Etica senza metafisica? Una questione aperta

E’ di tutta evidenza che l’etica, incentrata sullo studio delle possibili condizioni di sussistenza e di perseguibilità del bene in relazione al comportamento dell’uomo considerato sia nella sua individualità isolata che nel suo essere relazionalità comunitaria o collettiva, non possiede una struttura logico-metodologica e una potenza euristica come quelle di cui appare dotata la scienza. Questo però non significa che l’etica non possa e non debba avere rapporti significativi con la scienza stricto sensu e, soprattutto, con gli effetti epistemici che il suo sviluppo storico viene di continuo producendo, anche perché la scienza non costituisce una realtà chiusa in se stessa ed autosufficiente ma è pur sempre un’emanazione, certo complessa, articolata e oltremodo sofisticata, dell’umana razionalità, per cui non sarebbe mai possibile ridurre quest’ultima a pura razionalità scientifica.  

Anche l’etica, al pari della scienza anche se in modi diversi, è un’emanazione progressiva, universalizzante e unificante, di razionalità umana. Ed è, pertanto, vero che essa non possa essere descrittiva, secondo le modalità proprie della ricerca scientifica, né possa spiegare e prevedere secondo i canoni e gli standard propri delle scienze specialistiche, ma possa solo prescrivere e valutare. Solo che tutto questo non comporta affatto che essa si basi su vaghi e generici “sentimenti” collegati più a processi “empatici” ed “emozionali” che a veri e propri processi razionali e conoscitivi, anche se non dotati del crisma del rigore logico-scientifico e sperimentale, giacché anche quella etica è un’interrogazione critica intrisa di razionalità che viene generando un sapere, etico per l’appunto, ma altrettanto significativo di quello scientifico sebbene su un diverso livello di indagine.

Se la verità scientifica è assurta a principale paradigma di universale conoscenza razionale, anche la verità etica e morale, sia pure con maggiore fatica, viene facendosi strada nell’intricato, confuso, frammentario e contraddittorio groviglio di credenze e valutazioni, esperienze umane e aspettative esistenziali, nel tentativo di dare un ordine e una forma anche in questo caso, a tale mondo in caotico fermento, un ordine e una forma virtualmente universalizzanti. Si può rispondere che, tuttavia, nella sfera della conoscenza etico-razionale, resta un margine di soggettività e anzi di soggettivismo di gran lunga più ampio di quello pure presente nella conoscenza scientifico-razionale, al che è pur sempre possibile replicare che ormai dal dibattito epistemologico in corso tendono ad emergere in modo sempre più evidente i limiti e le ambiguità  del mitico, e sia pure benemerito, concetto di oggettività scientifica, che sono cose ben note anche a Dario Antiseri, il quale, sulla scorta di un celebre libro di Uberto Scarpelli, si ostina a negare un fondamento non solo scientifico ma anche razionale all’etica, mentre qui si sta riconoscendo che, pur essendo vero che l’etica non sia scienza, non è altrettanto vero, come sostiene il citato epistemologo italiano, che l’etica sia priva di un suo specifico e attendibile “sapere” e, soprattutto, che l’etica sia “senza verità”1.  

L’etica, non solo secondo chi scrive, ha un fondamento razionale, che consente poi alle sue dinamiche di esercitare, a certe condizioni e in determinati casi, non solo una funzione prescrittiva, valutativa e imperativa, ma anche una funzione descrittiva di tipo esplicativo e predittivo2. Inoltre, si danno virtù talmente persistenti, nel corso della storia, e talmente radicati nella mente umana, che da valori finiscono per trasformarsi in fatti, donde un classico esempio di abbattimento della dicotomia tra valori e fatti. Ci si può chiedere altresì su cosa si fondino le virtù. Su determinate pratiche storico-sociali, sulla natura umana, sulla ragione? Là dove la risposta più ragionevole sembra essere quella che punta su una confluenza di tutte queste dimensioni, tra cui non manca appunto quella della razionalità. Questo insegna la Virtue Ethics, l’importante filone dell’etica contemporanea angloamericana. Si è naturalmente liberi di dissentire, ma di essa il filosofo non può non tener conto. Questo movimento etico-filosofico nasce dalla diretta influenza del “secondo Wittgenstein”, del Wittgenstein delle “Ricerche filosofiche”, dedito all’analisi dei linguaggi non scientifici ma altrettanto importanti di quelli scientifici perché radicati in oggettive e intersoggettive “forme di vita” da cui si originano e prendono corpo pensieri, modi di pensare e di dire, espressioni linguistiche e raffigurative, che non hanno una funzione rappresentativa e di cui quindi non si può parlare con chiarezza, come è invece possibile fare per le proposizioni scientifiche,  ma di cui tuttavia, sebbene “inesprimibili”, si intuisce l’importanza etica e risultano, pertanto, altrettanto significativi per l’esistenza umana.

