I giovani, la crisi e la Chiesa

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Molti pensano che i giovani abbiano bisogno di crescita economica per trovare occupazione e realizzarsi cosí nel lavoro, nella famiglia e nella società. Senza sviluppo, senza progresso economico, senza capacità statuale di far crescere produttività e competitività sul piano internazionale, si dice, essi saranno condannati alla disoccupazione o ad uno stato di perenne precarietà per cui non potranno sfuggire ad una condizione esistenziale complessiva di instabilità e di incertezza. Fino a qualche tempo fa si poneva enfaticamente l’accento sulla assoluta necessità che il rapporto intergenerazionale fosse corretto e reso più equo attraverso una riforma delle pensioni che, togliendo qualcosa agli anziani, avrebbe un giorno consentito ai giovani di avere una pensione dignitosa. Adesso la riforma delle pensioni è stata fatta e, siccome il suo vero obiettivo non era il futuro dei giovani ma altro, adesso naturalmente, come sempre accade in questi casi, bisogna alzare la posta e si parla con la stessa enfasi di prima della crescita, dello sviluppo e via dicendo, quasi che, se per ipotesi, non ci fosse né l’una né l’altro per un prolungato periodo di tempo, la società non possa avere ugualmente bisogno di molteplici e qualificate attività lavorative e di altrettanti e capaci lavoratori anche se non previsti o previsti secondo ben determinate modalità dalla cosiddetta domanda di mercato che spesso non nasce spontaneamente in seno alla società stessa ma è imposta più che altro dalle multinazionali e da gruppi tecnocratici di dubbio spessore morale.

Si ha perciò più di una semplice sensazione, anche o proprio nei giovani più consapevoli e responsabili, che di crescita, di sviluppo, di produttività, di competitività si parli ormai sempre più a vampera, senza avere una precisa e rigorosa cognizione di quel che si va dicendo, senza sapere se le ricette economico-finanziarie proposte e adottate siano realmente giuste ed efficaci, o meglio ben sapendo che esse saranno vincenti ed efficaci per il conseguimento di fini inconfessabili, e continuando d’altra parte a sostenere che se non ci fosse un debito pubblico cosí alto, se non ci fosse stato negli anni passati un eccesso di spesa, se si fossero fatte prima le “riforme” che solo adesso si cominciano a fare (delle pensioni, del mercato del lavoro, della giustizia e via dicendo), se si fosse intrapresa per tempo la via delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, a quest’ora la situazione sarebbe completamente diversa, certamente più rosea e non sottoposta alle pesanti restrizioni attuali.

Pochi, nel mondo adulto, nel mondo della cultura e dei massmedia, e purtroppo anche nel mondo ecclesiale cattolico, sono quelli che hanno il buon senso di chiedersi se sia proprio vero che crescita e sviluppo, produttività e competitività, possano darsi in forma indefinita ed illimitata, solo che si individuino ciclicamente strategie e misure economico-finanziarie idonee a garantirne processi di continuo ed inarrestabile avanzamento, e se tale indefinita e illimitata processualità non sia per caso richiesta dalla strutturale anche se non ineluttabile esigenza storica delle più alte oligarchie di potere di riprodurre ed intensificare stabilmente i propri profitti e i propri privilegi sociali. Pochi si chiedono se la crescita richiesta dai massimi istituti tecnocratici del mondo sia realmente necessaria e a chi sia veramente necessaria, se le pretese modalità di tale crescita siano frutto di analisi e valutazioni obiettive o piuttosto di calcoli per niente disinteressati e “neutrali”, se questa tanto decantata crescita e i suoi strumenti saranno effettivamente in grado di assicurare e in che misura e per quanto tempo eventualmente quel diffuso benessere economico che le politiche del vecchio Stato sociale, come dicono i molti critici di quest’ultimo, non potevano garantire o conservare e non hanno infatti né garantito né conservato.

