Husserl sapeva che la scienza fosse strumento teorico e pratico di avanzamento civile e culturale per il genere umano e non ne avrebbe mai messo in discussione l’insostituibile funzione rischiaratrice ed emancipativa. Ne avrebbe denunciato, però, le ricorrenti crisi, in particolare quella del Novecento, letta come espressione della radicale crisi di vita dell’umanità europea. La scienza nasce dalla vita, dal mondo-della-vita, da un mondo di esperienze intuitive e precategoriali, che essa, nello sforzo astraente di tradurle in oggetti di formalizzazione logica, tende a dimenticare e a rimuovere dal contesto etico-esistenziale da cui muove e in cui trova le sue stesse finalità il lavoro scientifico. Tale contesto è quello della soggettività e, al tempo stesso, della intersoggettività, e la scienza viene assumendo di conseguenza un duplice movimento: quello della curiosità, dell’esperienza e dell’interrogazione soggettive di singoli individui, e quello della partecipazione collettiva di gruppi umani sempre meglio organizzati ad una elaborazione teorico-sperimentale quanto più possibile precisa e attendibile dei dati, delle intuizioni, degli studi, delle semplici congetture di volta in volta emergenti da ricerche embrionali o non ancora formalizzate suscettibili di convertirsi in proposizioni, teorie, ipotesi, di acclarato e specifico valore scientifico.
Accade, però, che non tutto quel che viene ricevendo i crismi della scientificità, resti oggetto di studio in rapporto alle particolari esigenze pratiche da cui viene originandosi e per le quali si tratta, per l’appunto, di trovare soluzioni soddisfacenti, perché, in realtà, non di rado determinate scoperte vengono utilizzate sul piano teorico e sfruttate su quello tecnologico per scopi diversi da quelli originari e non più umanamente e moralmente legittimi come quelli originari. Nel ‘900, il processo di scientificizzazione del mondo, cominciato con Galileo, conosce un grave momento di crisi, che si manifesta allorché la coscienza morale dell’umanità europea sembra porsi corposamente al servizio o in funzione di una scienza sempre più disancorata da criteri etici di riferimento, mentre la scienza imbocca ormai una via di decisa autonomizzazione rispetto ai lenti e faticosi percorsi di una coscienza preoccupata di indicare valori e fini da cui lo stesso progresso scientifico e lo stesso sviluppo tecnologico non dovrebbero mai prescindere.
Se la scienza si autonomizza dall’etica, e se la stessa filosofia di riflesso comincia a spostare la sua attenzione da interessi prettamente conoscitivi a scopi pratici, la civiltà resta in balìa di una cieca volontà di potenza tesa a dominare sul mondo naturale ed umano, resta alla mercè di forze irrazionali volte a tecnicizzare, in misura sempre più esasperata, le conoscenze scientifiche e, con esse, tutti gli aspetti dell’esistenza umana. Solo che questa crescente praticizzazione del sapere scientifico fa sí che restino fuori dalle analisi, dalle ricerche di quest’ultimo, domande e questioni umanamente rilevanti e non suscettibili di essere risolte a colpi di innovazioni tecnico-scientifiche, come la libertà, il dolore, l’angoscia, la felicità, la morte, il rapporto tra esseri umani, tutti temi su cui la scienza sembra incapace di offrire risposte rassicuranti. Contrariamente a quel che accadeva nei tempi antichi e nello stesso Medioevo, adesso anche la filosofia, che subisce i contraccolpi di questo orientamento prevalentemente tecnocratico della scienza, comincia ad allontanarsi dai grandi problemi esistenziali dell’umanità e ad identificare erroneamente il progresso tecnico-conoscitivo, tecnico-scientifico con il progresso stesso dell’umanità.
