La guerra e i cattolici

Stamattina 12 giugno 2022 ho litigato, mio malgrado, con un prete cui devo molto, ma a causa del fatto che devo molto di più a Colui per il quale sono appunto in una condizione di debito verso quei suoi “rappresentanti” che, di tanto in tanto, in un momento particolarmente difficile della sua Chiesa, mi consentono di onorarlo e adorarlo come Egli merita. Per che cosa ho litigato? Per la guerra omicida in corso in Ucraina, per il fatto che gran parte della odierna Chiesa cattolica abbia assunto posizioni neutrali, di non belligeranza, di pacifismo indiscriminato, e in realtà, almeno in questo caso, di vile e turpe miopia, di incapacità politica e soprattutto spirituale di leggere correttamente la drammatica vicenda storica che si sta ora consumando ad esclusivo danno del popolo ucraino ma, virtualmente, con intrinseche e concrete possibilità di totale annientamento per l’intera umanità. Tale vicenda è peraltro punteggiata, sempre più spesso, da un indecoroso ed ipocrita umanitarismo moralistico, formalmente volto a favorire il dialogo e accordi di pace tra russi e ucraini ma in sostanza funzionale a salvaguardare la pelle e meschini interessi di bottega di quanti ancora non si trovano direttamente coinvolti nel conflitto: secondo il prete di cui sopra, in fin dei conti noi cristiani e cattolici ancora non sapremmo molto delle vere ragioni che hanno indotto i russi ad invadere l’Ucraina, e d’altra parte non possiamo né ignorare che ad uccidere non sarebbero solo i russi ma anche i loro nemici, né negare che la violenza genera sempre violenza: che, come a tutti coloro che siano dotati di buon senso, non può che apparire in parte come una mistificante razionalizzazione e in parte come un micidiale e deprimente mixer, cui il popolo cristiano è non di rado soggetto, di stupidità, insensibilità morale, fraintendimento evangelico, e alla fine anche vigliaccheria umana.

Giorni or sono avevo inviato in privato parole di aspro rimprovero al direttore del quotidiano cattolico “Avvenire”, Marco Tarquinio, che parla sempre abusivamente a nome del vangelo senza lasciarsi mai sfiorare dal dubbio che le indicazioni evangeliche, al riguardo, siano meno scontate e meno epidermiche di quanto possa apparirgli, pur prestandosi a fare da servile più che da fedele megafono alle parole spesso ambigue e ondivaghe di papa Francesco. Questo giornalista riconosceva, bontà sua, che i russi avevano invaso l’Ucraina, affermando tuttavia subito dopo che la carneficina la starebbero facendo non solo i russi ma anche gli ucraini. Immagino che molti miei correligionari a questo punto si sentano spinti ad osservare che il ribelle di fatto sarei io, in quanto verrei contrapponendomi polemicamente al papa, a gran parte della gerarchia ecclesiastica e del clero cattolico, al modo di pensare forse maggioritario della cattolicità.

Non so se sia proprio così, ma, ammettendo che questo rilievo sia fondato, non è che ad esso non si possa dare una risposta adeguata, che è la seguente. Il vangelo, che spesso e volentieri, come nel caso che segue, non fa alcuna distinzione tra il gruppo degli apostoli e gli altri seguaci del Cristo, nel senso che egli pur parlando ad apostoli e discepoli in senso stretto rivolge i suoi moniti a tutti indistintamente, recita così: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (Mt 18, 15-18). In parte, è quello che in taluni frangenti mi sforzo di fare; in parte, perchè per causa di forza maggiore non riesco quasi mai a trovare due o tre persone fidate e qualificate che siano disposte a fare da testimoni e ancora meno riesco a coinvolgere la comunità oggi sempre più abitudinaria e conformista, pur avendo la opportunità di sottoporre on line i vari momenti della mia testimonianza di fede ad un cospicuo numero di persone, verosimilmente ben più numerose della totalità dei fedeli di una determinata parrocchia o diocesi. Bisogna, a mio avviso, prestare particolare attenzione alla parte conclusiva del brano citato, in quanto qui i soggetti cui viene conferita la facoltà di legare e di sciogliere sulla terra non sono univocamente identificabili con presbiteri, vescovi e papi.