Il filosofo austriaco, dopo il “Tractatus”, «rigetta l’idea che esista un linguaggio privilegiato artificiale per accedere al mondo»3, un linguaggio logico, formalizzato, in grado di aderire alle strutture e ai significati oggettivi del mondo reale, di quell’insieme di fatti che è il mondo reale. Il linguaggio logico-scientifico, che è un linguaggio relativo a fatti, ad esperienze fattuali, è ora considerato solo come uno dei possibili linguaggi con cui gli uomini si interrogano sulla loro esistenza, dal momento che nell’esistenza non ci sono solo fatti ma c’è molto di più e che, accanto alle proposizioni scientifiche di senso, resta un elevato numero di problemi (gravitanti tutti attorno a quelli della vita e di Dio) che, per il fatto di non poter ottenere risposte dotate di senso, non cessano certo di sollecitare la mente umana ad una continua ed inesauribile ricerca, quanto più precisa e corretta possibile, che venga tuttavia esercitandosi non più per mezzo di un linguaggio scientifico, che in tal caso non può essere utilizzato, ma per mezzo di altre modalità linguistiche capaci gradualmente di autodepurarsi o di non sottrarsi a controlli e revisioni di natura analitica.

Ora, è proprio questa tematica che ruota intorno allo stretto nesso tra usi linguistici e contesti socio-culturali, tra significati linguistici e mondo di bisogni pragmatici, tra funzione linguistica ed istanze etico-esistenziali, che avrebbero inteso ereditare e sviluppare pensatori come Elizabeth Anscombe, autorevole allieva di Wittgenstein, che fu la prima a volere la pubblicazione delle “Ricerche filosofiche” nel 1953, Peter Geach, Philippa Foot e Iris Murdoch, a cui sarebbero seguiti, tra tanti altri, noti pensatori come Alasdair MacIntyre, John McDowell, Martha Nussbaum. Qui c’era, in linea di massima, il comune tentativo di coniugare, non già attraverso indicazioni o modelli precostituiti di ricerca, le scelte etiche soggettive, frutto di esperienze e di contestualizzate pratiche linguistiche e culturali, con una ricerca di senso trascendente la mera fattualità e la stessa dimensione empirico-emozionale, sentimentale e consuetudinaria dell’agire etico, là dove potesse venire producendosi una fortissima tensione spirituale non meno che intellettuale tra le correnti visioni relativistiche dei valori e prospettive assiologiche di tipo assoluto.  Che, come si comprende, era ciò che tendeva a costituirsi come contraltare logico-teorico alle argomentazioni e alle conclusioni forse troppo sbrigative di Antiseri.

