Nell’individuo esiste una pulsione aggressiva indipendente dai condizionamenti ambientali, sociali e culturali, e tale pulsione si manifesta sul piano psicologico, sessuale, socio-relazionale, come tendenza istintiva dell’io ad affermarsi. Ma nell’individuo esiste anche una pulsione inibitoria dipendente in vario grado dalla coscienza morale, che tende a frenare o a controllare gli impulsi inconsci dell’io, le sue forze istintuali più spontanee e talune sue scomposte o irrazionali reazioni caratteriali. La vita psichica dell’individuo oscilla sostanzialmente tra queste due polarità, o meglio consiste in un equilibrio instabile, precario, conflittuale, tra una pulsione aggressiva originaria e indipendente e una pulsione inibitoria o repressiva relativamente acquisita o dipendente. La lotta fra queste forze contrapposte produce come esito caratteristico della vita personale degli esseri umani la nevrosi. Non so se e in che misura mi sia allontanato dagli studi freudiani, ma, in qualunque modo li abbia qui pur schematicamente utilizzati, mi pare che in questi termini si possa tracciare un profilo psicoanalitico generale sufficientemente corretto dell’individuo contemporaneo.
La civiltà umana, e quindi anche l’ordine sociale e l’etica pubblica, trovano nel fattore inibitorio-repressivo un prezioso alleato, mentre in quello libidico-pulsionale nella sua duplice valenza creativa e distruttiva trova quanto meno, se non necessariamente un nemico, una fonte di persistente inquietudine e bisognosa di essere costantemente monitorata. Il significato dell’evoluzione civile consiste, scrive Freud, nella «lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione, come si attua nella specie umana. Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana»1. La vita civile è una vita irta di difficoltà e di pericoli, una vita su cui incombe costantemente il male che ha le sue origini nell’uomo, non nella società come invece ritengono i comunisti. In se stesso, dicono quest’ultimi, l’uomo è buono, mansueto e portato ad avere relazioni pacifiche con il prossimo, ma la sua natura viene corrotta dalla particolare configurazione conferita alla società dalla proprietà privata, in quanto chi la possiede è sollecitato a prevaricare nei confronti del simile, mentre chi non la possiede o la possiede in misura molto inferiore sarà spinto istintivamente ad odiare chi abbia il privilegio, la fortuna, la possibilità di possedere mezzi economici piuttosto cospicui. Quindi, i comunisti pensano che, abolendo la proprietà privata e socializzando tutti i mezzi e i beni di produzione, e naturalmente i benefici sociali che ne deriverebbero in egual misura per ogni cittadino-produttore, il problema potrebbe essere risolto alla radice, perché naturalmente i sentimenti interpersonali di odio, invidia, ostilità, rivalità, non avrebbero più motivo di esistere.
Ma, al di là di una valutazione politica relativa alla convenienza o all’inopportunità di abolire la proprietà privata, Freud ritiene «illusione priva di fondamento» la stessa «premessa psicologica» da cui muovono i teorici della proprietà collettiva e della socializzazione della vita economico-produttiva, perché la libido produce aggressività non solo in relazione alla proprietà privata ma anche in rapporto ad altri non meno rilevanti condizionamenti, come per esempio le posizioni di potere e prestigio necessariamente differenti assunte nella stessa società comunista. Il fatto è che l’aggressività non dipende eziologicamente dalla proprietà, ma è innata nella natura stessa degli individui, è costitutiva della genetica umana, della sessualità, persino della semplice relazionalità umana, sotto i profili più diversi. L’individuo riconosce l’eguaglianza naturale che lo accomuna ad altri individui, ma questo non gli impedisce di difendere e valorizzare a qualunque costo, già a livello inconscio, la propria diversità dagli altri, l’identità del proprio io. Anche se fosse liberalizzata integralmente la vita sessuale, al di là di ogni steccato tra bene e male, anche se si abolisse la famiglia tradizionale, l’aggressività umana non sparirebbe dall’evoluzione della civiltà. Ma persino ove fosse possibile formare storicamente comunità costituite, in modo esclusivo, da individui particolarmente affini, simpatetici, l’aggressività non sarebbe ancora scongiurata. L’analisi freudiana è naturalmente molto più ampia e ricca di esemplificazioni ma, ai fini del tema in oggetto, questo è l’essenziale.
