I cristiani del Pakistan secondo il gruppo di preghiera “Devoti a Maria”

Chi sono i cristiani per l’islam?

Il versetto 29 della sura 9 del Corano contiene l’ordine per i musulmani di sottomettere ebrei e cristiani, il “Popolo del Libro”, i quali, una volta sottomessi, a condizione che rimangano tali, diventano dhimmi”, cioè “individui protetti”. Essere sottomessi in passato significava obbligare i cristiani a cedere il passo ai musulmani, vietargli di usare il cavallo (dovevano usare il mulo), imporgli il pagamento di tasse speciali. Oggi naturalmente il senso è cambiato; il suo contenuto dipende dalla sensibilità dell’interprete. Ad esempio, un musulmano integralista non direbbe mai “grazie” ad un cristiano, perché come “sottomesso” sarebbe un dovere di quest’ultimo essere al servizio dei musulmani. Un musulmano moderato è invece consapevole che la convivenza pacifica tra gli individui impone altre regole. Questo versetto consente comunque, ad un qualunque “fanatico” (ad esempio un capo villaggio o un politico locale), di trovare occasione per colpire cristiani o ebrei, e di essere poi assolto da un tribunale che riconosca la sharia come l’unica legge dello Stato. Nel corso della storia, i conquistatori musulmani riconoscevano normalmente la libertà di altri culti religiosi ai popoli dei territori conquistati, purché accettassero la loro posizione di sottomissione. Questo rendeva possibile la convivenza tra uomini di religione diversa. Allo stesso modo, non veniva imposta la propria cultura ai popoli sottomessi, ma all’opposto, erano i musulmani a fare tesoro della scienza, della filosofia, della medicina di questi ultimi. I testi più antichi della grande cultura ellenistica sono infatti arrivati a noi proprio perché salvati e tradotti dai conquistatori arabi. A partire dal secolo scorso, i cristiani che vivevano nelle società musulmane iniziarono però ad aspirare alle libertà godute nel mondo occidentale: libertà politica, di stampa, di pensiero e di culto. Aspiravano a essere “cittadini veri”, nel senso pieno della parola, e non a essere “tollerati”, anche se, talvolta, molto stimati dagli stessi musulmani. Questo ha creato una frattura, diversa da paese a paese, tra popolazione cristiana e quella musulmana; su questa situazione hanno poi avuto conseguenze a livello locale alcuni importanti fatti storici, come la costituzione dello Stato d’Israele, l’invasione russa dell’Afghanistan, l’attacco alle Torri Gemelle. Ma cerchiamo ora di capire cosa ci ha portato in particolare ad interessarci del Pakistan.

Un po’ di geografia del Pakistan…

Il Pakistan è un paese grande 2 volte e mezzo l’Italia, che ha una popolazione di 177 milioni di abitanti, e per questo è il sesto paese più popoloso nel mondo. Circa il 97% dei pakistani sono musulmani. Di questi quasi l’80% sono sunniti ed il 20% sciiti; gli induisti sono l’1,8%, i cristiani l’1,6% (2,5-3 milioni circa). E’ il secondo maggior paese musulmano nel mondo per popolazione, dopo l’Indonesia. Le città principali sono Karachi, con oltre 15 milioni di abitanti, Lahore con più di 7 milioni, Faisalabad con 3 milioni; la capitale è Islamabad. Quetta, una città su cui torneremo in seguito, ha poco meno di un milione di abitanti. Ha un’economia prevalente agricola, specie nelle zone più arretrate, ma l’industria sta crescendo rapidamente. Negli ultimi anni il settore trainante è quello del terziario avanzato, in particolare dell’information tecnology; molti software e servizi informatici delle maggiori “corporation” mondiali sono oggi forniti da aziende pakistane. Possiede diverse armi nucleari (si parla di una ventina di bombe atomiche) e ha il settimo esercito più numeroso del mondo.