Inoltre, servi di Dio non sono solo questi ultimi, ma tutti coloro che, nelle diverse funzioni che vengano esercitando nel vivere quotidiano e sia pure con un diverso grado di consapevolezza, si pongono alla sequela di Gesù, tant’è vero che, quando Pietro gli chiede se, quando parla dei suoi servi, egli si stia riferendo ai 12 o a tutti indistintamente, Gesù non risponde in modo esplicito ma lascia intendere chiaramente che il discorso vale per tutti: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!  Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Lc 12, 35-40). E ulteriormente precisa: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire” e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» (Lc 12, 42-48). Dunque, sia coloro cui è stato dato molto che coloro cui è stato molto affidato devono stare attenti a come recepiscono la volontà di Dio e a come tentano di porla in atto.

Per quanto mi riguarda, non penso di essere così arrogante da ritenere di potermi sostituire ad un papa eletto dalla Chiesa cattolica, né ad un giornalista a suo modo cattolico, né a chiunque altro si professi cattolico a vario titolo, ma cerco di prendere sul serio quel “molto” che mi è stato dato oggettivamente dal Signore e tento di fare la mia parte nel migliore dei modi possibili assumendomi agli occhi di Dio la responsabilità dei miei pensieri, dei miei atti, del modo stesso di relazionarmi con i fratelli di fede e con i fratelli non credenti. Ciò detto e precisato, mi chiedo: come fanno tanti cattolici a non accorgersi che, alla guida della Russia, c’è un pazzo scatenato, un delinquente mafioso, un paranoico delirante e omicida, che andrebbe solo incatenato per sempre? A non accorgersi che tutti quei russi che, ipnotizzati dal miraggio di una demoniaca e illimitata volontà di potere, parlano di sé, dalla mattina alla sera, come di un novello popolo eletto chiamato a realizzare i destini già scritti della storia umana, sono in realtà letteralmente invasati e abitati da uno spirito maligno che vuole sostituirsi a Dio stesso in un’opera costantemente minacciata di distruzione di quel mondo da Dio creato e che solo Dio ha il diritto di distruggere? A non constatare che tutti costoro, inclini a parlare dell’Occidente come di una civiltà ormai decadente, ne agognano tuttavia le ricchezze, i lussi, le comodità, i privilegi e persino le mode più ributtanti di costume? Ma in che modo certi giornalisti cattolici, tanti presbiteri, tanti teologi e, in generale, uomini di Chiesa, si accostano alle Scritture, al Vangelo, come leggono essi il quinto comandamento che non prescrive solo il divieto di uccidere ma anche quello di assistere in modo inerte e cinico ad un omicidio, ad un assassinio o ad un qualunque atto di sopraffazione ai danni di chi oggettivamente non è nella condizione di potersi difendere rispetto a chi è più grosso e più forte di lui? Quale sarebbe per costoro il vero significato della legge cristiana dell’amore? 

Ora, posso anche capire, non certo giustificare, che per motivi prettamente politici e ideologici, si possa essere portati a prendere le difese, adducendo a proprio sostegno ragioni storiche molto spesso più presunte che reali, di chi aggredisce o di chi invece si oppone ad una determinata aggressione, benché persino le ragioni storiche apparentemente più incontrovertibili non si prestino quasi mai a letture o ad interpretazioni univoche e prive di ambiguità. Ma non posso né capire, né tanto meno giustificare quell’eterogenea galassia di sedicenti posizioni pacifiste e soprattutto cattoliche che dovrebbero essere capaci di riconoscere forme del tutto gratuite di violenza e usi palesemente arbitrari e illegittimi della forza e della stessa forza militare e che invece risultano alquanto esitanti a distinguere tra una violenza spropositata e immorale di offesa e una violenza di difesa e di legittima difesa, quasi che la violenza di un Golia e quella di un Davide siano sostanzialmente equivalenti, per cui sembrerebbe normale inferire che sia l’uno che l’altro meglio farebbero a rinunciare ad affrontarsi in duello o per mezzo di una lotta mortale e che, in ogni caso, anche nell’ipotesi di uno scontro tra loro frontale e di una probabile sconfitta di Davide, nessuno dovrebbe portare soccorso a quest’ultimo aiutandolo a resistere, anche con armi abbastanza potenti, alla brutale ferocia del più potente Golia, per il semplice fatto che altrimenti il conflitto potrebbe diventare sempre più aspro e devastante fino a coinvolgere in senso sempre più disumano e luttuoso le popolazioni facenti capo ad entrambi i contendenti.

