della grazia di Dio e di una salvezza ultraterrena. In tal senso, la Chiesa, nel muoversi nel mondo e verso il mondo, dovrà sempre ricordare di chiedersi, pena il rinnegamento del suo originario atto di fedeltà a Dio nella tre volte santa persona del suo Figlio unigenito, se abbia ricevuto il compito missionario di andare verso il mondo per compiacerlo e restarne prigioniero o complice o se, piuttosto, non debba andare verso il mondo per soddisfarne le reali e spesso inconsapevoli o inespresse necessità, per convertirlo alla Parola non manipolata o mistificata di Dio, per riportarlo direttamente o indirettamente nella Chiesa di Cristo e fargli dono della promessa evangelica di salvezza eterna.

E’ sbagliatissimo immaginare un mondo in cui, per via di una globalizzazione caotica e spersonalizzante, si vengano dissolvendo gradualmente tutte le tessere identitarie individuali e di gruppo, con conseguente e inevitabile disorientamento esistenziale e con una connessa e significativa riduzione della capacità stessa di discernere, di scegliere e di agire. L’appartenenza alla universale famiglia umana ha dei presupposti identitari che non possono essere scavalcati o ignorati da processi oggettivi di trasformazione di cui non si sia stati e si continui a non essere soggetti consapevoli, partecipi, e in essi responsabilmente impegnati. L’appartenenza al mondo globale, come all’Europa globale, come a qualsiasi altra iniziativa associativa della stessa natura, non può essere imposta ma solo proposta, offerta e poi eventualmente condivisa attraverso il libero, qualificato e responsabile apporto di tante singole persone e dei popoli che si dispongano a farne parte.

Il problema, pertanto, non è quello di avere un modello global di cultura e umanità che si sommi eventualmente ad un modello local ma segua fondamentalmente una sua direzione precostituita e si diriga verso mete, per così dire, aprioristicamente programmate, ma quello di rendere possibile un processo di reciproca e costruttiva integrazione tra determinate idealità economiche e giuridico-culturali del global e irrinunciabili necessità e finalità economico-produttive ed etico-culturali del local. La cittadinanza planetaria di domani non dovrà essere fatta di esclusioni, divieti o restrizioni precostituiti, ma di inclusioni ragionate e sensate, di integrazioni intelligenti e rispettose delle sensibilità di tutti i soggetti in campo, di norme tolleranti in origine e denotanti uno spirito di accoglienza vero e non generico, pur dovendosi convenire che in itinere non tutto potrà essere consentito in modo indiscriminato, immotivato o ingiustificato, al fine di rendere l’umanità realmente più ospitale, più solidale, più libera e giusta, e in pari tempo più ricca del libero e responsabile contributo di tutti7.

Un approccio cosmopolita, intellettualmente intelligente e virtuoso, ai problemi della conoscenza e del sapere, della tecnica e della scienza, della informazione e della comunicazione, ma anche a quelli dell’etica e del diritto, della psicologia e della pedagogia, dell’immigrazione e dell’ecologia, dell’economia e della politica sociale e sanitaria, della difesa militare e della lotta al terrorismo, delle tradizioni culturali e religiose come delle specificità nazionali e dell’apertura ad una mentalità e ad uno spirito sovranazionali, non può tendere pregiudizialmente ad una soppressione delle diversità, delle differenze, delle forme eterogenee di pensiero e di vita presenti nella storia del mondo, ma semmai, sotto le continue e imprevedibili sollecitazioni della storia e nei limiti di un’idea pur sempre in fieri di civiltà considerata tanto nella sua dimensione unificante e universalistica quanto in quella più particolaristica e localistica, ad una generosa ed avveduta integrazione, talvolta doverosamente selettiva, delle alterità, delle difformità o delle contrapposizioni.