L’aggressività serve agli individui come segnale di un possibile stato di pericolo e come virtuale mezzo di difesa della propria identità ma, per quanto riguarda la possibilità di regolarne la funzionalità, la frequenza, l’intensità, molto dipende dalla naturale sensibilità, dall’educazione ricevuta, dai condizionamenti familiari e ambientali, dalla particolare forma di istruzione acquisita, dalla qualità delle proprie conoscenze, dalle capacità critiche della propria attività intellettuale e dalle interiori motivazioni della propria vita morale. Da parte sua, la civiltà umana si erige a baluardo di sicurezza della loro esistenza, reprimendone tutti quegli istinti, quelle forze pulsionali, quei meccanismi psichici potenzialmente distruttivi che forse ne appagherebbero la “fame” di piacere e felicità se potessero esplicarsi in modo completo, mentre, per contro, essa non può e non intende garantirne il totale soddisfacimento. Sul piano politico e sociale, appare del tutto normale e necessario porsi il problema di come attenuare le cause “esterne”, gli stimoli esogeni, dell’aggressività e i comunisti, per Freud, puntano appunto sull’abolizione della proprietà privata al fine di ridurla in misura significativa.
Tuttavia, è probabile che i comunisti cui pensa lo scienziato viennese non siano i più fedeli interpreti del pensiero di Marx, ammesso e non concesso che egli stesso avesse una conoscenza adeguata dell’opera marxiana. In realtà, Freud, più che una conoscenza interna, accurata e diretta, del marxismo, ne aveva una conoscenza esterna, indiretta e per linee generali anche se non generiche. Anche per questo non si può dire che la sua critica psicoanalitica dell’abolizione della proprietà privata sia perfettamente comprensiva delle interne articolazioni della tesi marxiana relativa a quest’ultima. Infatti, quello marxiano non era stato un attacco astratto e generico alla proprietà privata in quanto fondamentale istituto della società civile ma piuttosto un colpo sferrato contro la sua esistenza nella forma sociale borghese: «Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà è abolita per i nove decimi dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto che per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire una proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della proprietà dell’enorme maggioranza della società. In una parola, voi ci rimproverate di voler abolire la vostra proprietà. Certo, questo vogliamo»2. Non si trattava quindi di abolire la proprietà in generale, «la proprietà acquistata personalmente, frutto del lavoro diretto e personale; la proprietà che costituirebbe il fondamento di ogni libertà, attività e autonomia personale»3, non la proprietà derivante dal lavoro non privato del suo valore reale, ma quella derivante dallo sfruttamento del lavoro altrui, e quindi la proprietà individualistica, privata, arbitraria, della società capitalistico-borghese.
In ogni caso Freud, in senso specificamente politico, non avrebbe mai assunto una posizione netta su questa critica marxiana, anche se nel “Disagio della civiltà” egli scrive che «sembra anche a me indubitabile che un reale mutamento nelle relazioni dell’uomo con la proprietà gioverà … più di qualsiasi comandamento etico», pur ammonendo subito dopo: «fra i socialisti questa intuizione viene oscurata e svilita agli effetti pratici da nuovi misconoscimenti idealistici della natura umana»4. Bisogna, peraltro, precisare che, al di là della posizione sostanzialmente prudente di Freud, la quasi totalità della psicanalisi occidentale si sarebbe alla fine schierata contro la tesi abolizionista di Marx e a favore di una visione capitalistica dell’economia e della società. Ma, ritornando a Marx e alla critica della proprietà privata, un analogo ragionamento egli avrebbe fatto per la famiglia, l’educazione dei figli, la cultura: non c’è dubbio che il radicale cambiamento del modo sistemico di produzione comporterebbe dei mutamenti significativi sull’intera vita sociale, sui valori e sui rapporti interpersonali, sebbene quel che Marx dava quasi per scontato e che la storia invece si sarebbe incaricata di smentire categoricamente, era che le condizioni generali di vita delle masse popolari e, in una larga prospettiva di complessiva emancipazione umana, l’intero genere umano, ne avrebbero tratto un indubbio giovamento.
