Il diritto tra tecnicalità e accertamento del vero e del giusto

  1. Il diritto tra globalizzazione e relativismo

Senza diritto non c’è né libertà, né possibilità di civile convivenza. La norma giuridica è infatti un’emanazione ragionata e codificata dell’universale bisogno etico-razionale di giustizia e non si dà, almeno in linea di principio, un sistema più affidabile e collaudato di quello giuridico al fine di affrontare e risolvere nel modo più ragionevole, equanime e rispettoso possibile le liti, le controversie, i contenziosi perennemente presenti nella storia degli uomini. Naturalmente, le configurazioni, i modelli, gli assetti teorico-storici del diritto, sono molteplici e mutevoli, seppure essi siano sempre accomunati da un’idea intransigente, da un’esigenza formale, da uno spirito egualitario di equità, di giustizia, di legalità.

Se da una parte, le diverse situazioni storico-culturali, le tradizioni, le credenze e i costumi sempre cangianti dei popoli, non possono non condizionare l’evoluzione complessiva del diritto come quella di specifiche concezioni giuridiche vigenti nelle diverse aree del mondo, dall’altra la ratio giuridica strutturale, faticosamente e mai esaustivamente costruita nel corso dei secoli, resta quella, per quanto possa essere differentemente declinata, di porre un argine a pregiudizi e storture derivanti da idee o da tradizioni di pensiero pur radicate nella vita storico-sociale di individui e popoli ma non disciplinate secondo princìpi di ordinata e rigorosa razionalità, e di elaborare un sistema di regole chiare e certe, seppur sempre perfettibili, da porre alla base della vita civile, economica e politica. 

Com’è noto, la storia del diritto occidentale ha avuto per molti secoli le sue fonti principali in presupposti di ordine metafisico e teologico, tramontati i quali insieme ai complessivi ed egemonici modelli di pensiero che avevano a lungo ispirato, sarebbe venuto lentamente ma irreversibilmente prevalendo sul tradizionale diritto naturale un diritto puramente positivo (positivismo giuridico), non più fondato, come in precedenza, su un criterio di intangibile verità assoluta ma su un criterio di verosimiglianza, e quindi sui meccanismi del consenso e della relativa condivisione socio-culturale, delle presunte o reali maggioranze democratiche e oggi dell’amplificazione mediatica data a istanze pratiche generalizzate e più o meno largamente condivise ma non necessariamente oggettive e universali.

Questo è ciò che ormai accade stabilmente nella contemporanea e globalizzata società democratica, dove a determinare le norme giuridiche sono sempre meno le verità fondative della metafisica, della fede religiosa o della teologia, e sempre più le verità convenzionali delle mutevoli  maggioranze, o più semplicemente delle correnti di opinione, di quel pubblico consenso ritenuto tale anche se non necessariamente schiacciante, purchè adeguatamente sponsorizzato da importanti agenzie educative, culturali ed economico-finanziarie, di quella mediazione sempre più tollerante e accomodante tra i contrapposti interessi della società civile. Sembra essersi quasi definitivamente compiuto, nell’epoca di una modernità e postmodernità sempre più “liquide”, frammentate e dispersive, il passaggio da un diritto ancora concepito alla luce di un sapere religioso e teologico, di una forte presenza del sacro e di un modello di libertà ancorato a suggestioni spirituali di ordine sovrannaturale, a un diritto ormai elaborato quasi esclusivamente sulla base di determinate forme di consenso sociale e del gioco sempre mobile e imprevedibile delle particolari contingenze storico-politiche e culturali.

Si può ragionevolmente affermare che, di fatto, l’odierno diritto appare tendenzialmente desacralizzato e decristianizzato, quindi fondato sull’uso di una razionalità linguisticamente e logicamente sganciata da condizionamenti o evocazioni di ordine metafisico, ontologico e trascendente, o anche ideologico, e unicamente fondata su una ricostruzione interpretativa avalutativa e libera da presunti valori di qualunque genere, dove a contare è solo la coerenza interna dei relativi atti allegati dalle parti in causa, nonché la pertinenza e la pregnanza formali delle norme richiamate a sostegno di tali atti. L’argomentazione, che è pur sempre fonte formale di diritto oggettivo, verrebbe così transitando rapidamente, secondo molte voci autorevoli della giurisprudenza internazionale, da un uso giuridico di tipo prevalentemente retorico ad un uso giuridico di tipo prevalentemente logico o tecnico, per cui il diritto verrebbe assolvendo una funzione di prescrizione normativa non valutativa ma puramente descrittiva e di accertamento meramente formale della verità giudiziaria, lasciando fuori da ogni possibilità di giudizio e di acquisizione giuridico-processuale la verità storica effettiva, la verità sostanziale dei fatti giudicati o da giudicare.