Il progresso della specie umana necessita in egual misura di convergenza e divergenza, in quanto, sempre nell’ambito dell’umano e non certo del disumano, la convergenza che non si nutra di divergenza, naturalmente argomentata e plausibile, si trasforma in un dogmatico e pericoloso articolo di fede laica perché incompatibile con il principio di una ricerca sempre aperta e inesauribile di ciò che è vero e giusto, di ciò di cui necessitano o potrebbero necessitare realmente, sul piano storico-esistenziale, ogni singola persona e i diversi popoli della terra, mentre anche la divergenza che pretenda di prescindere da forme universalmente condivise e condivisibili di convergenza, dalla stessa istanza razionale di una convergenza etica e spirituale dell’umanità verso obiettivi comuni di fraternità e felicità, non può che risultare puramente dispersiva e antitetica ad ogni disegno di comunione, condivisione, comune costruzione di un mondo migliore per tutti. 

Questa è forse la migliore prospettiva in cui anche il vecchio e il nuovo, l’antico e il moderno, il tradizionale e il contemporaneo, possano ritrovarsi dialetticamente uniti in un inscindibile rapporto di reciproca e creativa integrazione, uniti e impegnati a discutere come in una rinnovata agorà greca, in una immensa e affascinante “piazza” che ospiti milioni di giovani e adulti intenti a collaborare e a ridisegnare criticamente regole e valori della giustizia, della libertà e dell’uguaglianza, della democrazia e della solidarietà. Ma, anche in questo caso, lo spirito della cooperazione collettiva e planetaria non dovrà rischiare di assumere i tratti del conformismo acritico, del “pensiero unico” e del “politicamente corretto”, vale a dire di quel morbo che nell’attuale fase storica sta immiserendo lo spirito comunitario di verità e il senso universale della moralità pubblica e privata.

In particolare, l’intellettuale integrale, non unidimensionale, né riduttivo o essenzialmente dedito ad un attivismo ideologico o ad una propaganda di partito, dovrà tener presente che il suo mestiere gli vieta di rimanere incondizionatamente legato ad un’ortodossia e perciò, sia pure senza rinnegare la sua appartenenza ad un’ortodossia o il suo legame con essa, dovrà essere sempre pronto ad esercitare la funzione dell’eretico, perché, come osservava acutamente Eugenio Garin, la cultura, come la scienza, «è sì, sempre, eresia; ma l’eresia è feconda in quanto non si estenua in una protesta anarchica, ma è eresia dentro un’ortodossia»8. Già, l’eretico è tale all’interno di un’ortodossia, non a prescindere da qualsiasi ortodossia, perché i due termini, lungi dall’escludersi l’un l’altro si sostengono vicendevolmente e sono entrambi necessari. L’eretico si richiama sempre ad un’ortodossia, anch’essa, a suo tempo, eretica: l’illuminista fu eretico nei confronti del cosiddetto “oscurantismo medievale” (anche se si tratta di un’espressione generica e abusata), ma poi gli stessi postulati illuministici si sono talmente assolutizzati da creare una nuova ortodossia: «La cieca fede nel Regno è divenuta cieca fede nel Progresso, nel mondano, nel dato empirico, una nuova metafisica forse troppo compromissoria con il nuovo modo di produzione capitalistico.Una volta assolutizzatosi il capitalismo a modello economico della società Occidentale, anche la sua metafisica si è storicizzata, è diventata fattuale, cristallizzata nelle mentalità di qualsiasi individuo, è divenuta vecchia, postmoderna. Il Moderno ha perso lo slancio, l’illusione, la speranza, ha compreso la sua impotenza quando il come delle cose non ne ha rivelato il perché, le cause prime, quando la meccanica quantistica non ha svelato il segreto della felicità, quando la tecnica, contrariamente al sogno di Tesla, ha alienato l’umanità invece di mettersi al suo servizio; quando la scienza non ha indicato il senso della vita ….. Ormai siamo vecchi, spassionati, disillusi figli di un tempo finito, che al battesimo sostituisce il vaccino, al capo tribù e al politico acclamato il freddo tecnico, alle funzioni sacre le omelie televisive, all’attesa escatologica la guerra nucleare.