Le idee sono molto confuse e approssimative. Si parla continuamente di democrazia e di stato di diritto, ma poi passano provvedimenti su cui le masse popolari non hanno alcuna possibilità di esprimersi proprio mentre i diritti collettivi ed individuali vengono sistematicamente violati dalle politiche sempre più verticistiche e dirigiste di stati nazionali sempre più deboli e docilmente sottomessi alle ordinanze extragovernative di uno stato trasversale internazionale di banchieri, uomini d’affari, tecnocrati ed esperti di varia natura, che nessuno ha eletto e non potrebbe mai eleggere. Si parla di volontà popolare solo per quanto riguarda i momenti elettorali e per ottenere quel consenso con cui poi gli eletti o i nominati continueranno ad imbrogliare gli elettori, di necessario investimento su scienza cultura e tecnologia ma al tempo stesso ci si duole del fatto che i fondi dello Stato non siano sufficienti a consentire quegli investimenti che pure sarebbero necessari in questi settori raggiunti peraltro da processi solo apparenti o presunti di “modernizzazione”, di snellimento burocratico della pubblica amministrazione ma i normali cittadini si trovano sempre costretti a gestire una montagna di carte e ad effettuare mille e complicati adempimenti senza che il corrispettivo sia alla fine per loro la possibilità di usufruire di servizi davvero efficienti, di norme volte ad abbattere finalmente i molteplici ed onerosi “costi” dei consumatori i quali però generalmente incontrano crescenti difficoltà nel pagamento delle varie bollette, di austerità e sobrietà proprio mentre proprio coloro che se ne fanno araldi o banditori esibiscono pubblicamente redditi personali e proprietà immobiliari da capogiro (certamente convinti di fare opera di trasparenza ma altrettanto convinti che sia normale che, in un Paese in cui milioni di persone non hanno lavoro o stentano a sbarcare il lunario o versano in condizioni di estremo disagio, alcuni professionisti del sapere, dell’economia e della finanza, percepiscano guadagni cosí elevati).

Ci si dichiara realisti, pragmatici, efficientisti, ma in realtà si tende a perdere progressivamente il senso della realtà e del decoro e si scambia disinvoltamente per capacità pragmatica ed efficientistica quel che altro non è se non semplice arte del semplificare e del cambiare, o meglio del “razionalizzare”, all’unico scopo di poter meglio imbrogliare attraverso la programmazione e la creazione di strutture giuridico-operative destinate a ben funzionare sí e no solo per un determinato periodo di tempo: quello che serve a privati, managers, banchieri, funzionari di stato, politici, speculatori ed affini di incrementare lautamente i propri guadagni.

Né, d’altra parte, la realtà, piena di mistificazioni e di sottili ed astute manipolazioni, viene resa più accessibile e comprensibile dall’apporto delle forze culturali e massmediali che generalmente fanno da semplice cassa di risonanza a quel pensiero unico che, elaborato non solo per l’economia dai grandi centri internazionali di comando che ovviamente dispongono di numerosi proseliti e soci rappresentanti in tutte le nazioni del mondo, si tenta di imporre in modo sempre più massiccio a tutte le comunità nazionali. Tali forze spiegano forse in modo adeguato il funzionamento della finanza mondiale, i suoi regolamenti e le sue clausole, i suoi trucchi e i suoi inganni, e poi le unilateralità e le norme spesso arbitrarie degli stessi trattati politici di cui il complessivo mondo finanziario può vantaggiosamente avvalersi? Si potrebbe credere di sí, vista la enorme mole di servizi giornalistici offerti in televisione e sulla carta stampata, di libri e di saggi firmati da illustri accademici ed intellettuali, ma in realtà a passare nell’opinione pubblica sono principalmente i giudizi conformisti e spesso asserviti di esperti, economisti, uomini di affari, capi di stato, politici più o meno affermati.