Si  possono minimamente capire e tollerare, sul piano spirituale e religioso, modi così stolti e irrealistici di ragionare e di operare anche sul piano morale e comportamentale? E’ questo il concetto di prossimità, di carità, di altruismo che scaturirebbe dagli insegnamenti evangelici? Far finta di non vedere che qualcuno viene malmenato sotto i tuoi occhi, non darsi da fare al meglio delle proprie possibilità, fisiche e morali, per dare soccorso a chi stia per soccombere sotto i pugni animaleschi di qualche malvivente, non preoccuparsi neppure di pensare al modo più rapido ed efficace per neutralizzare l’aggressore? Sono forse questi i precetti evangelici che si dovrebbero ricavare dalla grande massima evangelica dell’amore per i nemici e della preghiera per i persecutori? E’ proprio vero che Gesù abbia delegittimato in modo tassativo e radicale l’uso della forza in qualunque situazione di vita, in vista di qualunque scopo o anche nel corso di atti particolarmente efferati contro singole persone o interi popoli? E’ vero: Gesù toglie di mano la spada a Pietro, ma ci si è chiesto attentamente per quale ragione, in quale contesto, in funzione di quali eventi salvifici? E poi, soprattutto, ha mai detto che Cesare, gli Stati, non possono usare la forza per nessun motivo, ha mai condannato l’uso delle armi, la carcerazione, la stessa pena capitale della crocifissione?

Non ha piuttosto distinto nettamente la sfera politica da quella religiosa, intendendo anche vietare qualunque interferenza della Chiesa in questioni di natura temporale e di esclusiva competenza statuale, come ad esempio la decisione se intraprendere o non intraprendere una guerra, e con quali mezzi, quali strumenti e armi, per difendere il proprio territorio, il proprio popolo, da un nemico particolarmente aggressivo. E’ certo lecito il non voler impugnare un fucile o un pugnale per non essere costretti ad uccidere, astenersi dal servizio militare per testimoniare il proprio amore per la pace, ma sarà ugualmente lecito, da un punto di vista cristiano, decidere scientemente di non usare un potente strumento di offesa, pur avendone la piena opportunità, contro chiunque stia seviziando tua moglie o donne inermi e innocenti, oppure sia sul punto di trucidare i tuoi figli o un determinato numero di bambini completamente indifesi. E’ stato o non è stato lecito, anzi doveroso anche cristianamente opporsi con le armi, combattere militarmente contro le spietate armate di Hitler, e hanno forse tradito la loro fede tutti quei cattolici che, armi in pugno e per il solo fatto di averle imbracciate e usate per assoluta necessità, hanno partecipato attivamente alla Resistenza antifascista e antinazista? E il popolo ucraino, invaso, aggredito, devastato brutalmente, e in non trascurabile misura annientato, in modo del tutto ingiustificato dall’esercito russo di un despota sanguinario, ha o non ha oggi il diritto e persino il dovere di resistere militarmente al nemico oppressore, chiedendo continuamente al mondo occidentale di volerlo sostenere con una strumentazione e un equipaggiamento bellici quanto più efficaci possibile? Oppure, per non alimentare ulteriormente violenza e guerra, per ottemperare alla carità evangelica, dovrebbe rassegnarsi ad accettare di sparire dalla carta geografica e dalla faccia della terra? Sono certi i pacifisti cattolici, sempre “eroici” difensori della pace nel mondo fino a quando non corrono seri rischi i loro interessi e affari privati, le loro proprietà, le loro abitazioni, le loro famiglie, la loro placida e gratificante esistenza impregnata di attivismo fine a se stesso e di militanza religiosa tutta decorativa e spesso farisaica, che sono veramente questi i modi di fare la volontà di Dio?