Ma quale affidabilità, quale attendibilità possono essere riconosciute ad un diritto che non sia per sua natura capace di andare alle cose stesse e si limiti prevalentemente alle apparenze, agli aspetti non tanto fenomenici quanto meramente esteriori delle cose, un diritto costantemente a rischio di giudicare vero, lecito, giusto, ciò che in realtà è falso, illecito, ingiusto, o viceversa, solo perché il giudice sia tenuto ad emettere una sentenza solo sulla base delle carte, dei documenti, delle prove presentati e degli articoli di legge citati, e non anche sulla base delle sue conoscenze giuridiche personali, della sua scienza e del suo personale senso di responsabilità? Certo, non ci sarà mai una sentenza che possa sottrarsi completamente ad un sia pur minimo margine di discrezionalità, ma occorre distinguere tra una discrezionalità fisiologica e una discrezionalità arbitraria, dove la prima è appunto un aspetto inevitabile che resta comune a qualsivoglia forma umana di ricerca del vero, mentre la seconda tende a caratterizzare numerose e pilatesche lavate giurisprudenziali di mani in atti giuridici e giudiziari alquanto fumosi e per niente incontrovertibili oppure costellati da evidenti ambiguità e opacità logico-argomentative. Ci si chiede se, in tal senso, il diritto potrà ancora essere per molto tempo percepito a presidio della verità e della giustizia.

  1. Jus civile contro jus naturale di origine cristiana 

Com’è possibile che, almeno cinque o sei volte su dieci, dal punto di vista del senso-legge comune (common law) si entri da vincitori in un processo e tuttavia, ove quest’ultimo sia regolato dal diritto civile (civil law, jus civile) o codificato, ovvero da ordinamenti giuridici oggi prevalenti nel mondo, da esso si esca da sconfitti? La legge consuetudinaria avrà certo i suoi limiti e i suoi difetti, e sarà forse, talvolta, meno rigorosa dei sistemi giuridici di origine romanica, ma questo non sembrerebbe costituire un buon motivo per non integrarla nei sistemi giuridici continentali e in particolare nel nostro sistema giuridico, soprattutto per quanto riguarda la maggiore semplicità, essenzialità, agilità e univocità della sua giurisprudenza e per la rapidità e la chiarezza delle sue sentenze, laddove è risaputo che la giustizia italiana, con le sue modalità e i suoi tempi, è tra i peggiori sistemi di giustizia del mondo.

Ma se i sistemi giuridici possono essere e sono diversi, se, nonostante le loro differenze ordinamentali e procedurali, è sempre auspicabile un lavoro internazionale e nazionale volto a favorirne una reciproca e proficua integrazione e contaminazione, l’oggettivo dato di fatto che li accomuna, li unifica, li colloca all’interno di una stessa prospettiva culturale, al di là di ogni reale e possibile differenza, è che in essi tutti indistintamente risultano come decapitati Dio, le sue leggi, le sue verità, il suo Logos, come se proprio il Logos biblico, e più segnatamente cristiano-evangelico, non avesse condizionato proficuamente l’intero sviluppo della civiltà occidentale e non di rado planetaria e non fosse più da ritenere idoneo ad esprimere quanto meno una delle grandi anime della cultura e della razionalità contemporanee.   

Il punto dolente, da un punto di vista cristiano e cattolico, è proprio questo: che, ritenendosi ormai la dimensione religiosa una dimensione non più oggettiva e universale e tanto meno eterna ma soggettiva e privata della vita civile (al pari della legge divina cui non si riconosce più, come in passato, di essere norma suprema della vita umana), essa finisca per risultare del tutto espunta ed espulsa dal concetto stesso di jus, per cui, là dove storicamente il jus civile era sorto a servizio e a sostegno del jus naturale o legge di natura, accade ora che esso si sostituisca completamente a quest’ultimo disconoscendone la superiore e prioritaria valenza normativa. Ne consegue che, in tal modo, il diritto possa giungere facilmente a pretendere di assolvere più o meno efficacemente la sua funzione di equità giuridica e giudiziaria in ragione della sua maggiore o minore capacità di laicizzarsi rispetto ai grandi apporti scaturiti anche in campo giuridico dalla storia cristiana — come per esempio la sacralità della vita umana, la centralità e il valore assoluto della persona e della sua irriducibile dignità, i valori ugualitari nel rapporto tra uomo e donna, nelle relazioni sociali ed economiche, nel rapporto tra etnie e religioni diverse —, e di laicizzarsi sino al punto di legittimare, per esempio, anomale forme di convivenza che vengono prendendo gradualmente il posto del matrimonio e della famiglia di più antica e solida memoria, o di regolamentare in modi non sempre saggi, equanimi e lungimiranti la relazione sempre più conflittuale tra universo maschile e universo femminile e la stessa relazione tra generazioni diverse, mostrandosi altresì indulgente verso molteplici forme di malcostume sociale e sessuale e, per contro, oltremodo severo nei confronti di modelli educativi e cristiani di pensiero e comportamento che meriterebbero ben altro rispetto e ben altra considerazione. 

Si dirà che, in fondo, nell’epoca relativistica per eccellenza, non si possono certo fare sconti giuridici alla fede cristiano-cattolica, perché in democrazia “una fede vale l’altra” e non si possono fare quindi discriminazioni di nessun genere, ivi comprese quelle religiose. Ma, in effetti, non è così, perché il giusnaturalismo o diritto naturale, che nasce con il cristianesimo fino a costituirne poi una questione peculiare, è il versante etico-giuridico di pensiero in rapporto al quale, talvolta in termini di consenso, talvolta in termini di dissenso, ma costantemente nella storia della civiltà occidentale, viene definendosi lo stesso diritto positivo o diritto civile, per cui se quest’ultimo rimanesse privo di un così rilevante modello o termine assoluto di confronto, non potrebbe che compromettere o indebolire il suo stesso processo evolutivo e la qualità intrinseca delle sue leggi. Per il cristianesimo, il diritto universale ha le sue origini in Dio e coincide con la stessa legge divina e non, come aveva sostenuto il pensiero greco, in e con un ordine posto dalla natura o dalla ragione umana.  

