I cattolici, la crisi e la “causa dei miseri”

Il capitalismo non è possibile, non può sussistere senza periodi di crisi e connesse convulsioni sociali. Esso, come ha insegnato Marx, opera sempre attraverso crisi e ristrutturazioni. E’ quel che pensa uno dei più insigni storici contemporanei e uno dei pochi rimasti di orientamento marxista, Eric Hobsbawm, che aggiunge poi a proposito della crisi attuale: «non possiamo sapere quanto sia grave, perché ci siamo ancora in mezzo» (Colloquio con Eric Hobsbawm di Wlodek Goldkorn, Hobsbawm: “Il capitalismo di Stato sostituirà quello del libero mercato” in L’Espresso n. 19, maggio 2012). Quel che si può dire è che la crisi in corso è diversa da quelle precedenti perché oggi ad essere colpiti non sono più tanto, come in passato, grandi aree e paesi extraoccidentali come India, Brasile o Argentina, Cina e Russia, ma proprio i vecchi paesi capitalisti occidentali (in generale USA e Europa). Se una crisi emblematica come quella del 1929 colpiva tutto il mondo, ad eccezione dell’URSS stalinista, oggi le maggiori ripercussioni della crisi economica in atto si hanno in Occidente più che altrove. Inoltre, se in passato le gravi crisi economiche coincidevano con un arresto generalizzato dello sviluppo economico, oggi lo sviluppo economico sembra fermarsi solo in Occidente e non altrove.

In questo scenario pare allo storico inglese di poter affermare che i paesi occidentali, malgrado gli sforzi di riorganizzazione economico-finanziaria, siano «in rapido declino», mentre per i cosiddetti paesi emergenti, tra cui possono essere compresi la Russia postcomunista e la Cina comunista e capitalista ad un tempo, il problema sembra essere quello di «come mantenere il ritmo di crescita senza creare problemi sociali giganteschi», problema a cui sia la Russia che la Cina sembrano voler cominciare a rispondere attraverso una totale rimozione dell’idea, ancora cosí sentita in Occidente, di Welfare State o Stato Sociale, che implica un doversi fare carico da parte degli Stati di costi finanziari molto elevati, benché poi sia molto problematico stabilire se e per quanto tempo l’assenza di Welfare possa produrre per gli Stati, anche sul piano economico, effetti realmente vantaggiosi.

La tendenza che si sta oggi delineando, anche nei paesi occidentali in crisi, è il graduale passaggio del capitalismo dal libero mercato classico, dove contavano la scommessa personale, la creatività, le capacità individuali dei borghesi, allo Stato programmatore ed efficientista che ha proprio tra i suoi obiettivi più concreti ed immediati lo smantellamento progressivo dello Stato Sociale, senza il quale però non è affatto scontato che «il capitalismo possa funzionare». Il vantaggio di un neocapitalismo di Stato rispetto al tradizionale capitalismo del libero mercato è che il primo non si deve preoccupare tanto del consumatore ma del consumo, di come limitare i costi, e d’altra parte «non è legato al dovere di una crescita senza limiti… Detto questo, il capitalismo di Stato significa la fine dell’economia liberale come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quattro decenni. Ma è la conseguenza della sconfitta storica di quello che io chiamo “la teologia del libero mercato”, la credenza, davvero religiosa, per cui il mercato appunto “si regola da sé e non ha bisogno di alcun intervento esterno”».

Il capitalismo, peraltro, ha molteplici varianti: cioè non è proprio vero che esso in tutto il mondo sia “un sistema unico e coerente”. E tuttavia è un sistema che sta conoscendo delle indubitabili difficoltà, delle battute d’arresto, delle crisi che non è detto siano ancora una volta la via obbligata di nuove “ristrutturazioni” del sistema medesimo che gli consentirebbero di sopravvivere alla sua ennesima morte apparente e di risorgere appunto nel quadro di un più efficiente, più produttivo e più competitivo mondo del lavoro che manterrebbe però i suoi elementi di continuità rispetto al o ai precedenti modi di produzione nella regola prioritaria del profitto a tutti i costi, nello sfruttamento della forza-lavoro, nella mercificazione dei bisogni morali degli individui. Qui è il caso di notare, con il sociologo polacco Zygmunt Bauman, che è certamente deprecabile e pericolosa quella recente tendenza delle società occidentali a presentare il mercato come canale sostitutivo di autentici rapporti umani per il soddisfacimento di esigenze e bisogni morali.