Ci può essere pace solo in quanto assenza di guerra? Ed è la guerra in sé che va demonizzata o piuttosto il complesso di cause che ne sono alla base? Non è forse vero, biblicamente ed evangelicamente, che la pace è tale solo se sia frutto di un incontro tra la verità e la giustizia? Ed è forse giusto che un popolo sovrano non possa essere totalmente libero di darsi gli ordinamenti e le forme di governo che vuole, né decidere di entrare a far parte di una alleanza occidentale di Stati, né di rompere ogni legame politico, economico e commerciale con uno Stato tirannico di cui in precedenza aveva fatto parte? Ma i pacifisti cattolici dicono: no, la pace innanzitutto anche a scapito di verità e giustizia o a prescindere da esse. Solo che così possono continuare ad essere cattolici senza essere o restare cristiani, perché il Cristo non ha mai disconosciuto e anzi ha esaltato il diritto-dovere dei suoi figli di tutelare la vita nei suoi annessi e connessi princìpi di dignità e libertà. Chiedere pace senza concreto impegno per il rispetto della dignità e della libertà di chi la reclama o ne necessita è, da un punto di vista evangelico e cristiano, semplicemente un controsenso, anche se poi il cristiano sa di poter contare, anche nelle circostanze più difficili e tormentate della sua vita, sulla misericordia e sulla giustizia divine. Continuare a sostenere che gli ucraini dovrebbero desistere da una resistenza armata contro i russi, essendo evidente che quanto più si allunga il conflitto tanto più si allunga anche l’elenco dei morti, significa disconoscere l’importanza di un principio basilare della concezione cristiana della vita, vale a dire che la vera e irreversibile morte è quella spirituale, non certo quella fisica o corporale, e che la giustizia e la misericordia divine non è indifferente al sacrificio di chi muore perché vittima di intenzioni o piani omicidi e, ancor più, di chi immoli la sua vita per la difesa della sua famiglia, del suo popolo o della sua patria. D’altra parte, ai cattolici dovrebbe essere ben noto che, come dice sant’Agostino, ci sono vivi che sono morti e morti che sono e resteranno per sempre vivi.

Accade sempre più spesso, è opportuno insistere su questo aspetto del problema, di dover ascoltare cattolici che, non senza una buona dose di ipocrisia, giustificano il loro pacifismo con un senso di dolore e di pietà per un numero di vittime che, con il perdurare della guerra, sarebbe naturalmente destinato ad accrescersi a dismisura. Piango per i morti, ha pubblicamente ripetuto due volte il giornalista Tarquinio con un tono di voce rotto da teatrale commozione! Ma anche se mi sbagliassi sul grado di sincerità dei sentimenti di questo come di altri cattolici, non c’è dubbio che in molti casi si dica di piangere per i morti semplicemente per nascondere i reali motivi di quel pianto, il fatto cioè che in realtà si piange per i vivi, da intendere semplicemente come non ancora trapassati; si piange per quelli che sono ancora vivi e vegeti, perché, se la guerra si allarga e oltrepassa magari i confini ucraini, anche loro potrebbero non fare più la vita tranquilla cui sono abituati, anche loro potrebbero crepare! Molti piangono sostanzialmente per se stessi, le proprie occupazioni, i propri affari, i loro mediocrissimi interessi terreni, come se non sapessero che il Signore può chiedere ad ogni sua creatura di lasciare questo mondo in qualunque momento, indipendentemente dal tipo di attività svolta e dalla qualità morale e spirituale della propria esistenza. Spiace constatarlo, ma è così: il mondo cattolico è un mondo impregnato di corrosivo infantilismo spirituale, di ipocrisia, di pavidità. Il pacifismo che vi si coltiva è troppo spesso un pacifismo da strapazzo, un pacifismo i cui veri nomi non di rado sono quelli di viltà, di collaborazionismo, di tradimento non solo della patria ma della stessa Chiesa di Cristo. Questa è la nuda e drammatica verità, e per coprire questa inquietante e umiliante verità si vengono sostenendo e scrivendo valanghe di volgari minchionerie!