Ora, è comunque vero che l’impostazione storico-materialistica data da Marx alla problematica sociale sembrava andare incontro a talune acquisizioni della psicoanalisi: che l’identità personale non potesse ridursi né alla famiglia d’origine, né alla posizione sociale, né al particolare posto di lavoro, dal momento che c’era una vita inconscia, una vita sotterranea, sessuale, che reclamava continuamente di venire alla luce e non poteva restare totalmente soffocata e repressa, ma quel che Marx non poteva, né voleva forse prevedere, era che la nuova società comunista non sarebbe stata governata nei vecchi modi paternalistici, autoritari, discriminatori e repressivi, della società liberale borghese, ma in modi esattamente antitetici ad essa. D’altra parte, Freud era convinto che la vita inconscia degli individui e delle masse avrebbero sempre e comunque trovato nella civiltà umana, al di là delle sue mutevoli forme storiche, dei freni inibitori, dei meccanismi repressivi, delle leggi fortemente autoritarie e limitative della libertà personale e collettiva.
I divieti civili, per Freud, non hanno un fondamento religioso, sacrale ma semplicemente razionale, e si spiegano semplicemente come necessità della psiche individuale e collettiva. Si tratterebbe ora di spiegare agli uomini, ormai pervenuti ad un sufficiente grado di maturità, che il fenomeno religioso è servito storicamente a tenerne imbrigliati quelle pulsioni distruttive che avrebbero potuto mettere a soqquadro gli ordinamenti civili, ma soprattutto che esso era finalizzato non già a negarne quanto a proteggerne gli interessi economici e sociali, anche per evitare che gli uomini e i cittadini possano rivoltarsi violentemente contro quelle istituzioni legittimate su base religiosa e per fare invece in modo che si limitino a trasformarle riformisticamente, senza di fatto porre in pericolo i fondamenti essenziali, ovvero il modo di produzione e i rapporti sociali, della società capitalistico-borghese occidentale. Egli sa che l’evoluzione civile si fonda su un delicato equilibrio tra apparati sociali repressivi, atti a contenere l’espandersi delle pulsioni distruttive, e spazi istituzionalmente consentiti di libertà e riservati ad un’estrinsecazione ragionevole, e quindi dotata di moderata potenza distruttiva, della propria energia libidica e pulsionale. Tutto sommato, la civiltà verrebbe a garantire alla specie umana una certa sicurezza e una relativa difesa delle libertà personali e collettive in cambio di una sua rinuncia sostanziale alla felicità. Ma giudizi molto critici sarebbero stati espressi sugli assunti freudiani circa l’originarietà dell’aggressività e della violenza umana. Per esempio, l’antropologo americano Alexander Alland Jr. avrebbe osservato molto polemicamente che «le teorie dell’aggressività ci insegnano che l’uomo è auto-distruttivo di natura. Ma se guardiamo le prove empiriche vediamo che l’uomo per natura non è né buono né cattivo»5. In particolare, avrebbe sostenuto sia contro Lorenz che contro Freud, che «l’ostilità ha le sue radici più profonde nel processo sociale» e che essa «è spesso il risultato dello sfruttamento economico» e dell’emarginazione sociale 6.
Ma, nella disamina freudiana del disagio della civiltà, si assiste ad una torsione concettuale curiosa e insieme significativa, perché di quella stessa fede religiosa, di quella stessa alienazione religiosa, che per secoli erano risultate funzionali ad una sorta di normalizzazione non solo degli impulsi criminali delle masse ma della loro stessa sete pulsionale di libertà eversiva oltre che creativa, adesso si reputava necessaria la rimozione dalla coscienza collettiva, ancora una volta al fine di salvaguardare la civiltà. A cosa era dovuta la percezione di una tale urgenza? Al fatto che, ormai, nell’epoca delle continue e straordinarie rivoluzioni della scienza moderna e postmoderna, le promesse della religione non potevano che apparire sempre «meno credibili» alle moltitudini. Peraltro, spiega Freud, esisteva il rischio concreto che del patrimonio scientifico si impossessassero non solo «gli strati superiori della società» e gli «uomini colti», ma anche «la gran massa degli incolti, degli oppressi», delle classi subalterne insomma, «che hanno tutti i motivi di essere nemici della civiltà»7.