Un po’ di storia…

Il nome Pakistan significa “terra dei puri”, ma è di fatto un nome inventato, così come inventato è lo stesso paese. Nel 1947, alla fine della colonizzazione inglese, il suo territorio fu infatti staccato dall’India (avente una popolazione a maggioranza Indù). Da allora il Pakistan è sempre stato in disputa con l’India per il Kashmir, rimasto a quest’ultima, malgrado la prevalenza musulmana della popolazione. Sul fronte dell’Afghanistan, il confine è sempre stato più una linea su una mappa geografica, piuttosto che una divisione reale ed effettiva, perché a cavallo di questi territori vive un unico gruppo etnico, quello dei “pashtun”. Dalla sua fondazione, la storia politica del Pakistan è un susseguirsi di periodi di dittatura militare e di governi parlamentari “democratici”, anche se il concetto di democrazia è “relativo”. Nel 1988 dopo un periodo di dittatura, con l’elezione di Benazir Bhutto, figlia di un ex presidente, e prima donna a guidare un paese a maggioranza musulmana, si formò un governo democraticamente eletto. Fino al 1998 si sono poi alternati al governo Benazir Bhutto e Nawaz Sharif, entrambi eletti due volte e poi deposti con l’accusa di corruzione, una pratica dilagante nello Stato, a tutti i livelli. Nel 1999 ci fu il colpo di stato militare del generale Musharraf, un musulmano moderato. Dopo l’attacco alle Torri gemelle del 2001, gli Stati Uniti strinsero un’alleanza con Musharraf, allo scopo di crearsi delle basi per attaccare il vicino Afghanistan. Nel dicembre 2007 la leader dell’opposizione Benazir Bhutto fu uccisa in un attentato. Nel 2008, a fronte dell’accusa di aver violato la costituzione, Musharraf, fu costretto a rinunciare alle sue cariche. Fu così eletto presidente Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, anche lui “filo-americano”. La popolazione non ha mai visto però di buon occhio l’amicizia con gli Stati Uniti. Per ironia della sorte, i fondamentalisti islamici si sono rafforzati, all’interno del paese, proprio dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, a causa di quest’alleanza malvista dalla popolazione e questo ancora di più con l’uccisione in Pakistan nel 2011, da parte delle truppe americane, di Bin Laden, ad insaputa delle autorità locali.

Oggi il clima tra esercito pakistano e forze statunitensi è molto teso, anche a causa dei bombardamenti a mezzo di droni delle basi talebane in Pakistan. E’ sempre più crescente l’odio della popolazione verso lo straniero, odio che sin dalla manifestazione di circa 1.000 persone pro Bin Laden, svoltasi a Quetta il giorno della notizia della sua morte, favorisce gli attentati contro obiettivi cristiani ed ebrei, ed impedisce un effettivo controllo del territorio, tanto che si narra che il Mullah Omar viva “indisturbato” a Quetta. A livello politico, dopo le recenti elezioni del maggio 2013, Presidente è Mamnoon Hussain, un famoso e ricco imprenditore tessile, mentre Primo Ministro è Nawaz Sharif, già altre volte a capo del governo e leader del Movimento musulmano pachistano (PML-N). Alcune regioni del paese hanno però un “loro governo”: sono le zone tribali al confine con l’Afghanistan (un’area grande quanto la Sicilia e abitata da 3 milioni di persone), la Provincia Frontaliera del Nord-Ovest e, in parte, il Baluchistan. In queste zone, abitate dai pashtun, il governo centrale non riesce ad esercitare un potere reale, perché hanno delle loro guide locali. Queste sono le zone più turbolente del paese, dove i talebani, i guerriglieri integralisti islamici di etnia pashtun, figli dei mujaidin afghani, fanno molti proseliti. I talebani riconoscono la sharia promossa da Al-Quaida come unica legge dello Stato e ne fanno un’interpretazione “wahabita”, mischiata con la cultura etnica afghano-pashtun. Gli stessi ulema pakistani rifiutano questo tipo di interpretazione islamica, considerandola violenta, terroristica, non-islamica e anti-pakistana. Oltre a questi problemi di controllo del territorio, vi è anche una concorrenza di potere a livello istituzionale in quanto vi è un organo, la Corte Suprema, che tende a legiferare, in concorrenza del potere legislativo, su ampie materie ed in modo spesso “fondamentalista”.