Sulla scorta di Wittgenstein, questi pensatori angloamericani, pongono domande di fondamentale importanza: non solo come il mondo è e secondo quali leggi funziona, ma come il mondo può essere e quali possono essere le sue verità costitutive al di là delle sue verità acquisite sia pure con un certo beneficio, scientifico, d’inventario. Domanda che ne presuppone un’altra: se il linguaggio scientifico debba considerarsi come linguaggio privilegiato del linguaggio ordinario o semplicemente come linguaggio di esso costitutivo e integrante al pari di qualsiasi altro linguaggio umanamente sperimentato e sperimentabile. Analogamente, l’interrogativo si pone in campo etico: dev’essere l’etica umana necessariamente identica o simile alle diverse forme storico-fenomenologiche di eticità spesso o quasi sempre totalmente prive di fondamento razionale almeno ipotetico (soggettivistica, scettico-relativistica, utilitaristica, edonistica, e via via sino ad includere tutto il panorama e il lessico iperpluralistici della società globale), oppure è da ritenersi pienamente legittima, anche o proprio in sede critico-fenomenologica, la ricerca di possibili forme alternative di moralità ed eticità? Se lo scopo dell’etica è di indirizzare l’uomo verso migliori condizioni generali di vita, si dovrà per questo puntare sul presupposto di una natura umana meramente biologica o sarà più conveniente prendere in considerazione quello di una natura umana biologica, razionale ed essenziale ad un tempo (nel senso di essenza originaria e permanente), la quale potrebbe consentire ai giudizi morali di non rimanere orfani di uno statuto preciso e riconoscibile e agli enunciati che li esprimono di conservare un significato incontestabile? Mettere o lasciare tali enunciati in balìa dell’emotività soggettiva che non sia più orientata da un suo contesto originario, essenzialistico, di appartenenza, non significa far sí che tale emotività finisca poco per volta ma ineluttabilmente per smarrire, tanto nel linguaggio quanto nella condotta pratica, la sua strada maestra nel mondo, il suo o i suoi originali sensi etico-veritativi?

Allora, posto che, nel mondo storico-empirico, la moralità soggettiva e l’etica sociale vengano evolvendosi, o meglio involvendosi o comunque orientandosi, verso forme sempre più demetafisicizzate, deontologizzate, mostrandosi vieppiù fragili e suscettibili di restare orfani di verità ma anche di un grado sufficiente di attendibilità e di efficacia assiologia, a prescindere da cui risulti molto complicato assicurare tanto il rispetto della dignità personale quanto la tutela di un’etica pubblica capace di garantire l’universalità dei diritti individuali e la coesione sociale e istituzionale dei popoli, non diventa legittimo e necessario pensare ad un’etica che, al di là dei suoi variabili costrutti teorici, venga configurandosi come rigorosa assunzione di responsabilità verso l’essere umano, e più precisamente sia verso la libertà del singolo io che verso la libertà dell’altro e degli altri a cui il singolo io è costitutivamente relazionato? Se il mondo tende a vivere di una crescente atomizzazione individualistica del suo corpo sociale, delle sue collettività pur relativamente progredite e organizzate sotto il profilo tecnologico-amministrativo, sarà o non sarà eticamente e politicamente indispensabile porsi il problema di come scongiurare in prospettiva, con provvedimenti pedagogicamente e culturalmente capaci di educare al rispetto dell’altro, delle altrui identità, e dell’alterità in generale, il profilarsi di forme esplosive e incontrollabili di prevaricazione e di conflittualità?

Ma, più in generale, sarà o non sarà eticamente rilevante che il pensiero, lungi dal rimanere relegato nell’ambito di problemi biologici e psicologici esclusivamente individuali e soggettivi e omologarli come unici o prevalenti orizzonti di senso etico, risulti inclusivo di esteriorità e di alterità, di ciò che mi si ponga di fronte con un volto e uno sguardo diversi dai miei? In fondo, si viene a sapere gnoseologicamente della propria identità, del fatto che io sono io, soltanto quando percepisco l’altro, perché è l’altro che mi sollecita e mi induce a cominciare e a continuare poi a riflettere su me stesso, mentre si viene ad agire eticamente se o quando l’altro entra e agisce nella mia coscienza con le sue esigenze reali e ineludibili. Sarà, dunque, rilevante che il pensiero sia dotato di una coscienza morale e da essa anzi sia costantemente alimentato? E cos’è la coscienza morale se non la consapevolezza che i nostri giudizi, le nostre scelte e le nostre azioni, hanno dei vincoli, cui essa non può sottrarsi, pena la perdita della sua ragion d’essere e della sua costitutiva finalizzazione etica? Sono tali vincoli a neutralizzare «la pretesa della sovranità assoluta e solitaria dell’io», per usare un’espressione di Emmanuele Lévinas.