Ragionevoli superstizioni. Eppure continuiamo a pretenderci una civiltà d’avanguardia, sospinta dallo slancio – per forza d’inerzia – di idee vecchie più di quattro secoli: democrazia, progresso, benessere, scienza, universalismo, libertà, quando abbiamo assodato, da oltre un cinquantennio, il loro fallimento. Il Moderno è postmoderno, è sceso al compromesso, si è fatto carne nel capitalismo, sicché la democrazia è divenuta delegazione, il progresso alienazione, il benessere edonismo, la scienza idiotismo specialistico, l’universalismo meticciamento, la libertà relativismo. Abbiamo perciò il compito di sovvertire questa assolutizzazione, di renderci consapevoli del carattere senile che investe tutte le nostre azioni e le nostre idee. Come l’anziano che, rispetto al giovane (distante, ma intimorito dalla morte), è ad un passo dalla fine e non la teme, noi non troviamo insopportabile l’insolubilità dei problemi, l’impossibilità della verità, l’insensatezza della vita. Non lottiamo, ma eludiamo questa paura nel vino, nel mondano, razionalmente. Siamo lontani anni luce dall’accettare l’assurdo. E se la paura persiste, allora è una malattia psichica, da curare a forza di xanax e anti-depressivi. … L’eretico quindi oltraggia la cultura ufficiale, l’ortodossia moderna che fa dell’esclusione sociale la sua nuova croce, il suo nuovo rogo. L’eretico è il giovane impaurito, febbrile, che fa della paura il sangue della sua infantile mobilità, capace di ridere, piangere ed entusiasmarsi. E’ colui che non conosce la stanchezza né il dubbio, non si rassegna alla disperazione, ma dispera della rassegnazione; egli guarda al relativismo come ad un sorpassato passatempo della vecchiaia, e con la certezza sfida l’assurdo che accetta. La sua esistenza non riflette né descrive le dinamiche del mondo, non esaurisce la realtà e la realtà in lui non si esaurisce. L’eretico è l’incompreso, colui che nasce postumo; è l’inattuale rappresentante della possibilità, non è figlio del suo tempo, ma di un tempo che deve ancora venire; non si riconcilia con il presente, perché questa è la scelta più difficile. Egli “spreca la propria anima, […] non vuole ringraziamenti, […] non restituisce nulla: perché egli dona sempre e non vuole conservarsi” (Nietzsche), è “il rifugio di tutte le idee sradicate dall’ignominia moderna” (Dàvila). L’eretico è religioso, perché crede che il migliore dei mondi debba essere fatto; è scomodo perché agisce disinteressatamente, evade la logica dell’utile e del tornaconto, non risponde positivamente allo stimolo del profitto; è inutile, perché non misura la realtà con il metro del denaro. L’eretico .. annuncia la fine, impersona l’origine; è la malattia della civiltà, è la sua cura»9. Tutto ciò non corrisponde al ritratto dell’unico modello possibile di eretico, ma è il ritratto di un possibile modello di eretico.

Certo, quella dell’intellettuale statutariamente eretico è un’immagine suggestiva e avvincente, perché proporre l’eresia come modello culturale significa proporre un paradigma particolarmente stimolante di ricerca e di vita morale10. Però, bisogna intendersi bene, perché una cosa è pensare criticamente, ereticamente, nel nome, per conto e in funzione dell’ortodossia, di quello che per definizione è il retto pensare, lo spirito di verità, l’adesione quanto più fedele possibile ad un insieme di princìpi e norme universali o conformi a ragione, mentre altra cosa e cosa ben diversa è pensare in modo difforme dall’ortodossia non tanto per amore della verità quanto per amore della propria personale verità. Si può distinguere l’eretico per la verità dall’eretico per la menzogna. Da questo punto di vista, molto delicata risulta la posizione dell’intellettuale cattolico, il quale sa bene che, se pure lo spirito evangelico di verità coincide non solo con uno spirito di misericordia e di pacificazione ma anche con uno spirito di denuncia e smascheramento delle false certezze o delle ipocrite verità del mondo, per rimanere fedeli alla verità proclamata da Cristo crocifisso e risorto occorre grande audacia di fede ma anche molta prudenza e molta umiltà di cuore.