La condizione delle donne e dei bambini in Pakistan

Per l’islam uomini e donne sono uguali. Però il mondo musulmano è ampio e variegato, e la condizione della donna varia da paese a paese. In Pakistan, specie nelle zone dove forte è la corrente integralista islamica, la donna è un cittadino di seconda classe ed è fortemente discriminata: istruzione, lavoro, diritti politici e civili gli sono spesso preclusi. La donna deve sopportare l’autorità del padre, dei fratelli, del marito. Nelle famiglie di tradizione musulmana, di solito, superata l’età della pubertà, le donne osservano “il purdah”, sono cioè tenute lontane da qualsiasi uomo al di fuori della famiglia e quando si incontrano con degli sconosciuti, alla donna è chiesto di non incrociare gli sguardi, di non avventurarsi in lunghi discorsi e di mantenere una conversazione formale. Se la famiglia può permettersi di fare a meno che lavorino, stanno sempre in casa. Quando escono sono “velate” (spesso coperte dalla testa ai piedi dal burqah, il costume tradizionale). Ci sono però anche città come Karachi, Islamabad e Lahore dove le donne dei ceti più alti sono solite uscire in strada senza velo, e in casa usano vestire all’occidentale. Quando la donna si sposa, entra nella famiglia del marito; deve però portare una cospicua dote, che può anche significare indebitamento a vita per la sua famiglia. Generalmente una donna si sposa a 14 anni e fa molti figli. Molte sono maltrattate e costrette a trascorrere la maggior parte della loro vita.

Shazia Salamat fu torturata e uccisa nel 2010 dal marito in una sorta di prigionia. Coloro che fuggono da questa tortura vengono incolpate di adulterio e subiscono la peggiore delle punizioni. Vi sono poi i pregiudizi: ad esempio le ragazze cristiane che fanno le infermiere, e che, come di norma in occidente, possono occuparsi anche di pazienti maschi, sono considerate alla stregua delle prostitute. Nelle zone più arretrate e vicine all’Afghanistan si verificano anche casi di “spose bambine”, affidate a uomini molto più vecchi, che le inseriscono all’interno di un harem. Solo il 14% delle donne ha frequentato le scuole; in 15 dei 75 distretti del paese, solo l’1% delle donne sa leggere e scrivere. Nei territori tribali e nella Provincia del Nord-Ovest i talebani vorrebbero inibire alla donna qualsiasi tipo di educazione, anche se la Costituzione pakistana la prevede. Molti genitori pensano inoltre che non valga la pena far studiare le ragazze perché dovranno sposarsi, e preferiscono investire i loro soldi per l’educazione dei figli maschi. Famosa è diventata nel mondo la storia di Malala. Malala Yousafzei è una ragazza oggi di 16 anni, simbolo della lotta per i diritti umani delle donne in Pakistan. All’età di 13 anni era diventata famosa per avere curato un blog, per conto della televisione inglese BBC, nel quale documentava le condizioni di vita delle donne in Pakistan sotto il regime talebano. Nel 2012 il governo del suo paese (una zona tribale), dichiarò l’intenzione di vietare la scuola alle ragazze. Malala e altre ragazzine si rifiutarono, e continuarono a recarsi a scuola. Il 9 ottobre 2012 fu gravemente ferita alla testa e al collo da alcuni uomini armati saliti a bordo del pullman scolastico su cui lei tornava a casa da scuola. Riuscì però a salvarsi, e fu trasferita a Londra dove guarì…Una violenza tipica di questo paese nei confronti delle donne è l’uso dell’acido per sfregiarle permanentemente. Questa pratica è vietata dalla legge, ma spesso gli autori rimangono impuniti. Succede ogni anno a decine e decine di donne (a volte anche a uomini). Molto risalto ebbe nel 2011 il suicidio a Roma di Fakhra Younas, una donna pakistana alla quale un marito geloso, figlio di un influente uomo politico pakistano, aveva cancellato il viso con l’acido. Fakhra ad appena vent’anni aveva chiesto il divorzio, stanca delle violenze e delle umiliazioni che era costretta a subire. Col figlio Nauman, oggi diciassettenne, si era trasferita in un’altra casa, mettendo fine all’unione. Il marito la sfigurò con l’acido nel sonno. Fakhra era a Roma per subire l’ennesimo intervento chirurgico per riappropriarsi di un volto “umano”. Purtroppo non ce l’ha fatta a sopportare questa sua nuova condizione e lo sconforto l’ha spinta a questo gesto estremo.