Certo, nel caso di Lévinas, c’è il rischio che ci si lasci asservire, con questo ragionamento, alle ragioni dell’altro, giuste o sbagliate che siano, e ci si lasci troppo condizionare dalla tentazione di sancire persino un primato dell’altro sull’io4, trascurando inavvertitamente il fatto che anch’io, rispetto all’altro, sono altro, ma, in realtà, questo rischio può essere evitato, semplicemente guardando, osservando attentamente, non distrattamente o frettolosamente, l’altro, il mio prossimo, per cercare di capire quale sia la vera natura dei suoi bisogni, delle sue necessità, se sia una natura lecita o illecita per esempio, e se e in che misura eventualmente quei bisogni e quelle necessità siano commisurati alla mia reale possibilità, umana e persino evangelica, di intervenire e soddisfarli. Maria, la madre di Gesù, avrebbe fatto qualunque cosa per aiutare il Figlio mentre portava fisicamente la croce verso il Calvario, si sarebbe messa volentieri al posto del Figlio, ma, sia per motivi naturali che sovrannaturali, non le fu possibile fare per lui assolutamente nulla di “concreto” che ne alleviasse la sofferenza, tranne forse la speranza che le sue flebili e struggenti parole di vicinanza e incoraggiamento materni giungessero in qualche modo al suo udito e al suo cuore.

I vincoli razionali della coscienza, tra cui anche quello della trascendenza etica e non religiosa verso l’Altro e che per Lévinas non sono attinti dalla metafisica ma dalla stessa struttura antropologica del soggetto, sono fondanti, costitutivi, coessenziali, dell’agire morale. E’ sempre possibile l’errore, ma quei vincoli restano lì anche a ricordarci che dell’errore si può e si deve prendere atto, per scusarsi, per rimediare se ancora possibile, per espiare in maniera eticamente costruttiva l’errore, la colpa o il peccato commesso. E’ stato giustamente scritto che Emmanuel Lévinas, di fede notoriamente ebraica, «con la sua straordinaria lezione di generosità è probabilmente lontano da quella contrattazione sociale che ogni giorno pratichiamo nel tentativo di superare chiusura egoistica, da un lato, e annullamento masochistico, dall’altro, ma in ogni caso ci interroga sui nostri comportamenti, sulla liceità di un modo di procedere solitario e autoreferenziale, sulla difesa della nostra legittima ricerca della felicità e sul contemperare l’eguale aspirazione degli altri, in una tensione che, ancora una volta, richiede equilibrio, sintesi, capacità di compromesso, quello benefico, quello che include bisogni, diritti e doveri differenti, ma necessariamente risolvibili all’interno di un comune consesso.

Alla solitudine mentale del pensare, cui è giusto indulgere e che è doveroso preservare, fonte com’è di analisi autonome, dissidenti, se non rivoluzionarie, dovrebbe poi corrispondere l’apertura nel sociale e l’accettazione di una coscienza altrettanto portatrice di diritti. Ognuno di noi, abitante di questa terra, è altro per l’altro, io per l’io: il terreno d’incontro, necessario per continuare a vivere civilmente, è il riconoscimento reciproco, viatico alla mutua assunzione di responsabilità»5. Il “comune consesso” e “la coscienza” come principio di razionalità, eticità e diritto: sembrano una ragionevole base di partenza per evitare che il senso della civiltà umana si disperda in una miriade di piccoli e meschini sensi quotidiani generati da una mediocre idea di soggettività umana. Ma, fino a quando nel mondo e nella storia, non si imponga o non si affermi un’autorità indiscussa che si ponga alla base e a giustificazione di quel “comune consesso” e di quella coscienza antropologico-razionale, sarà sempre difficile sottrarre l’etica a controversie e diatribe che concorrano enormemente a ridurne, se non a negarne, il significato universale.