Peraltro, la legge divina nell’ottica cristiana si poneva non già in contrasto con la volontà del sovrano, di Cesare e, in ultima analisi, dello Stato, che era libero di elaborare le sue norme per la sicurezza dei sudditi e il bene comune e che riceveva una precisa legittimazione evangelica (“a Cesare quel che è di Cesare”), quanto e più in generale con la volontà umana, suscettibile di trasferirsi anche sul piano politico-legislativo con la  pretesa di legiferare al posto di Dio o ignorando le leggi di Dio. Questo, in sostanza, significava che sia la società umana, sia lo stesso Stato, pur avendo piena facoltà di creare o produrre determinate leggi per far fronte alle esigenze e alle problematiche generali e particolari del popolo, tanto più sarebbero stati capaci di perseguire scopi umani, sociali e politici di giustizia quanto più si fossero conformati alle leggi divine, allontanandosi dalle quali invece non avrebbero potuto evitare di percorrere vie di iniquità. Per sant’Agostino, per il quale ogni potere deriva da Dio (nulla potestas nisi Deo, aveva scritto precedentemente san Paolo), perfettamente giusto è solo il sovrano, lo Stato, il diritto che rispetta integralmente la volontà di Dio. Il giudice, in senso stretto, sarà giusto se nell’emettere sentenze e nel comminare pene, non si discosterà mai dalla verità e dalla legge divine.

In questo senso, il giudice cristiano, poiché era tenuto ad anteporre la legge divina a qualunque legge umana ad essa alternativa o da essa divergente, finiva per sottrarsi all’idea, ancora oggi molto cara alla giurisprudenza del nostro tempo, della avalutatività della legge, sebbene questo concetto, per quanto suggestivo, sia più problematico di quanto forse non si pensi e possa valere al più come un’idea-limite, come un ideale regolativo del sapere e della prassi giuridici. Più analitico sarebbe stato l’esame tomistico del rapporto tra legge o diritto universale e legge o diritto umano e particolare, con la precisazione che quegli enti o concetti universali su cui si regge l’ordine del mondo e che agostinianamente venivano posti nella mente di Dio come volontà (giusvolontarismo), per cui si viene delineando una differenza sostanziale tra un Diritto naturale universale e un Diritto naturale particolare, differenza colmabile solo attraverso un atto di volontà (di adesione del particolare all’universale e quindi alla volontà divina), donde il giusvolontarismo cristiano, in realtà esprimono principalmente l’ordine stesso della mente divina come ragione e non semplicemente come volontà, dove Tommaso cerca in sostanza di inglobare la volontà nella ragione stessa di Dio per poter giustificare l’idea che la legge naturale, in quanto tale, lungi dal configurarsi solo come prodotto di uno sforzo morale di sottoporsi alla volontà di Dio, sia invece espressione di razionalità e della stessa razionalità divina coincidente con l’unica forma di razionalità possibile, da cui discende che il diritto o la legge naturale, positiva o creata dal sovrano o dal legislatore, debba coincidere, a prescindere dall’obbedienza alla volontà divina, con un diritto o legge razionale che non possono non essere diritto o legge divina di razionalità (giusrazionalismo). 

Bisogna dire che se la teoresi di filosofi cristiani come Agostino e Tommaso, al netto delle differenze fra essi intercorrenti, non sembra brillare sempre per chiarezza, linearità, ineccepibilità, finendo altresì per autorizzare, almeno in apparenza, anche interpretazioni diverse e parzialmente contrastanti nell’ambito stesso degli studi cristiani e cattolici, essa costituisce tuttavia il fondamento imprescindibile di qualsivoglia forma di diritto naturale o giusnaturalismo sia venuta sviluppandosi nella storia successiva del sapere filosofico e giuridico soprattutto nel punto in cui sia la teoresi agostiniana, sia quella tomista, sia poi quella cristiana in genere appaiono maggiormente e strettamente accomunate: quello per cui si riconosce che la fonte primaria e ineludibile del diritto naturale è di natura metafisica, trascendente, sovrannaturale e infine divina, non potendo sussistere alcuna forma di verità e di giustizia o diritto universali se non in stretta connessione alla conoscenza e all’applicazione delle perfette regole o norme create da Dio alle cose e agli eventi della realtà storico-umana e allo stesso mondo fenomenico del diritto.