Per Husserl, invece, la filosofia, che è scienza universale di tutte le scienze, deve tornare ad assolvere la sua funzione originaria e costitutiva di chiedere e rendere conto di tutti gli eventi del mondo e di tutte le forme esistenti di vita. Essa deve tornare ad interrogarsi sul senso delle cose, a cominciare dal senso del progresso scientifico e tecnologico. Non si tratta, infatti, di dubitare della legittimità delle procedure logico-metodologiche, delle scoperte e dei successi straordinari della scienza, in quanto tutto questo è entrato ormai a far parte in modo evidente e vincolante della cultura europea e occidentale, ma il problema che viene ponendosi con urgenza ed altrettanta evidenza riguarda il significato che le scienze hanno o possono avere per l’esistenza umana. Pertanto, osserva Husserl, a questo fine bisognava ripristinare, come avrebbero cercato di fare gli uomini del Rinascimento, l’idea greca di filosofia, quella per cui quest’ultima torni ad essere, naturalmente sulla base dei rivoluzionari apporti della scienza moderna, una scienza omnicomprensiva, una scienza della totalità dell’essere, dove nessun comparto di ricerca risulti isolato rispetto alla totalità delle investigazioni scientifiche e dove tutti i risultati disciplinari confluiscano in una visione articolata, complessa ma unitaria, dell’umano in generale.
Ma questo ideale di sapere circolare, interdipendente, dinamico e unitario, sarebbe fallito sotto la spinta formidabile e inarrestabile che alla scienza avrebbe dato unilateralmente l’impostazione matematico-quantitativa dell’opera galileiana. Solo che la matematizzazione del mondo naturale e le formule che ne sarebbero seguite e in cui ogni aspetto del reale avrebbe dovuto trovare la sua spiegazione, la sua ratio, non si sarebbe rivelata affatto sufficiente a dare esaustivamente conto dell’intera realtà, che specialmente nel corso del ‘900, avrebbe cominciato a manifestare una complessità insospettata. E, anzi, più il sapere scientifico viene tecnicizzandosi attraverso processi astrattivi e simbolici sofisticati, più esso tende ad interrogarsi sulle sue interne strutture logico-metodologiche e sulle sue acquisizioni epistemiche piuttosto che su quelle esigenze pratiche, su quelle necessità pragmatiche e insieme spirituali, che ne avevano determinato o favorito l’avvio e lo sviluppo e da cui dovrebbe sentirsi sempre condizionato in ogni e qualunque fase del suo cammino storico.
Il positivismo poi, per Husserl, sarebbe stato uno dei principali esiti fallimentari della scienza moderna, con tutte le sue implicazioni riduttivistiche di tipo scientistico, fattualistico, logicistico, a causa delle quali si finiva per rendere del tutto incomprensibili aspetti e dimensioni fondamentali della vita e non riducibili a conoscenze meramente quantitative e a criteri oggettivi di misurazione. L’intera vita spirituale dell’uomo, con i suoi valori e la sua fede etico-religiosa, veniva tagliata fuori dalle cose che contano, dai fattori decisivi del destino storico dell’umanità. Tutto quel che fosse risultato scientificamente inafferrabile o inaccessibile doveva essere relegato molto rapidamente nella tradizionale “metafisica”, mentre Husserl pensava che proprio sugli aspetti più enigmatici, più misteriosi, più sfuggenti dell’esistenza, persino sotto la spessa lenta di osservazione e di indagine della scienza, fosse necessario e urgente riflettere e indagare, condividendo su questo terreno la posizione di Ludwig Wittgenstein, secondo il quale tutto ciò che risulti privo di senso scientifico, non per questo deve risultare privo di senso tout court. Peraltro, i positivisti si illudevano di poter spiegare in termini di causalità e quindi in modo deterministico l’intera realtà, là dove invece i fenomeni esaminati dalle varie scienze naturali risultano non solo sempre più complessi ma anche eterogenei e irriducibili fra loro, per cui la meccanica classica non sarebbe stata in grado di spiegare il comportamento delle “particelle elementari”, la fisica sarebbe risultata inadatta a spiegare i fenomeni biologici, la biologia avrebbe inutilmente preteso di spiegare i fenomeni psicologici, e via dicendo. Come avrebbe intuito il filosofo Émile Boutroux, le stesse leggi di natura non hanno carattere di “necessarietà” e valore di ferrea, deterministica causalità, ma una natura “contingente”, per cui la scienza non può ridurre oggettivisticamente tutta la realtà a leggi scientifiche assolute di spiegazione. Le scienze descrivono livelli diversi di realtà e da questo deriva il carattere contingente delle loro teorie conoscitive.