Non ho, naturalmente, alcun diritto di giudicare in modo tassativo e definitivo tutti quei cattolici che sulla guerra in corso, su questa guerra e non sulla guerra in genere perché non è vero che tutte le guerre siano uguali, vengono esprimendo valutazioni che a me sembrano alquanto carenti sul piano dell’analisi storico-giuridico-politica e soprattutto molto povere di fedeltà evangelica al principio di prossimità, di spirito caritatevole, di senso cristiano della giustizia e della pace. Non li giudico, perché il giudizio ultimo spetta a Dio, ma posso e devo dissentire da loro, fraternamente ed energicamente ad un tempo, nel momento in cui, in qualità di battezzato e di testimone della fede in Cristo, io, in tutta coscienza, venga percependo le loro posizioni come non veritiere, ipocrite e tali da recare solo disonore alla comunità universale dei giustificati e dei salvati in Cristo. Devo peraltro chiedere preventivamente perdono a Dio e ai fratelli se talvolta, per il temperamento un po’ impulsivo e irruento che riconosco di avere, mi sfugge di bocca o dalla penna qualche apprezzamento non proprio fraterno, qualche tono un po’ aspro, ma il fatto che non mi senta dotato di infinita pazienza e di adamantino spirito di sopportazione non mi induce ad abdicare alla mia funzione di testimoniare apertamente, con l’aiuto dello Spirito Santo, la mia fede nelle sante e profonde verità di Cristo. Per questo motivo, anche se la Chiesa cattolica, ancor prima dell’odierno pontificato, aveva cominciato a pensare di dover ammorbidire la tradizionale dottrina cattolica della “guerra giusta”, prima elaborata da Agostino, poi sviluppata da Tommaso e, successivamente, da altri valenti uomini di Chiesa e teologi cattolici, sempre con grande prudenza e illuminata capacità di discernimento, non ritengo che le iniziative riformatrici in seno alla Chiesa stessa siano, sempre e comunque, necessariamente opportune, ragionevoli, indiscutibili e infine rigorosamente corrispondenti o conformi al senso intenzionale più profondo, ancor più del significato letterale, delle diverse articolazioni spirituali dell’annuncio evangelico di Cristo.

Di conseguenza, anche una posizione radicale, anche se formalmente confusa, come quella dell’odierno pontefice, secondo la quale la guerra non è mai giusta, in quanto giusta è solo la pace (Politique et société: Pape François, rencontres avec Dominique Wolton, Paris, Éditions de l’Observatoire, 2017), poi riproposta recentemente in data 18 febbraio 2022 con un sarcasmo a mio avviso mal riuscito (“Siamo attaccati alle guerre …L’umanità è campione nel fare la guerra, e questo è una vergogna per tutti”), benché molto meno radicale di quella che esprimeva il 27 marzo del 2015 quando affermava che i massacri dei popoli e degli stessi cristiani devono essere arrestati e sottolineava che «dove c’è una aggressione ingiusta, posso dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. È un diritto che l’umanità ha», non è cristianamente né inattaccabile, né dogmaticamente vincolante, anche perché tale radicalità, nei diversi modi in cui appare formulata, risulta abbastanza ondeggiante e intrinsecamente contraddittoria. Se, come dice Francesco, l’aggressione ingiusta va fermata, evidentemente con le armi, ne consegue logicamente che, almeno qualche volta, la guerra di difesa, di resistenza, possa essere considerata comprensibile e giusta, e, nello specifico, è fuori discussione che l’aggressione russa ai danni del popolo ucraino sia, per quanto vagamente provocata da fattori esterni (come l’espansione, peraltro, legittima e pacifica della Nato verso i confini russi, o come l’ostilità politica manifestata dal governo ucraino verso Mosca e il suo dittatore criminale), del tutto ingiusta e ingiustificabile e, come tale, in virtù del principio dell’autodeterminazione dei popoli, vada contrastata nei modi e con i mezzi in cui e con cui i più diretti interessati intendano contrapporsi al potente e feroce esercito nemico. Ogni altro discorso non può avere che un significato puramente retorico, consolatorio, moralistico, così come ogni appello alla pace non può che apparire generico e meramente edificante, che sono tutti tratti decisamente estranei alla più genuina spiritualità evangelica.