Da un punto di vista cristiano, ancor oggi è inconcepibile che il diritto civile o positivo non sia ricettivo della divinità, del senso delle sue leggi, dello spirito divino della verità: di fatto, ciò comporta che tutte le volte che disconosca i contenuti e i significati della legge divina, esso non possa, per ciò stesso, assolvere una funzione di equità ma una funzione tanto più iniqua quanto maggiore sia il grado di allontanamento del giudizio e delle norme civili dal giudizio e dalle regole stabilite ab aeterno e ad aeternum da Dio onnipotente e onnisciente. Non bisogna peraltro pensare, come si potrebbe essere indotti a credere, che l’uomo di fede, il giudice credente siano necessariamente più capaci di sintonizzarsi con la legge razionale e universale di Dio rispetto all’uomo o al giudice non credenti, perché alla razionalità e alla perfetta equità delle leggi divine si può avere accesso, per grazia o per consenso divini, anche se ad un innato o radicato amor cognoscendi non corrisponda un altrettanto intenso ed evangelico amor Dei: il pensare e l’agire secondo princìpi di verità e giustizia assolute o divine su questioni anche fondamentali non implica necessariamente il vivere secondo l’integrale messaggio salvifico di Dio, e tuttavia era importante chiarire che il legislatore o il giudice più agnostico o ateo, non incline a credere né nell’esistenza di un al di là né in un destino ultraterreno, possa tuttavia convenire, meglio del più fedele e pio dei credenti, che le parole di Dio, attraverso il suo Cristo, siano le più significative e preziose parole di verità e di vita tra quelle già pronunciate o che potrebbero essere pronunciate nel corso e in funzione della storia degli uomini.

  1. Tra razionalità giuridica e razionalità biblico-religiosa, tra “cultura” e “natura”

E’ impopolare sostenerlo, ma il diritto di natura non è il diritto secondo l’uomo, secondo le sue consuetudini, secondo la sua ragione e la sua razionalità, secondo le sue leggi completamente scisse dall’ordine razionale e morale del Creatore e Salvatore dell’umanità e con esso incomunicanti; non è un diritto puramente immanente ma aperto alla trascendenza, né si nutre di tecniche giuridiche chiuse ai fecondi suggerimenti sapienziali contenuti nelle Sacre Scritture, di quella pura e specialistica tecnicalità argomentativa che, strappata gradualmente dalle radici spirituali di un’umanità cui dovrebbe offrire i suoi servizi, appare destinata, suo malgrado e malgrado la sua decantata vocazione avalutativa, a produrre valutazioni, giudizi, atti o decreti giuridici sempre più incerti, ondivaghi e ambigui, certo sempre meno funzionali alla certezza del diritto in un rigoroso e solido spirito di giustizia. Se il principio primario del diritto naturale può riassumersi nella formula indubbiamente virtuosa: fai e persegui il bene, evita il male, non si vede come il diritto positivo possa sottrarsi al rischio di non fare altrettanto nel momento in cui, al di là del corrente relativismo giuridico e culturale da cui pure è oggettivamente condizionato, non affronti radicalmente il problema di come possa perseguirsi legalmente il bene ed evitarsi il male senza un serio e serrato confronto con le versioni o le interpretazioni più longeve e universali di giusnaturalismo.

A riproporsi problematicamente nell’epoca attuale, come già accaduto in tutte le altre epoche storiche, è l’antica e mai risolta querelle se il diritto debba considerarsi e valere secondo natura o piuttosto secondo convenzione, benché sia evidente che una risposta univoca e definitiva sul piano teorico non sia possibile, dal momento che storicamente si danno sia temi permanenti o strutturali, come la vita, la libertà, la proprietà, l’eguaglianza, cui corrispondono diritti ritenuti inalienabili per via intuitiva o apodittica, sia temi artificiali, consuetudinari o convenzionali, tra i quali rientra tutto ciò che viene creato, prodotto, trasformato o manipolato dall’intelligenza e dalla cultura dell’uomo, per cui appare del tutto ragionevole sostenere che costitutiva del diritto sia una duplice dimensione: quella naturale, che si riferisce a tutto ciò che sia preesistente all’uomo e indipendente da esso come dalla sua complessiva attività culturale, e quella convenzionale di codici e leggi scritte ed emanate dal legislatore  o positiva, che si riferisce ai diversi universi culturali creati dall’uomo nel corso della sua storia. E, in effetti, il diritto naturale e il diritto positivo continuano ad essere, nei più seri e qualificati ambiti degli studi giuridici, i due corni dialetticamente interdipendenti e ineliminabili del dibattito contemporaneo sulla vera identità della scienza e della prassi giuridiche.

Solo che, alla lunga, nel quadro della convulsa e contraddittoria processualità storica, sarebbe emersa in modo particolarmente insistente una domanda: è possibile ritenere che sia sempre agevole distinguere tra ciò che appartiene alla natura ed è perciò immodificabile e ciò che invece appartiene alla cultura (conoscenze, arti, tecniche, quindi convenzioni umane) ed è quindi modificabile secondo le necessità e i costumi di determinati contesti storici? Senonchè, non di rado nel dibattito culturale contemporaneo, questa distinzione o dicotomia tra natura e cultura è stata seriamente contestata, nel senso che essa in realtà sarebbe molto più presunta che reale e che entrambi i termini sarebbero solo “costrutti culturali” oppure “oggetti teorici”, e come tali anche “variabili e revocabili”, per usare le espressioni di Claude Lévi-Strauss. A ciò che è “naturale” e al significato di ciò che sarebbe “culturale”, noi possiamo giungere pur sempre attraverso mediazioni e costrutti mentali che veniamo attingendo nei modi più variegati in determinate tradizioni o contesti linguistici, culturali, scientifici, che vivono attorno o vicino a noi, in mezzo o insieme a noi, e che plasmano le nostre idee, orientano i nostri giudizi per via appunto teorica e culturale, per cui possiamo parlare di “natura” in tanti modi diversi o persino contrapposti in conseguenza delle diverse ed eterogenee modalità culturali di formazione delle nostre categorie, idee, metodologie, dei nostri filtri interpretativi e valutativi. Esiste, per esempio, un’antropologia “fisica” e “biologica” e, in contrapposizione ad essa o a sua integrazione, un’antropologia “sociale” e “culturale”.