I bambini sono il secondo anello debole della società pakistana: in alcuni territori i diritti dell’infanzia vengono sistematicamente negati. Sono oltre 3 milioni i minori costretti a lavorare con contratti di semi-schiavitù. Producono tappeti (i bambini hanno il pregio di fare nodi più piccoli e precisi grazie alle dimensioni ridotte delle loro dita), mattoni, ghiaia (fatta a mano con colpi di martello) e raccolgono sabbia e ghiaia nei letti dei fiumi. Famosa e drammatica è la storia del piccolo Iqbal Masih. Aveva appena 5 anni quando fu obbligato a lavorare per un fabbricante di tappeti del Punjab, per pagare un debito che il padre aveva contratto per finanziare il matrimonio del figlio maggiore. Per ripagare il debito, Iqbal lavorava più di 12 ore al giorno, legato ad un telaio, ma gli interessi erano talmente alti che la somma cresceva continuamente. Più volte tentò di fuggire, più volte fu ripreso e messo in punizione. A 10 anni, durante un’ennesima fuga, partecipò, insieme ad altri bambini, ad un incontro sui diritti umani. Qui tenne un discorso spontaneo che fu riportato sui giornali locali. Si rifiutò di tornare dal proprio “padrone” e riuscì ad ottenere la libertà. Da quel momento Iqbal continuò a testimoniare di fronte a vaste platee. La sua battaglia portò, grazie alle pressioni internazionali, a chiudere diverse fabbriche di tappeti nella città di Lahore, liberando così 3.000 piccoli schiavi. Nel 1995, a soli 12 anni, fu però ucciso da alcuni sicari. I suoi assassini non sono mai stati portati davanti a un tribunale.

Come vivono i cristiani in Pakistan

Il Pakistan alla sua nascita era una nazione priva di qualsiasi discriminazione, tanto che la banda bianca sulla bandiera rappresenterebbe le minoranze. Così non è nella realtà. I cristiani (cattolici, anglicani, ortodossi) sono oggi la minoranza più discriminata. Le loro condizioni di vita variano da zona a zona, da città a città. In alcune zone vengono privati del diritto di proprietà, o vengono di fatto espropriati dei beni immobili mediante l’applicazione di tasse speciali (come la “jazija”, un’imposta richiesta ai non musulmani) o rendendogli difficile la ricerca di un lavoro. Sono penalizzati nelle graduatorie di collocamento, nelle selezioni scolastiche. Non possono gestire un ristorante o servire cibo ad un musulmano. Talvolta vengono anche rifiutati come clienti. Spesso sono obbligati a fare lavori di bassa manovalanza e per questo, in generale, fanno parte della classe più povera. Nel dramma di questi nostri fratelli, una figura, tra le tante degne di onore, spicca per la fede ed il coraggio dimostrati: Shahbaz Bhatti. Shahbaz, nato nel 1968 a Lahore (la città dove opera Don Pietro), è un vero martire cristiano del Pakistan. Nel 2008 fu nominato ministro delle minoranze: era l’unico cattolico presente nel governo. Subì frequenti minacce di morte, aumentate dopo la sua presa di posizione a favore di Asia Bibi. Fu ucciso il 2 marzo 2011 a Islamabad da un gruppo armato di talebani. Il suo omicidio avvenne due mesi dopo quello del governatore del Punjab, Salmaan Taseer, anche lui ucciso per la sua presa di posizione contro la legge Iqbal Masih sulla blasfemia, e per essersi espresso a favore di Asia Bibi.