Ora, osserva molto criticamente Bauman, è evidente che la mercificazione e la commercializzazione dei bisogni morali degli individui sono funzionali alla riproposizione di una crescita illimitata dell’economia, che è solo una mistificazione della realtà e una mistificazione rischiosa per la sopravvivenza stessa dell’umanità, dal momento che le risorse naturali sono limitate e ormai in via di esaurimento, per cui appare semplicemente folle continuare a parlare di crescita o di sviluppo illimitati, mentre ormai sarebbe molto più saggio che la società mondiale, per non condannarsi al vicolo cieco della crescita senza freno, cominciasse ad orientarsi verso la via della sostenibilità economica, sociale e ambientale. 

Ma, al momento, continuano a pretendere rigore ad oltranza soprattutto e nuova crescita economica, come opzione ipotetica e subordinata, i banchieri centrali dell’Occidente, senza minimamente preoccuparsi di verificare se il peso finanziario e i costi sociali da essi ingiuntivamente richiesti ai popoli siano da parte di quest’ultimi e sino a che punto sostenibili, quali siano oggettivamente i margini ancora disponibili per la crescita o ricrescita economica occidentale visto che le risorse naturali (non solo come il petrolio ma come l’acqua, per esempio) non sono illimitate, e senza riflettere sul fatto che un’economia globalizzata presupporrebbe una politica globalizzata, uno Stato e una unità politica globali anche se articolati, senza cui né l’economia né la politica alla lunga potrebbero salvarsi dalla più catastrofica delle bancarotte.

Come rimediare, dunque? C’è un solo modo, dice Hobsbawm: rendersi conto per tempo che «l’economia non è fine a se stessa, ma riguarda gli esseri umani» e che pertanto economia, finanza, alta contabilità internazionale e amministrazione dello stato non possono valere per se stesse ma sempre in relazione agli obiettivi primari di vita delle popolazioni, il che implica che i  calcoli, le tabelle, i piani di rientro e riordino finanziario, i tagli alla spesa sociale e quant’altro gli “esperti” e i mercati ritengano di dover elaborare ai fini del risanamento e dei pareggi di bilancio, possono essere legittimi o necessari solo nei limiti in cui essi non risultino in parte o totalmente arbitrari e non violino due princípi essenziali della civile convivenza: la dignità delle persone e quindi il loro inalienabile diritto non solo alla sopravvivenza ma ad una vita non mutilata nelle sue essenziali necessità materiali e spirituali seppure oltremodo sobria e onesta, e poi la democrazia dei popoli al di sopra della quale non c’è “debito sovrano” che possa e debba essere “onorato”.

I banchieri, i mercati, gli esperti, i professori di cose economiche e finanziarie, e i loro sostenitori massmediali, dovrebbero comprendere facilmente che essi possono fare il bello e cattivo tempo solo fino a quando non divampano rivolte sempre più ampie e diffuse e solo fino a che i popoli non si rivoltino: quel giorno sarebbe il caos probabilmente per l’umanità intera ma essi certamente perderebbero per sempre averi e funzioni decisionali. Non è affatto chiaro dunque a chi potrebbe giovare maggiormente un eventuale braccio di ferro.

Il benessere dell’umanità non può essere legato alla semplice crescita dell’economia, «all’aumento del prodotto totale mondiale», cosí come non può essere sostenuto ed alimentato da un ossessivo richiamo alla necessità di saldare un debito pubblico molto probabilmente pompato a dismisura sulla base di parametri di misurazione o di calcolo non solo arbitrari ma demenziali. Specialmente i cattolici, che dovrebbero subordinare forse più di altri l’intera loro esistenza al culto della verità ma che spesso più di altri sono purtroppo dormienti o “tiepidi”, dovrebbero sentirsi coinvolti, dovrebbero mobilitarsi per denunciare in tutte le sedi istituzionali, culturali, economico-finanziarie e persino religiose in cui si trovino ad operare, e al di là di consuete e generiche o logore paternali sull’edonismo e sul materialismo contemporanei, il colossale e specifico imbroglio politico-finanziario a cui un’umanità superficiale e distratta ha permesso di proliferare e di minacciare il mondo civile al di là di ogni possibile immaginazione. Noi cattolici abbiamo veramente bisogno di Dio?

Ricordiamoci sempre che «il Signore difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri» (salmo 139) e che chi lo ama con cuore sincero deve difendere, ora, al meglio delle sue possibilità, senza incertezze e senza rinvii, senza ragionamenti arzigogolati o troppo sofisticati, la causa dei miseri e il diritto dei poveri, dei miseri che non abbiano mai avuto né desiderato la ricchezza e dei poveri che abbiano voluto vivere e vorrebbero continuare a vivere dignitosamente.

Lascia un commento