Anche la natura, quindi, sarebbe frutto di una semplice “invenzione” culturale. Tuttavia, a scorrere tanti manuali di storia del pensiero e della cultura, il termine “natura” non solo ricorre in una ferrea distinzione dal termine “cultura” o “spirito”, ma risulta anche largamente privilegiato rispetto a quest’ultimo, in quanto esso tradizionalmente evocava un mondo di ordine e di stabilità di contro al mondo mutevole, incerto, instabile, evocato dal sociale, dal culturale o dallo spirituale. Certo, dopo la moderna rivoluzione scientifica di origine galileiana, anche le scienze umane e sociali sarebbero venute sviluppandosi in senso “scientifico”, per cui anche i fenomeni storico-sociali sarebbero diventati oggetto di indagini sempre più accurate e precise. Tuttavia, è innegabile che ancora oggi, nella stessa percezione della comunità scientifica, le leggi della natura fisica, astronomica, biologica dell’universo e della vita umana, appaiono di gran lunga più esatte, verificabili, oggettive e riproducibili di quelle leggi storico-sociali ed economiche o giuridiche, caratterizzate da un ben più ampio margine di approssimazione, errore ed arbitrarietà.  

Questo non significa ancora che i paradigmi delle scienze naturali garantiscano un perfetto rispecchiamento o riproduzione della natura e delle sue leggi, ma significa senza alcun dubbio che, quando si indaga su qualcosa che, come il cosmo o l’organismo degli esseri viventi è comunque ontologicamente altro, eterogeneo, indipendente in senso non relativo ma assoluto dai processi logico-concettuali e ideativi dell’intelletto umano, i risultati appaiono molto più sicuri, stabili, invariabili di quelli che, ad oggi, possono essere conseguiti nel campo, teoricamente più esposto a complesse e spesso imprevedibili irregolarità e anomalie legate all’agire e alle pratiche volitivo-comportamentali, delle scienze umane, sociali, economiche e giuridiche, per cui sarebbe scarsamente plausibile la posizione di chi, un po’ artatamente, si ostinasse ad escludere l’esistenza di una natura altra dalla cultura, anche se a questa collegata e da questa in una certa misura decifrabile, e il maggior grado di universalità delle leggi scritte nella natura stessa rispetto a quelle, pure utili e significative ma non ugualmente oggettive, elaborate da uomini e circoscritte alle pratiche del loro mondo.

Ovviamente il discorso su cultura e natura è molto più ampio di quel che può essere fatto in queste pagine, ma ai fini del tema qui affrontato, emerge un concetto abbastanza chiaro: è vero che anche la natura non può essere definita se non per via teorico-culturale, ma è altrettanto vero che l’approccio teorico-culturale è pur sempre condizionato da una datità oggettiva appartenente in modo esclusivo all’oggetto indagato,  e quindi gnoseologicamente eteronoma rispetto ai filtri analitico-interpretativi della soggettività indagante. Questo, come detto, vale soprattutto in rapporto alla natura in senso fisico-naturale, ma resta tuttavia ben significativo e suscettibile di imprevedibili sviluppi etico-conoscitivi anche in relazione alla natura del mondo sociale, economico, giuridico.

Applicato in modo specifico al diritto, il ragionamento proposto comporta che esso, nelle diverse fasi della sua storia, sia sempre contemporaneamente un “costrutto culturale” e non culturale, quindi naturale, che ha già in se stesso, nella sua materia non ancora culturalmente significata e tuttavia sottoposta a leggi sue originarie, costitutive e immutabili. Tali leggi sono mutevoli solo nelle forme logico-categoriali in cui, volta a volta, vengono rappresentate o tradotte dal processo di ricerca e dalla elaborazione critico-culturale di cui sono oggetto, ma esse hanno una struttura logico-ontologica già compiuta e perfetta che non dipende dal fatto di essere individuate e colte dal soggetto conoscente più o meno esattamente, anche in base alla strumentazione tecnico-metodologica di cui quest’ultimo dispone.

La cultura produce certo il diritto, e in questo senso esso potrà risultare convenzionale o positivo oppure più prossimo ad un’impostazione essenzialistica e quindi fondato su presupposti che rinviano a idee o princìpi primari, originari e costitutivi di tutto ciò che possa entrare a far parte del complesso, articolato e mutevole universo storico-fenomenologico della giustizia; ma, in ogni caso, il diritto, necessariamente intrecciato all’etica di cui condivide il concetto di valore benché i giudizi giuridici di valore non possano mai essere di valore assoluto come può accadere invece per i giudizi morali di valore (quando cioè sono espressi alla luce di una morale assoluta), il diritto non già nella sua fattualità storica bensì nella sua coessenziale dimensione ideale o strutturale, porta già in se stesso le sue regole, le sue norme, le sue prescrizioni, le sue sanzioni, suscettibili di diventare poi “oggetti teorici” dotati di specifiche determinazioni culturali, ma seminalmente esistenti, vale a dire esistenti in una loro intangibile naturalità e in quanto tali predisposti ad essere criticamente intercettate e chiarite, ma non “costruite” o “inventate” unilateralmente, dalla mente culturalizzata dell’uomo.