Il venire in possesso dei moderni risultati scientifici implica necessariamente l’abbandono di ogni sorta di credenza religiosa, di ogni postulato extraumano ed extrastorico, e forse qualcosa di più, nel senso che un uso rivoluzionario del sapere scientifico potrebbe non essere più volto a perpetuare uno stato di diseguaglianza e oppressione sociale ma a trasformare profondamente non solo i contenuti per lo più repressivi della società, e in parte criticati dallo stesso Freud, ma le strutture stesse di una società costitutivamente iniqua e contraddittoria. Allora, Freud ritiene che, al fine di scongiurare possibili scenari storico-sociali esplosivi, spetti proprio alla scienza di elaborare strategie e soluzioni razionali e idonee a far sì che la religione, non più capace di assolvere la funzione tradizionale di instrumentum regni, venga convenientemente sostituita con nuove e più incisive forme di potere coattivo8. Ove infatti non fosse possibile frenare l’avanzata di «masse pericolose» verso un «risveglio intellettuale», sarebbe necessario rivedere radicalmente il nesso civiltà-religione, e rivederlo nel senso di perfezionare e rendere più efficaci e quindi ancora una volta abbastanza credibili, gli strumenti coercitivi della religione stessa. Questa proposta, in altri termini, comportava l’adozione di una religione puramente morale, laica, civile, con finalità immanenti e storiche che altro non possono essere se non finalità classiste e borghesi. Che era, come è facile constatare, il risultato di una psicanalisi derivante da una complessa commistione di scienza e ideologia.
Apparentemente, le posizioni freudiane sull’inconscio, sulla sessualità e sulle deviazioni sessuali, sulla psiconevrosi, sarebbero andate incontro a sonore contestazioni, nel corso del secondo novecento. In particolare nel ’68, la contestazione culturale giovanile avrebbe messo polemicamente in discussione il privato, la centralità della vita privata nel contesto sociale, nel senso che ormai doveva essere dato un taglio netto ad ogni cultura e ad ogni etica sociale di natura intimistica, individualistica: uno degli slogan sessantotteschi era “il personale è politico”, per sottolineare come persino la più riservata e delicata questione personale non dovesse più sottrarsi al dibattito politico ma essere trattata e possibilmente risolta in sede politica. E così anche certe antiche rivendicazioni femministe e omosessuali dovevano venire ormai alla luce, abbandonando lo spazio angusto di una personale conflittualità interiore, per essere analizzate apertamente, senza censure e senza sbarramenti inibitori di sorta, ed essere definitivamente liberate da un marchio tradizionale di anormalità. Oggi poi, in tempi di “pensiero unico”, da una parte, e di “politicamente corretto” dall’altra, in molti casi la psicanalisi freudiana appare morta e sepolta.
Ma il destino di ogni grande pensiero è quello di sopravvivere non solo alla propria epoca ma a qualunque altra epoca di menzogna. Di sopravvivere, certo, anche con i propri limiti, le proprie ambiguità, le proprie chiusure, tuttavia incapaci di oscurarne intuizioni e conquiste concettuali originali e geniali. Da una parte, la psicanalisi freudiana veicola una concezione sociale caratterizzata da una netta frattura fra l’individuo, di per sé asociale, con i suoi bisogni pulsionali da soddisfare, e la società con le sue necessità strutturali e sovrastrutturali che implicano la sostanziale mortificazione di quei bisogni individuali9. Una società, quindi, atomistica, tenuta in piedi con la forza del potere, in cui l’uomo è diviso tanto dall’uomo che dal lavoro, ed è anzi contro l’uomo. Una società, il cui rapporto dialettico con gli individui sembra sfuggire a Freud, per il quale pertanto ogni conflitto sociale viene «ricondotto ad una “lotta fra l’individuo e la società” e “la società” viene essa stessa assimilata ad una istituzione etico-giuridica la cui funzione proibitrice e repressiva è di tipo paternalistico»10, dove Freud avrebbe inteso sottolineare il carattere immutabile ed eterno di questa lotta, refrattaria ad ogni modificazione realmente storica perché in sé “naturale” e dove emerge chiaramente la psicologizzazione della società e la sua soggettivizzazione di stampo idealistico. Ma c’è anche il rovescio della medaglia, nel senso che scoperte psicoanalitiche come i segreti processi dell’inconscio, le sue impercettibili ma reali operazioni, restano ferme e preziose conquiste di un pensiero rigorosamente scientifico, pur potendosi forse eccepire, anche in questo caso, che sia in realtà problematica la preponderanza assegnata alla naturalità dei processi psichici rispetto alla loro storicità11.
