La guerra e l’insegnamento codificato della Chiesa

La guerra, suprema esasperazione individuale e collettiva della pulsione omicida, è sempre possibile e questa possibilità, nella storia umana, non si può abolire perché la sua abolizione, in un’ottica cattolica, richiederebbe l’abolizione del peccato originale, germe di ogni umana iniquità, che si può contrastare, tenere lontano, rimuovere continuamente attraverso una vita spirituale e sacramentale di pentimento e di conversione sostenuta e alimentata dalla grazia divina, ma che non si può estirpare in modo stabile, totale, radicale, se non auspicabilmente dopo la morte, quando ogni singola esistenza, vagliata da Dio, verrà liberata per sempre, attraverso un processo ontologico di trasformazione fisica e spirituale, dal peccato, dal dolore e dalla morte, o al contrario condannata a sperimentare per l’eternità le malefiche conseguenze di una vita terrena trascorsa fino alla fine nella colpa e nella insubordinazione alla volontà di Dio.

La guerra come possibilità può essere attenuata, mitigata, dalla capacità e dall’ostinata volontà degli Stati di risolvere i contrasti, le controversie internazionali di potere, per via e con mezzi esclusivamente razionali e incruenti, ma, proprio sul piano razionale, non si dà alcuna reale garanzia di poter impedire in qualunque parte del mondo un conflitto di crescente violenza e suscettibile di trasformarsi in una vera e propria guerra. E, purtroppo, la pretesa di controllare o bloccare razionalmente l’irrazionalità di un istinto bellico che tende a sfociare in atti di aggressione violenta, di sopraffazione, di conquista e accaparramento predatori e dunque illeciti di terre, proprietà, risorse e beni altrui, è appunto una pretesa illusoria, destituita di fondamento logico e razionale, dunque a sua volta irrazionale. Lo stesso ragionamento è applicabile a casi individuali di malattia mentale molto avanzata, che può essere certo monitorata, curata, tenuta a bada con appropriate terapie anche farmacologiche, ma di cui non è mai dato di prevedere aprioristicamente e definitivamente sviluppi o esiti specifici. Una malattia mentale, anche in modi del tutto inattesi e per motivi in apparenza banali, può sfociare repentinamente in atti suicidi o in forme oltremodo accentuate di aggressività e di follia omicida, ed è solo in quei frangenti che risulta possibile e doveroso intervenire, spesso con tecniche di sedazione e  provvedimenti sanitari di ricovero coatto ma talvolta anche con mezzi violenti e letali, al fine di evitare che tali incresciose situazioni possano ulteriormente degenerare.

La guerra è così: a volte si riesce a prevenirla, a scongiurarla, a neutralizzarla magari faticosamente, per mezzo di politiche e canali diplomatici particolarmente attenti e sensibili, ma altre volte, se la spinta ad aggredire in modo violento e sconsiderato non deriva tanto da cause oggettive o che come tali possano essere ragionevolmente riconosciute quanto da fattori endogeni, interni alla mente e alla psiche di qualche capo di Stato (vedi emblematicamente Hitler o Putin), se cioè l’impulso a volere la guerra risiede per esempio nel delirio a lungo coltivato di onnipotenza di qualche superpotente o superpotenza, restano solo due possibilità: o interviene direttamente Dio con le sue legioni angeliche e stronca immediatamente ogni malvagio ed empio disegno di sterminio, o tocca agli uomini e ai popoli aggrediti ingiustamente farsi carico delle altrui minacce e resistere, con le armi disponibili e con gli aiuti economici e militari delle nazioni amiche o alleate, alla ferocia bellica del nemico aggressore e invasore.

La storia della guerra e delle guerre è parte costitutiva ed integrante della storia generale dell’umanità e tutto quello che umanamente si può fare, ogni volta che insorgono motivi di conflitto tra gruppi etnici o nazioni diverse, per evitare che essi si trasformino in un incendio sempre più ampio e alla fine indomabile, è il tentativo di ricomporre per tempo le ragioni del dissidio attraverso offerte o proposte ragionevoli e quanto più possibile soddisfacenti per tutte le parti in causa. Non c’è altra strada, non si danno altri mezzi non già per sradicare dalla vita delle nazioni e degli individui questa pericolosa e malefica sorgente di distruzione e morte ma almeno per tenerla costantemente sotto controllo ed evitare che divampi in troppo estese e incontenibili forme omicide. Ma, purtroppo, la guerra non passerà mai di moda fino a quando il genere umano avrà la possibilità di abitare nella sua residenza terrena.

La guerra corrisponde ad un dato oggettivo, variabile storicamente ma sostanzialmente immodificabile, della struttura antropologica umana, in quanto quest’ultima è caratterizzata da una sorta di divisione, di scissione, di contrapposizione, non solo tra istintività e razionalità, ma anche tra un’istintiva ricerca razionale di appagamento egocentrico (ivi compresi affetti e beni che vi rientrino a diverso titolo) e non di rado egotistico e una più distaccata e meditata attività riflessiva in cui compare stabilmente l’altro da sé come dotato di identiche caratteristiche appetitive e che impone una valutazione sulle modalità comportamentali e sulle tecniche relazionali da adottare, sia pur sempre in chiave egoistica o egocentrica, rispetto ad aspettative altre e ad interessi virtualmente o realmente conflittuali con i propri.