Ciononostante Shahbaz non godeva della scorta armata. Per comprendere la grandezza, la fede e l’eroismo di quest’uomo, e capire come vivono i cristiani di quel paese, leggiamo alcuni passi del testamento spirituale da lui lasciato. «Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono il direttore dell’Alleanza di tutte le Minoranze in Pakistan, un’organizzazione rappresentativa delle comunità emarginate e delle minoranze religiose del Pakistan, che opera in sostegno dei bisognosi, dei poveri, dei perseguitati, degli oppressi, soprattutto dei cristiani e delle altre minoranze religiose del Pakistan. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Divenni chierichetto ed assistetti i parroci locali nella messa, il che mi diede l’opportunità non solo di visitare con loro diversi villaggi, ma anche di conoscere in prima persona i problemi della congregazione e della Chiesa in Pakistan. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. Mi ritrovai così a riflettere sull’amore di Gesù per noi e pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle. Ciò mi condusse ad essere testimone per la vita dell’amore e del sacrificio di Cristo, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico. Al fine di condividere in maniera tangibile e significativa la forza dell’amore di Cristo, insieme ad alcuni amici fondai un gruppo giovanile parrocchiale. Cominciammo a studiare la Bibbia e ad aiutare gli studenti indigenti a continuare i loro studi. Leggevamo la Bibbia, recitavamo il credo ed invitavamo anche altri studenti cristiani ad unirsi al nostro gruppo di studio per acquisire maggiori conoscenze bibliche e trovare maggiore ispirazione. Poi mi iscrissi all’università, dove creai un’organizzazione cristiana con l’intento di riunire i giovani cristiani e di aiutare gli altri. Molti studenti cristiani all’università erano discriminati, venivano picchiati e torturati perché mal visti dalle organizzazioni estremiste islamiche che non li volevano all’università. Si sentivano molto isolati, ma noi li aiutammo. In quel tempo anch’io fui picchiato dagli islamici. Mi minacciarono di morte qualora avessi creato un ’organizzazione cristiana. Ma io risposi: “No, io non vi sto dando noia. Sto solo formando un’associazione per le mie sorelle e i miei fratelli cristiani”. Replicarono che non potevano permettermelo. Dopo quel giorno mi hanno torturato molte volte e hanno minacciato di uccidermi se avessi continuato nel mio intento.

Una volta organizzai un incontro di studenti cristiani all’università ed ancora venni picchiato. V’era una bacheca universitaria, dove ogni organizzazione affiggeva i propri avvisi. Così, il giorno successivo anch’io vi misi un mio annuncio: “Posso morire per il mio Gesù, ma non posso smettere di riunire le mie sorelle e i miei fratelli cristiani, specialmente gli studenti”. Questo mio messaggio richiamò molti altri studenti cristiani, che divennero membri della nostra organizzazione e ne sposarono le idee e le finalità, ossia di liberare i cristiani oppressi dalle catene della persecuzione, della discriminazione e del pregiudizio dominante nella maggioranza della società musulmana. Così unimmo i nostri sforzi in questa lotta: davamo lezioni gratuite agli studenti indigenti e regalavamo loro libri; tutto per incoraggiare gli studenti cristiani a proseguire gli studi scolastici ed universitari, in modo da divenire buoni cittadini del paese ed aiutare la loro stessa gente. […]” “Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: “No, io voglio servire Gesù da uomo comune”. Sono appagato dalla mia devozione. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa, hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristiani e dei bisognosi. Altrimenti mi avrebbero perso. Al contrario, mio padre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo ed il Vecchio Testamento, i versi della Sacra Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che nostro Signore ha mandato il suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire questo cammino del Calvario.