Freud ha mostrato al mondo che la vita dell’uomo non dipende solo dalla sua coscienza ma anche, e forse soprattutto, dal suo inconscio, non dipende soltanto dalla sua razionalità ma anche dai suoi istinti e dalle sue pulsioni irrazionali: in tal modo, ha fatto emergere che la struttura esistenziale dell’uomo è molto più complessa di quel che si era pensato fino ad allora, ma tutto ciò non ha tolto nulla alla unicità e originalità dell’essere umano tra tutti gli esseri esistenti nell’universo. Se l’uomo era apparso un mistero prima di Freud, ancor più misterioso sarebbe apparso dopo di lui, ma poi Freud ha preteso anche di dare delle risposte “scientifiche”, delle spiegazioni vere e non presunte, dicendo che tutta la cultura umana corrisponde ad una gigantesca razionalizzazione mentale che, nel segno dell’oggettività, tende ad isolarsi e a prescindere dalle reali motivazioni inconsce in cui essa affonda le sue radici, donde il carattere semplicemente illusorio di tutte le visioni del mondo, di tutte le concezioni etiche e religiose, politiche e filosofiche, e così facendo egli avrebbe preteso contraddittoriamente di chiarire, di ridurre, di semplificare quel mistero, precipitando a sua volta su posizioni dogmatiche.
A disoccultare quelle radici, le origini reali del vissuto psichico da cui tutta la vita spirituale e ogni funzione ideativa, rappresentativa, critico-elaborativa, hanno inizio e si sviluppano, sarebbe solo la scienza psicoanalitica, la quale si scaglia con particolare ferocia contro la religione, definita come «nevrosi ossessiva dell’umanità», ritenendo che una civiltà che affida il proprio destino ad un messia, ad un salvatore, non può che rimanere infantile e immatura, perché il progresso della civiltà è opera solo dell’eros, anche se l’estrinsecazione e l’espansione delle sue pulsioni devono essere controllate e contenute da istituzioni che la civiltà stessa crea per proteggersi dagli eccessi, dagli straripamenti sempre in agguato dell’Io. Tutti gli ideali, ivi compresi quelli politici (donde il suo scetticismo anche contro il socialismo in ascesa che pure osserva senza pregiudizi), tutti i programmi emancipativi della civiltà sono e saranno sempre ostacolati dalla pulsione aggressiva e distruttiva dell’uomo, che potrà essere fronteggiata e frenata, se non domata, solo a colpi continui di razionalità. Ma, di lì a poco, il suo pansessualismo, la sua evidente tendenza ad una psichiatrizzazione non solo della vita individuale ma delle stesse relazioni interpersonali e sociali, e di ogni aspetto o fenomeno della vita civile e culturale, il suo unilateralismo logico-metodologico, avrebbero concorso a creare attorno alla psicanalisi quel discredito scientifico che, in molti casi, ancora oggi ne accompagna possibili sviluppi e apparenti approfondimenti, pur mantenendo ovviamente una sua indubbia influenza sulla cultura contemporanea. Ci si chiede con insistenza se oggi la critica freudiana alla religione in primis ma poi all’etica, alla filosofia, alla cultura in generale, non possa essere applicata alla stessa scienza, ivi compresa quella psicoanalitica, e se, proprio in virtù di tale applicazione, non si possa parlare con particolare cognizione di causa, di illusione scientifica, di false scienze, di ideologie scientifiche. In fondo, anche la scienza è una costruzione della mente e, come ogni altra costruzione mentale, è frutto di molteplici e unidirezionali manipolazioni psichiche dell’inconscio. Anche la scienza, al pari di tutte le attività logiche particolarmente intense, può assumere, secondo la lezione di Lacan, una forma paranoica e quindi psicotica, può essere considerata come effetto psico-nevrotico di un determinato e prolungato esercizio psichico inconscio.