Senonché, in una prospettiva evangelica e cristiana, tale struttura antropologica, pur conservando stabilmente le sue caratteristiche naturali, può venire a disporre di una risorsa spirituale che, riflettendosi sulle stesse facoltà psicologiche, intellettive e morali, dell’io, può concorrere a trasformarne, in misura più o meno significativa, le dinamiche e i processi interiori. Questa risorsa spirituale è la fede cristiana che immette l’essere umano in una realtà molto più ampia ed enigmatica di quella comunemente esperibile per via di esperienza e ragione, in un universo non solo immanente ma anche trascendente di significati e di valori, in un orizzonte di ricerca e di senso in cui i concetti stessi di esperienza e ragione vengono dilatando o espandendo i propri confini logico-metodologici fino a prefigurare inedite e originali possibilità di acquisizione critico-conoscitiva e di esplorazione etico-esistenziale. Lungi dall’impoverire l’attività razionale e la complessiva vita spirituale dell’umanità, la fede nel Dio di Gesù Cristo, perno imprescindibile della civiltà planetaria, costringe entrambe a non chiudersi in fecondi ma consueti e collaudati circuiti logico-concettuali ed empirico-sperimentali sollecitandole in modi diversi ad aprirsi ad un ignoto ancora in attesa di essere gradualmente scoperto e decriptato e a scenari non necessariamente privi, anche sotto il profilo esistenziale, di sorprendente e inesplorata vitalità.

La Chiesa, i nuclei più integri e ispirati della Chiesa, quel “piccolo resto” di testimoni semplici e audaci della parola di Dio con cui la Chiesa viene in realtà identificandosi in ogni epoca storica, conoscono bene tanto la contraddittorietà quanto l’irriducibile complessità dell’architettura antropologica della vita in generale, di cui la vita umana costituisce un significativo e problematico riflesso. Ed è per questo che essa, al di là delle particolari e talvolta ambigue forme di sensibilità pastorale che tendono a caratterizzare e diversificare le esperienze e l’impegno apostolici che vengono succedendosi e talvolta sovrapponendosi nel corso della storia, non ha mai potuto liquidare, proprio in chiave biblico-evangelica, il tema della violenza, dell’aggressività, dell’assassinio e della guerra nella vita e nella storia degli uomini, in termini sbrigativi di condanna univoca e irrevocabile. Nell’articolo 2261 del Catechismo cattolico si precisa il senso del divieto contenuto nel quinto comandamento: non uccidere.

Tale divieto comporta anche l’obbligo, per chiunque ne abbia la possibilità o la opportunità, di adoperarsi affinchè l’atto delittuoso, l’omicidio, non abbia compimento, specialmente se tale atto sia diretto contro una persona o un gruppo di persone innocenti e giuste. Infatti, alla luce di un ispirato versetto vetero-testamentario, la Chiesa esplicita il significato del “non uccidere” in questi termini: «Non far morire l’innocente e il giusto (Es 23, 7)». Come dire: se tu sei testimone di un’aggressione ai danni di qualcuno, specialmente se inerme, indifeso e incolpevole, non fare finta di non vedere e non limitarti a guardare, ma, nei limiti delle tue forze e delle tue possibilità, adoperati per portare direttamente o indirettamente soccorso, anche con le maniere forti, alla o alle persone minacciate, aggredite e malmenate, per impedire che vengano gravemente ferite o uccise.

Il che non toglie che possano darsi circostanze in cui sia spiritualmente necessario portare soccorso, ove sia possibile, persino al nemico che si trovi in grave difficoltà o versi in pericolo di vita. In tal senso, lungi dal costituire una violazione del quinto comandamento, anche la difesa violenta, pur se non indiscriminatamente violenta, della altrui come della propria vita rispetto a concrete minacce di morte, ad atti aggressivi o deliberatamente omicidi, è ritenuta doverosa o comunque legittima, giacchè l’amore verso il prossimo come «verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. È quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale» (art. 2264 ma anche art. 2263).

Peraltro, estendendo l’analisi a casi di estesi conflitti bellici, suscettibili di generare tragedie e lutti inestinguibili non solo per i diretti contendenti ma talvolta anche per quei popoli che in un modo o nell’altro ne vengano o ne restino coinvolti, la Chiesa spiega con molta chiarezza che «la legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità» (art. 2265). D’onde la piena legittimazione del diritto-dovere di uno Stato di opporsi anche con le armi a qualunque compagine statuale che pretenda di invadere, occupare, annettere, magari anche con brutale e indiscriminata violenza, territori e popoli confinanti o comunque non propri, indipendenti e sovrani. Almeno per i cattolici, specialmente per quei cattolici comuni o anche autorevoli che pretendono di amare la pace anche a scapito della giustizia, il discorso dovrebbe essere chiaro e completamente privo di equivoci, sebbene, in buona o cattiva fede, si farà sempre molta fatica a capire che una guerra, se finalizzata alla difesa di tante vite umane e della dignità e libertà di un popolo, possa essere vissuta e sostenuta, con la benedizione di Dio, come immenso atto d’amore verso il prossimo sofferente.

Il cattolico non ama la pace per la pace perché questo modo di intendere la pace può sancire e spesso ha sancito e sancisce il diritto del più forte o del più malvagio, uno stato permanente di ingiustizia e di oppressione. E, per quanto mi riguarda come uomo e come cattolico, la pace che oggi, in relazione all’eroica resistenza antinazista del popolo ucraino, si vorrebbe incompatibile con l’uso delle armi, coincide molto spesso, a dispetto di quel che scriveva sulle colonne di “Avvenire” l’irrequieta professoressa Donatella Di Cesare il 27 marzo del 2022 (La pace non è ingenuità e la guerra è tradimento), con «la falsa informazione di vili pifferai putiniani», oppure con «la condotta di anime belle e sprovvedute». Non perché la pace si costruisca con la guerra, ma solo perché senza guerra di difesa, senza resistenza armata, la pace, talvolta, può essere solo quella del tiranno invasore che si fa beffe dell’etica e del diritto internazionale e che non esita a citare goffamente le parole del vangelo per giustificare la sua voglia perversa di imperialistico espansionismo.  

Francesco di Maria

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