E’ senz’altro vero che la guerra, come la storia nel suo insieme, ha una sua complessità, ha delle radici e degli interessi originari da cui non si può prescindere, ma non è che poi tale complessità possa essere usata in modo inconsapevolmente strumentale per dire che non si possa distinguere, come fa Francesco, tra buoni e cattivi, cioè tra quelli che hanno tendenzialmente ragione (gli ucraini) e quelli che hanno completamente torto (i russi), proprio mentre è il papa stesso a definire “eroico” il popolo ucraino e a riconoscere “la ferocia, la crudeltà delle truppe russe” (19 maggio 2022). Nato o non Nato, e a mio avviso un pontefice non dovrebbe mai entrare in specifiche questioni di strategia politico-militare, è stata forse minacciata o dichiarata guerra da qualcuno al signor Putin? No. Però, si controbatte, una Ucraina troppo filoccidentale costituisce obiettivamente una provocazione,  un pericolo reale di aggressione ai danni del territorio russo, ed era pertanto inevitabile che la Russia reagisse. Inevitabile? Quindi, da questo ragionamento si dovrebbe dedurre che, tutte le volte che uno Stato, o meglio una superpotenza, percepisce un pericolo virtuale per la propria integrità territoriale e la propria sovranità nazionale, esso non possa fare altro, in modo completamente legittimo, che mettersi a cannoneggiare all’impazzata e a scagliare missili altamente distruttivi e letali verso i territori e le popolazioni in cui si ritenga che quel pericolo sia radicato.

Secondo questa logica, già da diversi decenni città europee come Londra, Berlino, Parigi, avrebbero dovuto mobilitarsi militarmente contro la Russia visto che esse sono ad un tiro di schioppo dalle distruttive postazioni missilistiche di quest’ultima. La verità più evidente è anche la più semplice, quella che non richiede alcun concetto di complessità per essere correttamente individuata, ed è che la Russia intende impadronirsi in modo violento e fraudolento delle grandi risorse naturali di cui dispone l’Ucraina, dei suoi importanti sbocchi sul mar Nero, dei traffici commerciali fiorenti e redditizi che sono alla base della sua economia.

Che poi, come sempre il papa lamenta per evidenziare come non tutte le guerre vengano percepite con la stessa intensità morale dalla pubblica opinione, il mondo sia pieno di guerre di cui nessuno parla e a cui nessuno pensa, sarà in parte anche vero, ma anche questo non mi pare un buon motivo per ritenere che non si debba distinguere tra guerra d’offesa e guerra di difesa, benché anche la prima talvolta possa configurarsi come guerra difensiva (difensiva e non preventiva), e che la guerra, pertanto, non sia mai giusta. Ammettere che la pace possa sancire uno stato di ingiustizia e condannare determinati popoli alla miseria e alla schiavitù, ammettere che la guerra possa rendersi necessaria per difendere la propria indipendenza e libertà di popolo invaso e oppresso da un nemico potente, prepotente e oppressivo e la dignità di milioni di persone, buone o cattive che siano, significa adottare una chiave interpretativa razionale, corretta, demistificante, proprio in conformità ad una logica della complessità evocata anche, in modo molto approssimativo e unilaterale, dal papa, ma che in realtà è molto più esigente e impegnativa, sia sotto il profilo teorico-conoscitivo che sotto quello etico e politico, di quanto talvolta non sospettino persino alcuni dei suoi migliori esponenti nel campo delle scienze e del sapere in genere. Ma non è né confusa, né superficiale la dottrina cattolica sulla guerra quale è possibile ritrovare nella Tradizione ultrasecolare della Chiesa e nello stesso magistero pontificio.

Non si dovrebbe mai dimenticare che la parola di Cristo è fondata su due parole, due concetti, due realtà spirituali apparentemente contraddittorie: da una parte, la pace, che però non è quella pacifica e spensierata del mondo, dall’altra la spada, anch’essa diversa dalla comune spada militare che infligge ferite e morte fisiche, ma che evoca comunque divisività, il conflitto e il tormento interiore, l’assunzione di responsabilità che può implicare anche scelte difficili, grandi sacrifici e pesanti perdite personali. Il Cristo, d’altra parte, è dolce e mite e ama circondarsi di bambini innocenti, spontanei e fiduciosi, ma al tempo stesso è colui che talvolta non esita a compiere atti di forza, come nei confronti dei mercanti del tempio quando usa una frusta e ne rovescia i tavoli. Inoltre, il Cristo è anche colui che, alla fine del mondo, porterà con sé «una spada affilata, per colpire con essa le nazioni», che «governerà con scettro di ferro e pigerà nel tino il vino dell’ira furiosa di Dio, l’Onnipotente» (Ap 19, 15). Chi, per grazia divina, intende correttamente la Parola di Dio e la applica o si sforza di applicarla coerentemente nella sua vita, è in pace con se stesso perché è in pace con Dio, anche se tale stato di pace comporta rinunce, sacrifici, lotte interiori e talvolta anche contrasti molto duri e costosi con il mondo e con certo prossimo abituato a vivere di menzogna, di ipocrisia, di sottile perfidia e di strisciante o palese e violenta prevaricazione. La lotta è parte costitutiva e integrante della vita spirituale del cristiano; non è una semplice possibilità, un optional, ma un obbligo, una condizione inderogabile per raggiungere la pace.