Ciò detto e precisato, l’intellettuale cattolico non sarà forse né poco audace, né realmente imprudente e superbo, nel sottoscrivere in buona parte, anche in relazione al suo rapporto personale con la testimonianza dottrinaria e pastorale della Chiesa del suo tempo storico, il giudizio molto severo ma preciso e attendibile di chi ha affermato che «giunta sul limitare del vecchio mondo, la Chiesa ha preferito gettarsi nelle braccia del nuovo e si è dovuta inventare improvvisamente una figura di intellettuale che potesse dialogare con i novelli compagni di strada parlando la loro stessa lingua: Maritain era il prototipo perfetto. Ma, al di là dell’innegabile valore personale del filosofo francese, l’operazione ha dato vita a una sorta di ossimoro, un ruolo nato direttamente dall’istituzione invece che dalla libera necessità di maneggiare idee anche criticando l’istituzione stessa: invenzione di un clero senza più intelligenza, in debito di fede e quindi divenuto clericale.

Accasato direttamente nelle stanze del potere senza essere passato nella palestra dell’antagonismo, l’intellettuale cattolico ha finito per copiare maldestramente i modelli mondani assumendone le idee, i comportamenti e persino i tic. Gli eredi di una tradizione che ha prodotto Dante e Manzoni, Giotto e Michelangelo, il canto gregoriano e il Palestrina si sono ridotti a scoprire la cattolicità del cinema neorealista, delle pagine di Pasolini o delle canzoni di De Andrè. Con l’unico mandato di assumere il Concilio Vaticano II come esclusivo criterio di interpretazione della realtà religiosa e profana: l’intera storia della Chiesa e del mondo e la cronaca spicciola lette come anticipazione o come compimento del Concilio, con effetti comici se non fossero drammatici. In tal modo, si è andata formando un’intellighentia clericale che, in parallelo alla corrispondenza di amorosi sensi con il mondo, tende all’emarginazione degli intellettuali cattolici non omologati. Sorti per germinazione spontanea senza debiti genetici nei confronti del modello laico e votati a un ruolo minoritario sono proprio costoro a essere riconosciuti come corpi estranei da un organismo la cui struttura di potere è in perenne cortocircuito.Votata da sempre a combattere con l’eresia, in epoca moderna e postmoderna la Chiesa si è improvvisamente trovata al cospetto delle idee. Ma, non essendosi dotata di intellettuali capaci di vagliare il buono e gettare il cattivo, ha finito per assumere dal mondo le eresie valorizzandole come idee e per respingere al proprio interno le idee disprezzandole come eresie.

Per questo motivo l’intervento critico dell’intellettuale cattolico non omologato può essere parzialmente tollerato derubricandolo a semplice atto d’amore senza riconoscergli lo statuto di atto dell’intelligenza. Il moto dell’intelletto è un gesto alieno nella Chiesa del cuore e del sentimento, per questo i tempi della misericordia sono tanto spietati con il dissenso argomentato»11. Certo, sembra essere stato dimostrato dallo psicologo cognitivo Keith Stenovich che la razionalità sia qualcosa di molto diverso dall’intelligenza e che quest’ultima, da sola, non è sufficiente a consentire di prendere decisioni razionali. Quante persone intelligenti agiscono in modo stupido? Sarà senz’altro vero, come dice James Flynn, scopritore dell’aumento dell’intelligenza, che «l’intelligenza è solo metà della storia»12, ma, d’altra parte, senza intelligenza, che però tale veramente è solo in quanto sintesi sapiente delle ragioni della mente e delle ragioni del cuore, o solo con una intelligenza mediocre non può sussistere neppure la speranza di poter adottare decisioni sensate e di poter compiere azioni virtuose e giuste, o comunque degne di essere rispettate.