Dopodichè, si tratta anche di stabilire quali siano le caratteristiche di questa verginale e universale naturalità del diritto; di stabilire, in particolare, se esse siano da riferire ad un puro ordine logico-razionale di memoria platonica o ad un ordine divino e trascendente di matrice cristiana. Si è già mostrato nella parte iniziale di questo scritto come una razionalità immanente o metafisica ma non radicata in una realtà divina e più segnatamente cristiana non può in alcun caso sottrarsi alla morsa del soggettivismo e del relativismo etico-gnoseologici. Si potrà parlare certo di una razionalità universale nei limiti di una concezione relativistica (la scienza ha a che fare in modo emblematico con questo tipo di razionalità e, per sua stessa natura, non potrebbe caratterizzarsi per un diverso genere di razionalità), ma non è affatto detto che da una concezione non relativistica come quella religiosa e biblico-cristiana non si possano invece acquisire garanzie più solide e più certe per quel mondo del diritto che, godendo di una sua specifica razionalità, si pone quale mediazione tra sfera scientifica e sfera morale, anche se l’obiettivo del diritto, come suggerisce giustamente la critica giusnaturalista, non è tanto la verità scientifica quanto la verità morale e quindi la giustizia, la quale ultima, pur potendosi e anzi dovendosi giovare di tecniche e procedure scientifiche di prova, non può ridursi a queste ultime, sebbene il rischio sia che, talvolta, una sentenza, proprio nel discostarsi troppo discrezionalmente dai riscontri scientifici di prova, possa produrre effetti perversi o iniqui.

Comunque, in linea di principio è comprensibile che la decisione giuridica non possa dipendere unicamente o meccanicamente dalla sua conformità a elementi scientifici di prova: non solo perché certi strumenti scientifici di acquisizione delle prove, e le modalità stesse con cui quest’ultime sono acquisite, non sono ritenute legittime da princìpi giuridici generali, ma anche perché sono molteplici i casi ipotetici in cui una decisione giuridica potrebbe a giusta ragione divergere da determinate asserzioni o risultanze scientifiche. Solo per esemplificare, come è stato osservato, «una volta accertato che il fumo è nocivo per la salute, rimane la distinta questione normativa se sia legittimo il divieto assoluto di fumare. Si tratta di un divieto compatibile, ad esempio, con la libertà personale? O con la libertà d’impresa?» (L. Corso, Il diritto come mediazione fra saperi distinti. Perché il diritto non ha fatto un passo indietro di fronte alla scienza, in Rivista telematica “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, n. 36, 2018, p. 4). E’ altresì sensato rilevare che «l’idea che il diritto costituisca un ponte fra saperi diversi fa sì che nel ragionamento giuridico trovino riconoscimento posizioni comunemente scartate nel modo di procedere scientifico tradizionale. Il diritto, ad esempio, tutela il consumatore ignorante; l’amministratore locale che improvvidamente si è avventurato nella finanza ardita; presuppone una certa opacità nei rapporti umani che impone di scartare alcune proposte che vengono dai neuroscienziati perché troppo distanti dal senso comune; e riconosce come legittime posizioni da cui la scienza di norma diffida, come il desiderio di illusioni e la speranza» (ivi, p. 9).

Quest’ultimo riferimento alla legittimazione giuridica persino di aspettative illusorie e di speranze non necessariamente fondate, è di grande attualità perché, anche a prescindere dall’art. 32 della Costituzione italiana che meriterebbe una lettura più attenta e integrale di quanto generalmente non avvenga, risulta applicabile anche alla controversia odierna tra i cosiddetti si vax e no vax e sembrerebbe, più esattamente, scoraggiare sotto il profilo squisitamente giuridico i molti e sin troppo impazienti sostenitori del cosiddetto “obbligo vaccinale”.

Ma, ritornando al tema specifico di un diritto da intendere in pari tempo sia come costruzione teorica e culturale, sia come specifico processo discorsivo di autotrascendimento razionale finalizzato alla individuazione dei significati e delle idealità più compiuti o integrali, ultimi o irriducibili, di un’istanza o di un intero sistema di giustizia all’interno di un determinato contesto storico-sociale-culturale di riferimento, quali potrebbero essere gli strumenti e le modalità, le stesse coordinate spirituali e valoriali più efficaci da adottare ai fini di una strategia giuridica qualificata ed emancipata non solo sotto il profilo linguistico e tecnico-procedurale ma anche e soprattutto in relazione a quella sua motivazione primaria e sostanziale che è l’accertamento del vero e del giusto? Come fare affinchè possa ridursi lo scarto in tante occasioni ancora considerevole tra la certezza formale e la certezza sostanziale del diritto?

  1. Per una moralizzazione del diritto

Francamente, se si rimane nell’ambito del dibattito fra scuole o orientamenti giuridici diversi (positivismo, teorie dell’argomentazione, giusrealismo, teorie postpositivistiche), non se ne esce, non solo perché non di rado al centro delle relative controversie vengono poste questioni linguistiche, lessicali e terminologiche non dotate di un adeguato grado di univocità, chiarezza e coerenza formale, ma anche e soprattutto perché, pur provenendo dai diversi schieramenti dottrinari proposte, spunti, suggerimenti certamente utili e significativi, il momento risolutivo del confronto tra giuristi e studiosi del diritto di diversa estrazione non può essere quello meramente tecnico-linguistico o tecnico-procedurale, di cui andrebbe tuttavia largamente ridimensionata quell’impostazione grevemente burocratica e involuta, inutilmente ridondante e prolissa, fastidiosamente ostica ed astrusa, che segna in lungo e in largo la stragrande maggioranza dei codici, dei trattati e dei manuali giuridici su cui è basata e si trova ad essere esercitata, in modi spesso affannosi e clamorosamente contraddittori, la giustizia contemporanea.