La pace si conquista combattendo contro le cause della guerra, cioè il peccato e il male, e in funzione della giustizia che è inseparabile dalla verità. La pace, pertanto, non è sinonimo di accomodamento, di compromesso al ribasso, di accordo politico-diplomatico: essa non può limitarsi a questo e non può essere ottenuta a qualunque costo, perché, come ebbe limpidamente a dire Giovanni Paolo II, «noi non siamo pacifisti, non vogliamo la pace ad ogni costo. Una pace giusta. Pace e giustizia. La pace è sempre opera della giustizia: Opus iustitiae pax», e in pari tempo della carità e dell’amore (Discorso del 17 febbraio 1991). E’ chiaro? Il cristiano non può essere un pacifista, un fautore di forme false e indiscriminate di pace, uno sbandieratore di ideali qualunquistici e utilitaristici di pacificazione. Il cristiano dev’essere un operatore, un costruttore di pace, ma secondo princìpi di verità, di giustizia, di reciproca, coraggiosa e solidale comprensione tra le parti in causa. In caso contrario, egli, nel nome della pace, sarebbe semplicemente un volgare imbroglione, un cinico operatore di iniquità, uno speculatore e un mistificatore, un trafficante di valori avariati.

La violenza come strumento di offesa, di prevaricazione, di ingiustizia e disumanità, non è certo legittimata ma apertamente condannata nel vangelo; non è neppure incoraggiata nei casi in cui pacifici esseri umani o pacifici popoli siano concretamente resi oggetto di derisione, oltraggio, minaccia o intimidazione del tutto arbitrari e ingiustificati. In questi casi, il consiglio evangelico è il ben noto “porgi l’altra guancia”, che però non significa il dover arretrare per paura o viltà dinanzi al malvagio, il dover rinunciare alle proprie ragioni e ai propri diritti, alla propria libertà e dignità di uomo, suddito o cittadino, bensì un reagire almeno inizialmente con moderazione, con pazienza, con un grado di aggressività inferiore a quello dell’avversario, specie se questi disponga di maggiore forza e di strumenti più efficaci di offesa. Nei vangeli e in tutto il Nuovo Testamento non si trova una frase, un concetto, una parola, in cui venga esclusa in modo incontrovertibile come inumana, immorale, o semplicemente inopportuna, la possibilità stessa di difendere, se necessario anche con le maniere forti o con le armi, la propria persona, i propri beni, i propri affetti, la propria terra o quelli di un vicino, di un prossimo debole, indifeso e innocente. Non si trovano né giudizi di biasimo, né condanne verso chiunque alla forza ricorra con capacità di discernimento e di giudizio e dopo aver sperimentato tutte le possibili vie di risolvere per via pacifica un contrasto o un conflitto più o meno acceso e suscettibile di produrre effetti oltremodo dannosi e iniqui per la parte cui si vorrebbe imporre condizioni intollerabili di dipendenza o schiavitù.