Husserl, ben consapevole della struttura estremamente complessa della ricerca scientifica, chiedeva che il suo metodo di epochizzazione filosofica, da applicare alla realtà e al sapere in genere, fosse applicato con particolare urgenza alla scienza moderna, di cui si erano già ampiamente palesate contraddizioni, ambiguità, insufficienze, e di cui era emerso soprattutto lo scollamento tra il suo piano strettamente epistemico e il suo piano etico, per tentare di riesaminarne metodi, teorie e procedimenti e di stabilire cosa se ne potesse salvare e integrare e cosa se ne dovesse eliminare e sostituire in rapporto alla sua duplice funzionalità di natura teorico-conoscitiva e di natura etico-pragmatica. In sostanza, era la radicale messa in discussione della tesi positivistica della verità assoluta della scienza, ma questa critica al presunto assolutismo gnoseologico della ricerca scientifica non veniva a coincidere husserlianamente con l’opposta tesi della sua natura arbitraria, bensì con il riconoscimento del significato regolativo delle sue conoscenze e scoperte e, come tali, sempre necessariamente soggette a controlli e riscontri sperimentali e fattuali in senso lato, ivi compresi quelli relativi all’esigenza di accertarsi dell’aderenza dei programmi scientifici alle oggettive e prioritarie istanze emergenti nel e dal mondo-della-vita.
Husserl non concepiva che, come sarebbe accaduto più tardi in forme sempre più invasive, la conoscenza scientifica evolvesse verso forme di astrazione talmente sofisticate da separarsi in misura abnorme dalle dimensioni più spontanee e creative della spiritualità umana, subordinando al tempo stesso se stessa come impresa collettiva di lavoro non solo ad una volontà razionale di conoscenza e di servizio morale e umanitario, ma ad un’irrazionale volontà politica e militare di potenza e di sopraffazione. In tal modo, era la sua denuncia, l’umanità scientifica europea, nel tentativo di razionalizzare «il mondo della vita», si condannava a smarrire il senso stesso delle sue operazioni teoretiche e sperimentali e a rimanere asservita alle sue stesse invenzioni tecnologiche. Donde il compito non riduttivo e non più rinviabile della filosofia fenomenologica, del vero pensiero critico, di ricomporre la drammatica e deleteria scissione tra conoscenza e coscienza, tra scienza ed etica, tra intellettualità e moralità, in un mondo contemporaneo almeno in apparenza avviato non già verso il trionfo di una razionalità liberante e umanizzante ma verso il precipizio di un’irreversibile e atomizzante alienazione collettiva.
Per Husserl, la ricerca del vero, anche a prescindere dal discorso comunque importante sulla maggiore o minore legittimità delle sue forme conoscitive, non poteva essere fine a se stesso, ma doveva porsi in funzione di quel bene, insostituibile fulcro dell’immenso universo morale e spirituale dal quale la scienza non avrebbe dovuto ritrarsi ma verso cui si sarebbe dovuta estendere con i suoi rigorosi e creativi metodi d’indagine, per consentire all’umanità europea e planetaria non solo di pensare ma anche di sentire e vivere in profondità le cose e i valori del mondo. La scienza avrebbe conservato la sua originaria potenza umanizzatrice non già se avesse preteso di tecnicizzare unilateralmente e riduttivamente il mondo-della-vita, ma se, al contrario, si fosse lasciata inondare dalle sue richieste sempre nuove, creative e originali, di verità, libertà, umanità. L’esistenza come orizzonte generale di senso, infatti, si nutre non solo di “ragioni logiche” ma anche, forse soprattutto, di irriducibili “ragioni pratiche”. Di nuovo, un importante punto di contatto tra Husserl e Wittgenstein.
Francesco di Maria
*Per la citazione diretta di testi husserliani relativi a quanto qui trattato, si rinvia al mio saggio husserliano intitolato “Verità e moralità nel pensiero fenomenologico di E. Husserl” e contenuto in F. Luciani, Maestri di morale, Cosenza, Brenner, 1999, pp. 19-83.