Il pensiero intelligente, espressione meno tautologica o pleonastica di quanto si potrebbe credere, è un pensiero mai scontato, neppure quando, nel suo svolgimento, venga sostenendosi su determinati percorsi storico-speculativi e su particolari strumenti di indagine teorica. Esso è un pensiero che interpreta e utilizza l’essenziale di più o meno significative posizioni filosofiche o critico-culturali altrui senza ritenere di doversi appiattire su qualsivoglia tesi o chiave di lettura in esse contenute fino al punto di ritenerle decisive o determinanti ai fini della propria ricerca. Il pensiero intelligente non ha punti di approdo definitivi, né patrie stabili e sicure da cui ritenga di non doversi più allontanare, perché, al contrario, è sempre in navigazione, stazionando talvolta in un porto relativamente protetto da intemperie e burrasche esistenziali, per cui il suo vero destino è l’esodo, è l’andare sempre oltre ogni fase, tappa, meta, pur faticosamente o dolorosamente raggiunte e percepite ogni volta come almeno relativamente rassicuranti e rispondenti all’anelito conoscitivo, etico e spirituale più profondo dell’anima; è l’esilio permanente da ciò che si presenta come la sua vera terra d’origine, la sua casa nativa e affettivamente o spiritualmente superiore a qualunque altra dimora abitata e frequentata tra un viaggio e l’altro dell’intelletto, della coscienza, dei sentimenti e della stessa fede religiosa, ove di quest’ultima venga sprigionandosi e prendendo vigore la fiamma.

E’ verso quella terra e quella casa apparentemente introvabili che il pensiero critico ma intelligente, il pensiero morale di chi ha sete ancora insoddisfatta di giustizia e d’amore si dirigono solo armati di speranza e di fede, che nella versione laico-immanentistica hanno per oggetto un mondo storico migliore, mentre in quella laico-religiosa-trascendente hanno per oggetto un eterno mondo di perfezione. Ma, in realtà, anche il pensiero intelligente, nell’esercizio instancabile della sua attività critica e delle sue attitudini morali, ambisce a trovare un punto di approdo non ulteriormente oltrepassabile che può essere ora la Bibbia, ora il più specifico e salvifico annuncio evangelico, ora anche e più rassegnatamente la speranza di lasciare ai posteri una utile testimonianza di verità e umanità13. Per l’intellettuale cattolico e il cattolico tout court questo punto fermo, questo definitivo punto di approdo coincidono con la fede nel valore inesauribile del Logos divino e nell’opera redentiva di Cristo.

L’esilio dell’intellettuale intelligente denota la sua grande solitudine all’interno di un mondo e di situazioni oggettive di vita che sente come estranei o addirittura ostili alla sua sensibilità morale di uomo impegnato non solo nella ricerca del significato di cose virtualmente esperibili e conoscibili ma anche e soprattutto in quella del senso stesso dell’ignoto. Nel presente lavoro non c’è nulla che esuli da questa prospettiva teorico-metodologica, esistenziale e religiosa.      

NOTE

1M. Dal Pra, Logica teorica e logica pratica nella storiografia filosofica, in “Rivista di storia della filosofia”, VI, 1951, p. 178.

2Ivi

3Si pensi, per esempio, alla variopinta e poliedrica galleria di intellettuali, descritta in un celebre libro di T. Maldonado, Che cos’è un intellettuale?, Milano, Feltrinelli, 1995. L’intellettuale come soggetto di interessi molteplici ma convergenti verso un centro spirituale unitario o unificante, è il tema di fondo di alcuni sollecitanti studi, tra cui A. D. Sertillanges, La vita intellettuale, con introduzione di A. Rigobello, Roma, Studium, 2014. Ma l’intellettuale contemporaneo è stato studiato anche come portatore di un’ambiguità etico-politica di fondo: A.W. Gouldner, Il futuro degli intellettuali. Per una sociologia del discorso critico, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2015.

4Si allude principalmente a G. Majorino, La dittatura dell’ignoranza. Il regime invisibile, Milano, Marco Tropea Editore, 2010. Il trionfo dell’incultura e di forme sfrontate di sapere (presunto), si può vedere il libro molto polemico ma per certi aspetti realistico di I. Tinagli, La grande ignoranza. Dall’uomo qualunque al ministro qualunque, l’ascesa dell’incompetenza e il declino dell’Italia, Milano, Rizzoli, 2020. Più sobrio ma ugualmente caustico, anche se non privo di una qualche unilateralità interpretativa, il volume di P. Iacci, Sotto il segno dell’ignoranza, Egea, 2021.

5A. Gramsci, La Città Futura, fascicolo unico del febbraio 1917; qui scriveva il pensatore sardo: «Ci sono i dilettanti della fede, così come i dilettanti del sapere».