Peraltro, agli Stati (concettualmente sintetizzati da Gesù nella figura di Cesare) il vangelo riconosce implicitamente il monopolio legittimo della forza, dove il termine legittimo non comporta certo che quest’ultima possa essere esercitata in modo arbitrario, indiscriminato ed iniquo, ma nel senso che possa essere tuttavia esercitata secondo le stesse leggi statuali date ai fini del bene comune, dell’ordine e della sicurezza pubblici, della difesa dell’integrità territoriale da attacchi esterni e del mantenimento della pace, almeno sul piano politico e militare, rispetto a compagini statuali vicine o virtualmente rivali. Com’è noto, Gesù distingue tra il potere statuale e la legge divina, e da questa distinzione di principio discende il riconoscimento dell’uso legittimo della coercizione o della forza da parte dello Stato nell’ambito delle sue prerogative di assicurare l’ordine e la pace sociale, la tutela dei diritti individuali sanciti dalla legge e la difesa dei suoi confini, nonché l’obbligo dei sudditi o dei cittadini di ottemperare alle disposizioni dell’autorità costituita purchè compatibili con la fedeltà dei sudditi o cittadini di fede cristiana alle leggi e alla volontà divina. Questo significa altresì che, finché lo Stato non pretenda esplicitamente di volersi sostituire a Dio e di togliere la libertà religiosa e la libertà di culto, il cristiano non può sentirsi legittimato a disattendere il suo dovere civico di rispettare le stesse istituzioni statuali, ivi compresa quella relativa alla difesa armata della collettività contro eventuali nemici esterni, pur avendo facoltà di manifestare la propria contrarietà spirituale, più che religiosa in questo specifico caso, a impugnare e adoperare le armi contro chicchessia mostrandosi in pari tempo disposto a sopportarne le conseguenze sotto il profilo giuridico.

Bisogna dunque intendersi sul concetto di violenza e sul significato di  rigetto evangelico della violenza. Il problema è di capire quale sia evangelicamente la violenza da respingere o ricusare e la risposta è che, in senso propriamente biblico-evangelico, violenza è quella di prevaricazione, sopraffazione, usurpazione, indebita appropriazione, è quella deliberatamente e proditoriamente omicida, e non certo quella di opposizione o resistenza a dinamiche individuali o collettive di manifesta o comprovata malvagità, a fenomeni sociali locali o internazionali di intolleranza ideologica e politica, a tentativi nascosti e ingiustificati di rovesciare ordinamenti e istituzioni dello Stato di appartenenza. Su tutte queste questioni, su un’ampia gamma di situazioni storico-contingenti, non si dà alcun divieto evangelico per ciò che si riferisce al possibile uso della forza, pur restando senz’altro centrale, nel credo cristiano e cattolico, il consiglio evangelico di non cercare a tutti i costi la zuffa, di moderare sempre i toni del proprio argomentare e del proprio agire nei limiti dell’umanamente possibile, di valutare sempre se sia o non sia opportuno e in che misura far ricorso o rinunciare alla forza nelle diverse circostanze della vita e in rapporto ai molteplici avvenimenti della storia umana.

Dev’essere chiaro, inoltre, che tutte le volte che si giunga ad optare per le maniere forti come extrema ratio non tanto in rapporto a proprie soggettive esigenze quanto in rapporto ad oggettive necessità e valori morali, a bisogni vitali e diritti inalienabili della propria famiglia, della propria collettività, della propria patria o della propria Chiesa, a nessuno e a nessun battezzato in Cristo è consentito di esprimere giudizi censori o di condanna che tendano a sovrapporsi all’imperscrutabilità del giudizio divino. Non c’è dubbio, infine, che si diano anche situazioni in cui ogni essere umano deve poter riconoscere il sopraggiungere della propria “ora”, quella in cui ormai risulti inopportuna qualunque resistenza “violenta” alla reale e concreta malvagità del mondo e ci si disponga ad offrirsi silenziosamente e dignitosamente ai propri carnefici e alla stessa morte. Se il cristiano non vuole rischiare di fare del moralismo a buon mercato e di vestire i panni puliti ed eleganti del perfido fariseo, prima di criticare la violenza di chi lotta per sopravvivere, per i propri diritti di indipendenza e libertà, per dare ai propri figli un futuro di dignità e prosperità, per impedire che empi e malvagi nemici possano distruggere a loro piacimento il mondo e il destino dei popoli contro ogni santa legge di Dio, rifletta su se stesso e cerchi di capire se molto più insensate, sacrileghe, ciniche e violente non siano per caso le sue parole di non belligeranza incondizionata, di pacificazione e pace a tutti i costi, di aprioristico ed astratto pacifismo.

   Francesco di Maria    

   

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