Un passo ulteriore, che potrebbe rendere ben più solido l’impianto teorico e programmatico di un’etica responsabile dell’alterità, potrebbe essere allora quello metafisico e religioso, e più esattamente, per la preminente universalità che in sede storica e culturale ad oggi è stata ad esso riconosciuto, potrebbe essere il cristianesimo evangelico sempre tramandato e predicato dalla parte migliore della Chiesa di Cristo, anche perché, mentre Lévinas distingue tra il Bene sommo e l’Essere, collocando il primo al di là del secondo, al di là di quella insondabile permanenza trascendente di significati e di valori che è la stessa immutabile verità divina e da cui lo stesso Bene sommo pensabile e sperimentabile da mente e coscienza umane non può tradizionalmente che trovare le sue radici, mentre Lévinas compie quest’operazione, quasi che un valore potesse o possa sussistere senza una sua verità ontologica di appartenenza, il punto di vista cristiano áncora molto più strettamente i valori morali, e in particolare il Bene, ad un’originaria, infinita e trascendente patria ontologica di verità sui cui statuti si trovano indelebilmente scritti e sigillati tutti i possibili contenuti e modalità della vita etica del genere umano, ai quali beninteso gli esseri umani restano liberi di ottemperare o non ottemperare.

Ma la prospettiva etica cristiana resta lontana da Lévinas in conseguenza del fatto che il suo Dio resta irraggiungibile, indeterminato, indefinito, in tutti i sensi possibili e immaginabili. Il suo Dio è pur sempre il Dio totalmente impenetrabile, inaccessibile del Primo Testamento, è un Dio puramente metaforico e radicalmente «irrivelato», e della cui presenza è tuttavia possibile scorgere un indizio, solo un indizio nel volto dell’altro. Il problema è proprio quello per cui il Dio di Lévinas non è quello della Rivelazione evangelica, non quello che si è incarnato, è morto crocifisso ed è risorto nella gloria della vita eterna per la redenzione stessa del genere umano, per cui a lui si può risalire solo attraverso quell’«indizio» umano, anche se in tal modo il rischio è che, alla fine, il Dio-astrazione, mediato dall’Uomo come concreta esperienza, finisca per essere pensato e vissuto in senso antibiblico e in un senso filosoficamente oscuro, ovvero non già come Colui che ha creato l’uomo “a sua immagine e somiglianza”, ma come Colui la cui identità sussisterebbe “a immagine e somiglianza” dell’uomo, che, come ben si comprende, è un’operazione interpretativa non solo di difficile e irrealistica comprensione ma anche profondamente divisiva nel quadro della comunicazione etico-religiosa: «Non vorrei definire niente attraverso Dio poiché è l’uomo che conosco. È Dio che io posso definire attraverso le relazioni umane e non l’inverso. La nozione di Dio: Dio lo sa, non sono contrario ad essa! Ma, quando devo dire qualcosa di Dio, è sempre a partire dalle relazioni umane. L’astrazione inammissibile è Dio; è in termini di relazione con Altri che parlerò di Dio»6.

E’ vero che, evangelicamente, per amare Dio che non conosciamo, bisogna amare il prossimo bisognoso che conosciamo, perché, come recita 1Gv, 4-20, “Se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi?”, ma, d’altra parte, quella espressa da Giovanni è condizione necessaria ma non sufficiente per coltivare un sincero e genuino sentimento d’amore verso Dio. Dio non si può ricavare semplicemente per analogia da una riflessione, per quanto estesa e profonda, su concrete esperienze relazionali di tipo interpersonale o comunitario. Peraltro, disconoscere, persino nel quadro di un possibile approccio esegetico, l’immenso significato salvifico-sacrificale della generosissima decisione di Dio di rivelarsi alle creature per mezzo del suo Figlio unigenito, comporta un’evidente incapacità di lettura critica, e più esattamente l’incapacità di capire che proprio Dio, nella sua estraneità e alterità assolute, possa non aver ritenuto e non ritenere l’uomo capace di ricongiungersi con Dio, semplicemente muovendo da qualche “indizio” umano di Dio, ovvero da se stessi e da un naturale sentimento umano di pietà o di compassione verso l’altro, da un approccio umanamente partecipe e responsabile verso un prossimo estraneo e diverso da me, ma abbia ritenuto e ritenga a quello stesso scopo necessario che l’uomo apprendesse e apprenda direttamente da Dio la dimensione più inedita e più scandalosamente eversiva e produttiva del senso stesso dell’amore, dell’apertura al volto dell’altro, della donazione all’altro: la dimensione della croce che solo attraverso una rivelazione divina, e non senza fatica, poteva e può essere acquisita da una coscienza morale integralmente umana. Quel che probabilmente non comprende il filosofo francese è che la rivelazione è funzionale ad un’amplificazione, non già ad un restringimento o ad una riduzione delle possibilità conoscitive della ragione e della stessa ragione critica.