No, il momento decisivo non può riguardare la tecnicalità giuridica  e giudiziaria, perché il problema di fondo, entro cui anche quello relativo alla tecnicalità potrebbe essere avviato a migliori definizione e soluzione, è di natura spirituale. La principale domanda programmatica del giurista e del giudice non deve essere semplicemente: come e cosa bisogna fare per assicurare o garantire il trionfo della verità processuale, che potrebbe coincidere e innumerevoli volte coincide con il trionfo della falsità e iniquità fattuali; ma: quale deve essere l’atteggiamento spirituale, non solo mentale, morale o legale, di un giurista o di un giudice che siano chiamati, il primo, soprattutto a studiare ed elaborare, il secondo, soprattutto ad amministrare e applicare con diligenza, norme strettamente e fortemente finalizzate a far emergere, anche al di là, ma non indipendentemente, della documentazione esibita dalle parti in causa e dello stesso canonico rituale giudiziario, tutta una serie di fattori soggettivi e oggettivi non esplicati sul piano formale ma utili o decisivi alla scoperta della verità storica, effettiva e sostanziale. Da questo punto di vista, non sarebbe né superfluo né controproducente se il giudice, spontaneamente e non solo su richiesta, si disponesse di buon grado ad intavolare sponte sua un rapporto dialogico-processuale non solo con i legali delle parti ma con le parti stesse.

Per alcuni studiosi e giuristi la cosiddetta “certezza del diritto” è una semplice chimera se intesa in senso assoluto: lo sarebbe anche se l’universo giuridico e giurisprudenziale complessivamente considerato, ivi compresa la stessa prassi giudiziaria, godesse di una condizione ottimale di salute, di rendimento, di efficienza, perché, come dire, le variabili che possono sfuggire sia alla scienza giuridica, sia alle dinamiche inquisitive e giudiziarie, perfettibili come tutto ciò che è umano ma in nessun caso prive di limiti anche significativi, esisterebbero in una quantità certo più tollerabile ma ancora cospicua e quindi pur sempre tale da incidere ingiustamente sulle legittime aspirazioni di giustizia di una parte consistente di cittadini. Probabilmente, qualcosa si potrebbe e dovrebbe fare per rendere il diritto almeno un po’ più certo di quanto non sia nell’attuale fase storica: per esempio, trovare un modo per limitare, se non eliminare, certe clamorose difformità interpretative, la lunghezza eccessiva dei procedimenti giudiziari, l’ipertrofia legislativa che aggiunge rapidamente leggi a leggi producendo confusione e disorientamento, il modo spesso superficiale e arbitrario di leggere e interpretare princìpi e valori costituzionali, i quali, a differenza delle leggi ordinarie, sono espressione e garanzia di giustizia sostanziale.

E’ sorprendente, peraltro, che non di rado si attribuisca alla “rigidità” costituzionale la responsabilità di privare, in linea di principio, ogni norma ordinaria della sicurezza, della certezza della sua validità: sorprendente, per la semplice ragione che in molti casi la giustizia, sia dal basso (classe forense e forze dell’ordine) che dall’alto (poteri degli enti locali, prefetture, questure ecc., nonché quelli esercitati nei tribunali di ogni ordine e grado), viene esercitata, spesso anche a causa di un vorticoso conflitto tra interessi contrapposti o di accentuati condizionamenti di natura psicologica e politica, in modo non tanto onestamente discrezionale quanto in modo obiettivamente infedele o non del tutto fedele allo spirito e alla lettera della Costituzione, anche quando a dirimere casi interpretativi particolarmente complessi delle norme costituzionali, in linea di massima chiarissime, sia chiamata la stessa Corte Costituzionale, peraltro non di rado, e sia pure indirettamente, messa in discussione da quella Corte di Cassazione alla quale ormai solo gli ingenui sarebbero disposti a riconoscere un adamantino spirito di obiettività.

In altri termini, si pone ormai, in modo sempre più drammatico, un problema di preparazione non solo tecnico-giuridica ma anche etico-culturale, anzi di formazione valoriale e spirituale degli agenti del diritto, ai diversi livelli gerarchici della dottrina giuridica e del sistema giurisprudenziale, ivi compresi molti avvocati, sordi a qualunque richiamo deontologico e troppo spesso inclini a concepire la legge come una clava da brandire a destra e a manca sia pure con gli accorgimenti formali richiesti dalle situazioni in cui e per cui si sia chiamati ad intervenire. Talvolta, il timore, la viltà, si impadroniscono persino di eminenti giuristi che non osano sfidare taluni paradigmi del “politicamente corretto”. Si pensi, per esempio, al fatto che molti di essi non hanno l’ardire di proferire una parola di critica dinanzi a uno stuolo ormai ingentissimo di presunti europeisti secondo cui la nostra Costituzione sarebbe subordinata alla Costituzione europea: ma c’è forse scritto nella Costituzione italiana? Come potrebbe una Costituzione fondata sui princìpi del libero mercato, della concorrenza e della competitività economico-finanziarie, risultare compatibile con quei  princìpi e valori solidaristici, personalistici, egualitari che sono alla base della nostra costituzione repubblicana?