E’ molto difficile, per esempio, che faccia breccia nella pubblica opinione, creando reale sconcerto ed energiche reazioni di massa, un articolo come quello di Laurent Cordonnier (Debito pubblico, la congiura delle buone idee, in “Le Monde Diplomatique” del 22 febbraio 2012), in cui, non ideologicamente ma sulla base di dati inoppugnabili, vengono prese di mira la BCE di Mario Draghi, che statutariamente non può acquistare i debiti sovrani e prestare direttamente denaro agli Stati per concorrere a riequilibrare i loro conti, e le banche private, alle quali invece la stessa BCE ha recentemente erogato 500 miliardi di euro all’1% per un loro rifinanziamento a lunga scadenza (3 anni) senza che esse abbiano ritenuto di mettere tali fondi a disposizione delle imprese o di acquistare una parte sia pure piccola dei debiti pubblici ma al contrario depositandoli di nuovo sul loro conto presso la BCE con l’evidente scopo di incrementarli con gli interessi.

Ed è un peccato, non certo dovuto al caso, che in questo momento storico processi particolarmente involutivi e pericolosi per tutta l’umanità stiano progredendo rapidamente a causa di un vuoto abissale di intelligenza e senso etico. Perché se, sia pure all’insegna dell’austerità e della sobrietà, si pensa di fare riforme solo per alleggerire o per svuotare il portafoglio dei comuni cittadini e non anche e innanzitutto, per mezzo di leggi giuste ed oculate, per impedire i sin troppo disinvolti guadagni di banche e banchieri, di mercati e mercanti, e di tutti coloro che in modi diversi ma ugualmente redditizi vi fanno capo o ne fanno parte integrante, il problema è proprio quello di sperare in un sussulto di intelligenza e di coscienza morale in contesti sociali in cui sembrano prevalere largamente fenomeni di pigrizia intellettuale e cecità culturale, di passività etica, di sudditanza politica. Bisogna aggiungere: il problema è anche o soprattutto quello di sperare e pregare che ci sia al più presto un vigoroso sussulto della fede.

Non basta che la Chiesa cattolica invochi il ritorno della società e in particolare dei giovani ai valori e a sani princípi di vita morale, non basta la sua condanna pur doverosa dell’individualismo sfrenato e dell’asservimento agli idoli del potere, della ricchezza e del successo a tutti i costi, né la sua costante e ferma riprovazione del relativismo e del nichilismo morali dilaganti. Il mondo, senza saperlo, è in attesa che la Chiesa pronunci parole più profonde e credibili, che essa si faccia testimone più scomodo e affidabile della parola di Cristo, che essa torni ad essere evangelicamente capace o più capace di illustrare correttamente alle folle il senso spirituale della primitiva comunione dei beni, alimentando le speranze dei poveri e riducendo quelle dei ricchi.

Di fronte alla crisi in atto, la Chiesa cattolica non può ridurre il suo magistero, il suo insegnamento, la sua testimonianza, la sua fede, ad un insieme declamatorio di pie esortazioni e di giudizi per cosí dire “equidistanti” che non producano sano ed effettivo turbamento in nessuno. Essa, senza derogare dalla sua ordinaria e complessiva catechesi, è chiamata oggi non solo a reclamare, come ha già fatto e continua a fare, nuove e più giuste regole per le attività e i processi finanziari, e maggiore equità economica e sociale, ma ad ammonire i potenti e i potentati della terra, tutti indistintamente e senza riguardo per nessuno, a non coltivare aspirazioni bassamente materialistiche o pensieri egoistici e perversi, e a non perseguire scopi illeciti ed iniqui, sia pure sotto la copertura di programmi apparentemente nobili e proficui, pena la inesorabile ed eterna punizione divina.

Se è vero, come dice qualche illustre esponente del mondo cattolico, che il mondo andrà dove andranno i giovani, la Chiesa ha il preciso dovere di aiutare i giovani a capire chiaramente, con la semplicità e la nettezza della parola evangelica, cosa e come fare, nel nome di Cristo, per spingere il mondo verso la giusta direzione.

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