E’ chiaro il suo tentativo di spezzare ogni dipendenza dell’etica dalla metafisica e dalla teologia che ne fa parte, e quindi di invertire il percorso tradizionale da Dio all’uomo per procedere dall’uomo a Dio. Ma è possibile risalire a Dio attraverso la relazione compassionevole e solidale con l’altro, specie se sofferente e bisognoso di cura? Per Lévinas è possibile solo a condizione che si faccia consistere l’esperienza della divinità, l’incontro con essa, nel rapporto di umanità, nella relazione stessa che si instaura tra me e l’altro. Non c’è un Dio che mi aspetta da qualche parte per il bene che ho compiuto in questo mondo e che mi consentirà un giorno di contemplarlo per l’eternità o di godere di tutti i beni celesti. Dio non è altrove, è qui nel mio essere insieme all’altro e per l’altro, al e per il povero, allo e per lo straniero, per l’incolto o l’ateo, il disabile o il nemico. Che, fin qui, è un discorso perfettamente evangelico fatto da un ebreo non cristiano-cattolico, sebbene ancora non abbastanza significativo ed esaustivo sia sotto il profilo logico-concettuale che sotto quello biblico-religioso. Ma è anche un punto che occorre chiarire con grande rigore nei seguenti termini.

I cristiani devono essere caritatevoli e quindi, in egual misura, proiettati verso il prossimo e verso Dio, pur tenendo ben presente che Dio è autore della vita e creatore dei suoi figli: essi sanno di essere stati creati e di essere tra loro uguali e diversi, identici e differenti, e di dover convivere nella loro medesimezza e nella loro alterità, di doversi aprire alle differenze altrui nei limiti in cui tali differenze siano, per quanto irriducibili ai nostri meccanismi psicologici, alle nostre abitudini o ai nostri schemi mentali, alle nostre categorie culturali, pur sempre legittimamente riconducibili agli statuti evangelici di pensiero e di comportamento, e non siano invece espressione di forme anomale o abnormi di vita intellettuale e morale. La filosofia della differenza, nella sua forma più compiuta, nasce col cristianesimo, non con certe rivoluzioni del pensiero moderno, ed essa ci pone nella condizione di leggere l’Occidente in modi molto più chiari e persuasivi di quanto riescano a fare certi specialisti contemporanei della diversità, della differenza, dell’alterità. Molti di costoro, infatti, sembrano non rendersi conto che le differenze, la pluralità di opinioni, la democrazia stessa, sono realmente grandi valori umani e civili solo ove se ne sappiano intendere e individuare razionalmente limiti e inevitabili ambiguitàLa libertà, la democrazia, la stessa fede religiosa, si nutrono e devono nutrirsi di diversità, di pluralità, di differenza, purché non si ignori che esse possono sempre convertirsi nel loro contrario, nei paradigmi di un pensiero totalitario, dove se ne faccia un uso arbitrario e sconsiderato, dove più in particolare si vengano collocando tutti i valori, tutte le forme di pensiero, di etica e di fede, su un medesimo piano qualitativo, come se tutte le diverse espressioni filosofiche, spirituali o religiose avessero necessariamente o potessero avere lo stesso peso o la stessa capacità di incidenza sulla qualità della vita personale e collettiva, sul progresso complessivo del genere umano.