6Di taglio storico, sul confronto tra vita civile nel tradizionale e circoscritto centro urbano o comunitario e vita associata nel dinamico, frenetico e caotico scenario globale delle grandi metropoli contemporanee, è lo studio di P. Mistretta-L. Gugli, Cercando l’umanesimo tra gli intellettuali e i popoli del mondo, Cagliari, Arkadia, 2019. Quel che, per molti, è decisamente inaccettabile è che su troppe cose importanti la totalità vivente e dinamica del mondo globale la si voglia trasformare in totalitarismo in cui e per cui le parti non contano più niente, il che significa tradire irrazionalisticamente lo spirito di interrelazione che dovrebbe costituire la trama dell’intero, del globale o della contestualità universale delle cose e delle vicende storico-umane e assolutizzare contraddittoriamente quel significato di “complessità” strettamente connesso all’idea olistica del mondo, a tutto svantaggio di quella varietà fenomenologica di conoscenze, princìpi e valori, di cui vive intrinsecamente e necessariamente il tutto cosmico-naturale e ogni singola e specifica realtà che ne sia parte. Non è, per esempio, che si possa agevolmente tacciare di pretestuosità irragionevole e irrazionale tutti coloro che sentono l’identità nazionale come un valore da difendere e custodire proprio nel nome di quella concordia discorde cui si richiama ogni concezione globale contemporanea della vita planetaria. Per lo stesso cristianesimo, la coscienza della propria identità nazionale, di essere un popolo, non è certo «un disvalore … bensì un dato di libertà ed una conquista. Mentre gli imperi hanno sempre teso a globalizzare (e così fa oggi l’impero tecnocratico), la fede ha sempre difeso e anzi promosso le culture nazionali – si pensi alle lingue e culture armena, copta, bizantina, slava, latina» e via dicendo. «Dalla dispersione delle lingue di Babele, la Chiesa ha imparato che è volontà di Dio l’idea di nazione. Perché essa si contrappone all’unico dominio dittatoriale di chi ha una sola lingua. … i costruttori della torre di Babele non intendevano solamente toccare il cielo, bensì con la loro torre e la loro cittadella anelavano ad un unico dominio mondiale», donde l’idea di nazione non è affatto antitetica all’idea di civile convivenza globale ma lo è piuttosto l’idea di uniformità: «la nazione e la storia locale sono l’antidoto ad ogni velleità imperialistica» (Cfr. G. Amico, Europa e/o nazione? Global, glocal e/o patria? Sulla confusione degli “intellettuali” che non sanno più cos’è la storia di una nazione e la confondono con il populismo. Breve nota, in sito web “Il Centro culturale. Gli scritti”, 23 giugno 2019).  

7Qui si segnala, in particolare, (A cura di) Daniela Dato-M. Ladogana, Educare alla cittadinanza locale e globale. Contesti, percorsi, esperienze, Bergamo, Zeroseiup, 2021; e L. Mortari, Educare alla cittadinanza partecipata, Milano, Mondadori Bruno, 2008.

8E. Garin, La cultura e la scuola nella società italiana, Torino, Einaudi, 1960, p. 24.

9L. Vitelli, Chi è l’eretico, in “L’intellettuale dissidente”, 23 maggio 2014.

10Cfr. G. Panella, Il mantello dell’eretico. La pratica dell’eresia come modello culturale, Milano, Edizioni CFR, 2011.

11 A. Gnocchi, Intellettuali cattolici, in “Il Foglio” del 4 dicembre 2014.

12 G. Corbellini, Quando gli intelligenti si comportano da stupidi, in “IlSole24Ore” del 9 luglio del 2019.

13Da questo punto di vista può essere utile confrontarsi con un drammatico itinerario di pensiero come quello, conclusosi tragicamente con il suicidio, della filosofa franco-ucraina Rachel Bespaloff, alla quale è stato dedicato un interessante volume di Laura Sanò, Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff, Napoli, Istituto Italiano degli Studi Filosofici, 2007, con prefazione di R. Bodei.

Francesco di Maria

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