Sarà, ancora per molto tempo, molto difficile pervenire ad una interpretazione conclusiva e sufficientemente plausibile sui reali punti di forza e sulle criticità della psicanalisi freudiana, ma, per il momento, una conclusione problematica sembra essere contenuta anche in un giudizio come quello qui di seguito riportato: «Freud, con il suo evoluzionismo darwiniano, è invecchiato molto. Presuppone che l’umanità sia incapace tanto di affrancarsi dallo sconforto infantile quanto di entrare nell’età della ragione, non sopportando nessun attacco al suo narcisismo. D’altro canto, Freud è più credente di quanto vorrebbe, in quanto “sedicente ebreo senza Dio”, crede al padre; secondo Lacan salva il padre. Freud è più cristocentrico di quanto si immagini. Uomo del passato, Freud non è per niente rivoluzionario. È sovversivo, il che non è la stessa cosa, se sovversione indica l’esistenza di una faglia, di un’apertura impossibile da suturare che designa l’inconscio. Su questo punto, Freud è sempre intempestivo. Del resto, la società si adatta benissimo a Copernico; a Darwin, a dire il vero, un po’ meno, ultimamente negli Stati Uniti. Con un freudismo degradato, esistono piccoli accomodamenti che fanno almeno obiezione alla genetica, come lo sviluppo personale, l’aspirazione a “costruirsi” nell’autonomia, ecc. Tuttavia, quando si vedono gli attacchi che subisce oggi, possiamo chiederci quali siano i moventi di questa nuova offensiva. Si tratta della stessa “resistenza alla psicoanalisi”?»12, di una di quelle tante, vecchie resistenze mediche e filosofiche alla psicanalisi13 denunciate, non sempre in vero a ragion veduta, da Freud ancora in vita?
Tra i principali critici di Freud figura Rudolf Allers, che ne sarebbe stato per un certo periodo di tempo un importante collaboratore e che è considerato il più grande psichiatra cattolico del ‘900. Questi, ad un certo punto si sarebbe rivoltato contro la psicanalisi contestandone alcuni assunti fondamentali, in particolare quello relativo all’eziologia freudiana della nevrosi. La nevrosi, anche per lo psichiatra cattolico, era conseguenza di un conflitto ma non di un conflitto semplicemente psico-biologico tra la pulsione sessuale e quella di aggressività da una parte e la difficoltà o impossibilità di dare ad essa piena soddisfazione, bensì di un conflitto più ampio, si può dire esistenziale, tra questo stesso conflitto neuro-biologico e sessuale e il modo spirituale dell’uomo-individuo-persona di rapportarsi ad esso. Era naturale, per Allers, che ove la creatura, non priva di una facoltà almeno relativamente autonoma di intendere e di volere, anziché assecondare le sue inconsce pulsioni sessuali e la sua volontà di potenza, non si fosse costantemente sforzata di controllarne e ridimensionarne la violenza esplosiva ed eversiva, sarebbe andato incontro ad accentuati disturbi di natura nevrotica e psicotica, mentre la possibilità di evitarli avrebbe potuto trovarla nella rinuncia intelligente e responsabile a rivoltarsi contro i suoi stessi limiti ontologici e costitutivi, ovvero contro la sua finitezza, la sua impotenza e la sua mortalità.