Oggi viviamo in un tempo e in una società di eccessi: e gli eccessi, anche se intrisi di belle parole e di enfatici proclami di civiltà, sono sempre nemici dell’umanità pensante, senziente e sofferente di questo nostro difficile e complicato mondoLa diversità è senza dubbio una ricchezza possibile e reale ma, come nota il filosofo francese di origine ebraica Alain Finkielkraut, cui non è estranea una qualche influenza dello stesso Lévinas, essa non può essere valorizzata a scapito della identitàdi una determinata tradizione di pensierodi un ben definito modello di civiltà. La storia di ognuno come di ogni popolo può essere sempre arricchita, migliorata, ma non può essere azzerata o abolita nel nome di un’ospitalità, di un’accoglienza, di una condivisione indiscriminate. Perché la diversità abbia un senso, bisogna che essa sia colta anche nei suoi limiti, nelle sue intrinseche difficoltà di interdipendenza e integrazione in un o con un mondo che non ha bisogno solo di novità, di contaminazione, di continua modernizzazione, ma anche, almeno nella stessa misura, di stabilità, di identità, di frontiere, in virtù delle quali sia sempre possibile arricchire se stessi, rimanendo e non distruggendo tuttavia se stessi7.

Bisogna sapersi aprire all’altro ma non per confondersi con l’altro o per abolirsi nell’altro, bensí per conservarsi rispetto all’altro e per distinguersi dall’altro anche se possibilmente con l’aiuto e in compagnia dell’altro. Ma oggi, commenta il suddetto filosofo, «in Francia e in Europa stiamo assistendo al rigetto puro e semplice dell’identità, a un vero e proprio processo di “disidentificazione”. Rifiutiamo sia l’identità particolaristica che quella universalistica, e concepiamo la Francia e l’Europa semplicemente come spazi per l’espressione delle culture “Altre”». Non che la Francia e l’Europa non siano pronte «ad affermare l’universalità dei diritti dell’uomo, a riconoscersi nei valori della tolleranza e del rispetto, ma esse non assumono il loro essere, rifiutano di concepirsi come specifiche civiltà. Quando si tratta di affrontare la questione dell’integrazione, l’Europa proclama che essa deve avvenire nei due sensi, cioè che la cultura del paese o del continente d’accoglienza non deve avere alcun privilegio su quella dei nuovi arrivati», il che significa anche, al di là delle convinzioni ebraiche di Finkielkraut, che la civiltà europea, che è civiltà cristiana per eccellenza persino nelle sue migliori versioni laiche, non dovrebbe più rivendicare, sia pure con la dovuta umiltà e con il sincero ripudio di accenti trionfalistici, il legittimo primato della religione e della civiltà cristiana e cattolica su qualsivoglia altro tipo di religione storica. Quella di Finkielkraut sarà pure una posizione reazionaria, ma, per molti motivi, è difficile comprendere la motivazione razionale di quest’ultima pretesa.

Almeno i cristiani non sono, e se lo sono è ora che non lo siano più, degli ingenui, degli sprovveduti e incapaci di discernimento, e sanno bene che né il vangelo, né la migliore Tradizione della Chiesa fa loro obbligo di propugnare una sorta di spiritualità ecumenica in cui si tratterebbe di accogliere tutte le istanze, le rivendicazioni, spesso sciocchezze o sirene, della grande famiglia umana. I seguaci di Gesù non sono chiamati ad essere degli esaltati, dei fanatici esibizionisti della fede: è la vita nella sua normalità che verrà ogni volta sollecitandoli a dare testimonianza della loro fede, ora in situazioni più agevoli ora in situazioni più difficili o complesse; non sono essi che devono a tutti i costi, e magari aderendo ad una diffusa mentalità ideologica e demagogica, crearsi o provocare situazioni di conflitto o di pericolo pur di manifestare il loro sincero e appassionato amore verso il Signore. Le difficoltà, le contrarietà, i conflitti, cui oggettivamente un cristiano non può sottrarsi e attraverso cui gli sia quindi possibile e necessario testimoniare la propria fede, nella vita di ogni essere umano non mancano mai e, se anche in forme e gradi diversi, non possono non procurare seri grattacapi, incomprensioni, ostilità, a chi prende sul serio il suo umilissimo ruolo di soldato della fede in Cristo. Ma Lévinas non avrebbe potuto capire. 