Nostro Signore disse: “Vieni da me, porta la tua croce, segui il cammino”. I versi che più amo della Bibbia recitano: “Venni presso di voi quando ero affamato, quando ero assetato, quando ero prigioniero”. Così, quando vedo la gente povera e bisognosa, penso che sia Gesù sotto le loro sembianze a venirmi incontro. Per cui io cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.”

Dalla morte di Shahbaz, il suo posto di ministro delle minoranze non è stato più occupato. Suo fratello Paul, medico che ha compiuto gli studi in Italia, è stato nominato consigliere speciale del Primo Ministro, per le minoranze; ha un ruolo importante, ma non ha poteri. Sui cristiani del Pakistan, ma anche sugli indù e sui musulmani, pende inoltre, come una spada di Damocle, la famigerata legge sulla blasfemia. La loro vita, i loro beni, i loro figli, sono alla mercé di chiunque li denunci di aver offeso Maometto. Emblematico è il caso già ricordato di Asia Bibi. Tecnicamente questa legge sarebbe applicabile anche se una copia del Corano scivolasse di mano e cadesse in terra. L’accusatore non ha nemmeno l’onere di provare ciò che dice. Per l’imputato è invece davvero difficile difendersi. In molti casi, il presunto blasfemo viene picchiato o ucciso prima di avere provato la sua innocenza, oppure, se anche viene rilasciato, capita spesso che venga assassinato dagli estremisti. Dal 1978 al 2011 questa legge è stata applicata in 1.081 casi. Se in generale le condizioni di vita sono molto difficili per i cristiani, ancora di più lo sono per le donne cristiane. Talvolta per queste ragazze l’unico sbocco lavorativo è quello di mettersi al servizio di una famiglia musulmana, già da bambine. Queste, le considerano vere e proprio “schiave”, e non sono rari i casi di abusi e violenze fisiche, sessuali e psicologiche. Casi che molto spesso vanno a finire decisamente male per le ragazze cristiane.

Un caso non ancora risolto è quello di Mehek Masih. Mehek, una ragazzina cristiana di 14 anni, nell’agosto 2011 è stata prelevata nella sua abitazione, nel Punjab, in pieno giorno, da 5 uomini, sotto la minaccia di una pistola. Due giovani cristiani hanno provato a soccorrere la ragazza, ma Mohammad Tayeb, l’uomo che ha ideato il tutto, ha puntato la pistola contro di loro, minacciando di sparare e dicendo che tanto era “una choori”, un termine spregiativo e offensivo che viene dato ai cristiani quando nei ristoranti o nei negozi vengono respinti, ed ha aggiunto che la choori Mehek sarebbe stata purificata “con la conversione all’islam e facendola diventare la mia amante”. In casi come questi, le famiglie possono fare ben poco per salvare le vittime dai loro aguzzini e rischiano a loro volta delle vendette. La polizia spesso neppure interviene. Al dramma del sequestro, si aggiungono le difficoltà che nel futuro le giovani sfortunate rischiano di subire nelle famiglie musulmane. Oltre a questi gravi pratiche cui sono soggette le donne cristiane, negli ultimi anni si sono verificati in Pakistan molti episodi di intimidazione e gravissimi attentati a danno delle minoranze.

L’ultimo è avvenuto a Peshawar il 22 settembre 2013 mentre dei cristiani stavano uscendo da una chiesa anglicana: sono stati circa 120 i morti. Questo è solo l’ultimo di tanti episodi. Qualche giorno dopo si è verificato però un segnale di distensione: vari cittadini musulmani hanno formato un cordone umano per proteggere l’accesso alla chiesa e consentire ai cristiani di recarsi a messa. La maggior parte dei musulmani sono infatti moderati e sono per la convivenza civile con le minoranze, ma il fondamentalismo è in forte crescita.

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