Si sente dire spesso che il nostro testo costituzionale preveda delle “cessioni di sovranità”, ma non è vero perché l’art. 11 recita che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo»: si parla di “limitazioni”, peraltro a determinate condizioni (la parità con gli altri Stati, lo scopo di lavorare alla pace e alla giustizia fra popoli e nazioni), non di “cessioni”, che è termine giuridico completamente diverso dal primo. Peraltro, di recente anche la Corte costituzionale ha stabilito che la Costituzione italiana non potrebbe mai essere subordinata a trattati o costituzioni internazionali (nr. 1146/88, 284/2007, 238/2014, 275/2016).

La verità è che, anche in campo giuridico, l’ideologia tende sempre più a prevalere sulla dottrina, la passione o piuttosto la faziosità politica tende sempre più a soverchiare il sereno e oggettivo giudizio giuridico, la corruzione (in senso ampio) e la falsa prudenza tendono a ridurre sempre più lo spazio dell’ostinato rigore intellettuale e morale. La verità è dunque, va ribadito con forza, che il problema è ormai di natura eminentemente morale, deontologico, spirituale.

Non è questione di soggettività interpretativa, di libera interpretazione nel procedimento giuridico, di pluralismo giuridico, che renderebbero necessariamente problematica o aleatoria l’attuazione pratica della certezza del diritto. Questi sono limiti costitutivi ed ineliminabili del diritto contemporaneo: è inutile girarci intorno ed è anche del tutto naturale che chiunque sia chiamato ad interpretare un contenzioso giuridico non potrà evitare di essere influenzato, in qualche modo, dalle proprie inclinazioni morali, ideologiche, giuridiche o d’altro genere. Si potrebbe e dovrebbe certo lavorare, sulla base di precise e vincolanti disposizioni politico-legislative, ad una riforma semplificatoria e riordinatrice del sistema giuridico, a cominciare dai suoi codici, perché, da che mondo è mondo, il principio di economicità è un principio-guida insostituibile e inalterabile in ogni campo del sapere moderno e contemporaneo, un principio in virtù del quale non si ottenga una artificiosa e depauperante riduzione della complessità propria della materia giuridica e giudiziaria, ma si possa al contrario disporre di relativamente pochi, essenziali, semplici e chiari ma univoci e costantemente orientativi princìpi normativi, da cui non sia mai consentito di prescindere o derogare nel corso di un procedimento e in rapporto a cui la stessa discrezionalità interpretativa, la cui valenza etica e spirituale resti comunque di fondamentale importanza nei diversi momenti di un dato procedimento, sia come subordinata e condizionata.

Tuttavia, non sarebbe ancora questo il punto decisivo di risoluzione del problema qui posto, perché manipolare i fatti nella ricostruzione processuale e interpretare tendenziosamente persino articoli di legge dotati di chiarezza esplicita sarebbe sempre possibile, anche se un siffatto fenomeno, almeno oggi, accade quasi sempre in modalità e con motivazioni risibili e grottesche, non sempre rilevate e censurate come meriterebbero. Così come il punto decisivo non è costituito già ora, in verità, da quella che il filosofo del diritto Massimo Corsale ha definito come “indeterminazione strutturale della legge” quale effetto di un vero e proprio “marasma legislativo”. Il punto decisivo è invece quello per cui bisognerebbe trovare modalità non ordinarie ma straordinarie di vigilanza critico-normativa non postuma sull’attività pratico-giurisprudenziale di tutti gli agenti del diritto in tutte le sedi in cui quest’ultimo viene esercitato, fermo restando però il convincimento personale che un diritto non concepito e non esercitato alla luce del giusnaturalismo cristiano è non solo un diritto difettoso e inefficiente ma un diritto decisamente malato e forse moribondo.

Se la giustizia contemporanea affida dogmaticamente il suo futuro alla domanda scettica di Pilato: “che cos’è la verità”, potrà forse continuare ad essere qualificata come una giustizia liberale e democratica, come tra gli altri faceva anche il grande giurista austriaco Hans Kelsen, ma il suo destino sarà quello di una giustizia condannata, in modo inappellabile, ad essere non solo imperfetta quanto intollerabilmente iniqua. Ma, poiché potrebbe aver ragione anche lo scettico-democratico nel ritenere che invece quella domanda fosse solo la domanda di un “vigliacco opportunista”, l’alternativa possibile sarebbe quella tra una giustizia relativistica ed aprioristicamente chiusa ad ogni possibilità di certezza giuridica almeno ragionevole — da intendere naturalmente in nessun caso in senso assoluto ma semplicemente nel senso che le norme giuridiche siano dotate di esemplare e incontrovertibile chiarezza logico-linguistico-lessicale per consentire a chiunque di prevedere esattamente, e ben al riparo di irragionevoli colpi di scena processuali, le conseguenze giuridico-giudiziarie di una determinata condotta — e una giustizia talmente insensibile e irresponsabile da risultare immorale.

Francesco di Maria

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