Ad essere messo in discussione non era quindi la conflittualità interiore in quanto tale tra forze contrapposte dell’Io, ma il modo di affrontarla, o nel senso di subirla, alimentarla, esasperarla, oppure preferibilmente nel senso di venire con pazienza e tenacia a patti con essa, senza diventarne succubi sia lasciandosene dominare sia opponendovi una resistenza parossistica. Questo sarebbe stato l’atteggiamento terapeuticamente più giusto dinanzi al magma incandescente dell’inconscio umano: lo sforzo graduale ma costante di prendere coscienza della nostra finitezza, che però non ha solo un lato passivo, statico, ricettivo ma anche un lato attivo, dinamico, reattivo, rinunciando sia ad essere solo vittime designate dell’inconscio sia ad essere artefici in senso esclusivamente narcisistico della nostra vita. Un po’ pascalianamente verrebbe da dire che l’uomo non è solo miseria e non è solo nobiltà ma una canna pensante, cosciente e volente, tra la miseria della sua irriducibile finitezza e la nobiltà della sua pur insufficiente tensione verso il bene.
Per Allers, pertanto, non c’è individuo o persona che non sia nevrotico ma l’esito della sua vita nel quadro della civiltà umana non è necessariamente quello di restare in balìa della nevrosi, giacché il fatto che la realtà non sia come noi la vorremmo non comporta di necessità la nostra totale insoddisfazione o infelicità di esseri umani 14. La voce autorevolissima di Rudolf Allers, per quanto ancora largamente e ingiustamente misconosciuta nel quadro del dibattito psichiatrico, psicoanalitico e scientifico internazionale, è a tutt’oggi la punta di diamante di una cultura cattolica che, continuando ad interagire criticamente e talvolta severamente con Freud, contribuisce ad accrescere in modo molto significativo il grado di problematicità e di interesse filosofico-culturale e scientifico della sempre più variegata, vivace e non di rado contraddittoria indagine sulla psicanalisi e sui suoi rapporti con tutti gli ambiti del sapere.
Francesco di Maria
NOTE
1 S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri, 1971, p. 289.
2 K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista, Torino, Einaudi, 1962, pp. 150-151.
3 Ivi, p. 148.
4 S. Freud, Il disagio, cit., p. 278.
5 A. Alland Jr., L’imperativo umano. La biologia e le scienze sociali, Milano, Bompiani, 1974, pp. 143-163 e p. 182.
6 Ivi, p. 70.
7 S. Freud, L’avvenire di un’illusione, in Il disagio della civiltà, cit., pp. 178-179.
8 Ivi.
9 Su questa frattura, si sarebbe soffermato L. Sève, in un libro scritto con C. B. Clément e P. Bruno, Per una critica marxista della teoria psicoanalitica, Roma, Editori Riuniti, 1975, riportando l’affermazione degli otto psichiatri comunisti francesi firmatari de La psycanalyse, idéologie réactionnaire (1949), secondo cui «ogni dottrina tendente a spiegare i rapporti esistenti tra l’individuo e la società sulla base di una concezione della “natura” dell’individuo isolato, falsa immediatamente il significato del problema».
10 L. Sève, cit., pp. 211-212.
11 Sul nesso tra soggettività e storia si può vedere l’importante volume di C. Luporini, Dialettica e materialismo, Roma, Editori Riuniti, 1974, in particolare p. 79 e p. 99.
12 A cura di A. Succetti, Declinazioni del desiderio dello psicoanalista. L’esperienza di Serge Cottet, Torino, 2020, Rosenberg&Sellier, pp. 148-149.
13 Resistenze alla psicanalisi è uno scritto freudiano del 1924.
14 Una delle principali opere di R. Allers è Psicologia e cattolicesimo, Crotone, D’Ettoris, 2016. Una valorizzazione di Allers nel quadro della psichiatria contemporanea è quella di J. O. Catter, Rudolf Allers psichiatra dell’umano. Per una psicologia filosofico-antropologica della persona umana, Crotone, D’Ettoris, 2013, ma da segnalare è anche l’opera di colui che ad Allers avrebbe affibiato l’epiteto di anti-Freud, oltre che la pertinente definizione di “psichiatra-filosofo”: L. Jugnet, Rudolf Allers ou l’anti-Freud, Reims, Groupe Saint-Rémi, 1950.