Premesso e riconosciuto che io faccio piena e concreta esperienza etica di Dio, tutte le volte che esco dal perimetro più egocentrico del mio io, tutte le volte che trascendo il mio istinto di autoconservazione, la mia prudente e timorosa chiusura in me stesso, per consegnarmi a una realtà umana che non conosco e potrebbe complicarmi in tanti modi la vita, è logicamente e concettualmente inammissibile che Dio non esista più per me e venga come dissolvendosi anche se accade che io non mi apra e mi offra all’altro, al diverso, al simile-dissimile, sia perché anch’io, come l’altro, ho i miei limiti, le mie sofferenze, le mie angosce non necessariamente e deliberatamente egoistiche, a ragione di cui solo Dio potrebbe aiutarmi, sia anche perché l’alterità non è sempre e comunque espressione di una legittima domanda umana di amore fraterno e solidale, potendo anche configurarsi come minaccia intenzionale non solo per la mia vita ma anche e soprattutto per la vita di conterranei, connazionali, correligionari, oltre che di parenti e amici. Dubito si possa sostenere che l’amore biblico-evangelico preveda e prescriva il dovere di sacrificare affetti, princìpi morali, valori familiari non solo legittimi ma assolutamente conformi alla divina volontà, in funzione del presunto obbligo caritatevole e solidaristico di accogliere incondizionatamente l’altro, per soddisfarne ogni impellente necessità, anche se sia virtualmente o realmente di volontario nocumento per coloro che se ne siano dati pensiero.

Non è vero, infine, che il senso più stringente dell’etica e della stessa etica biblica consista nel fatto che l’uomo debba assumersi la responsabilità della sua libertà e quindi di tutte le sue scelte senza poter contare su indicazioni, consigli, avvertimenti, promesse da parte di Dio e di un Dio affetto da mutismo permanente, giacché in realtà, direttamente o indirettamente, almeno il Dio delle Sacre Scritture è un Dio tanto silenzioso quanto loquace, tanto nascosto e assente quanto rivelato e presente costantemente nella vita materiale, etica e spirituale di ogni essere umano.

Francesco di Maria

NOTE

1 Sto alludendo a D. Antiseri, Etica senza verità, in “Ithaca: Viaggio nella scienza”, 2017, X, pp. 109-112, che si richiama a U. Scarpelli, Etica senza verità, Bologna, Il Mulino, 1982. Mi spiace non poter estendere qui il mio argomentare ed esemplificare anche in polemica con la tesi di origine humeana secondo cui altro è il campo delle proposizioni scientifiche, altro quello delle credenze morali, nel senso che la logica esplicativa e predittiva varrebbe, in modo tassativo, solo nel primo caso, e non anche nel secondo, e che tra fatti e valori, sul piano conoscitivo, non sussisterebbero punti di contatto.

2 Un’esemplificazione potrebbe essere forse fornita da una proposizione di questo tipo: posto che, come esseri pensanti, volenti e senzienti, gli uomini aborrono l’ipotetica, gratuita e deliberata uccisione di qualunque persona considerandolo atto gravemente immorale, ne segue che principio universale di giudizio etico umano è per essi quello per cui ogni uccisione gratuita e deliberata merita di essere giustamente sanzionata, perché, ove ciò non accada, possono derivarne, prima o poi, gravi conseguenze per l’umana e civile convivenza, dove, come si vede, tutto viene espresso in termini non già di “proposte imperative” ma di semplici “proposizioni indicative”.

3 G. Pili, Le ricerche filosofiche e il secondo Wittgenstein, in “Scuola Filosofica”, 1 febbraio 2017, pp. 7-9.

4 T. Simeone, Il pensiero è coscienza morale, in “Micromega” del 26 novembre 2021.

Ivi.

E. Lévinas, Trascendenza e altezza, in Libertà e comandamento, Roma, Inschibbolet, 2014; E. Lévinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, Milano, Bompiani, 2011, p. 360.

Intervista di R. Casadei a A. Finkielkraut in “Tempi” del 12 gennaio 2014.

 

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